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Capitolo 68

Ethelwulf era stato chiaro: avrei sofferto molto più di quello che aveva sofferto lui a causa mia. Una scossa mi fece perdere l'equilibrio quando mi rivenne alla mente quella scena.
Tutto cominciava a prendere senso.
Ethelwulf, durante i periodi trascorsi insieme, tra una pagina scritta e una tazza di tè, non mi aveva mai dato l'impressione di essere un uomo rancoroso, bensì gentile e altruista.
Quel gesto da parte sua però me lo sarei dovuto aspettare e non facevo altro che arrovellarmi le meningi, quasi a farle consumare, sul perché non mi fossi preparata mentalmente al suo verificarsi.

Barcollai un'altra volta quando il mio piede toccò il brecciolino di Livingstone, forse per colpa dei sassi bianchi e irregolari, forse a causa del colpo basso che mi aveva inferto.
Non volli giudicarlo, affatto. Avrei voluto però affrontarlo, spiegargli come erano andate le cose e poi chiedergli, se il suo desiderio di vendetta era così indomabile come aveva dimostrato, il perché non avesse considerato qualche altro modo per punirmi, al posto di quello che aveva scelto. 
Quella vigliaccheria era ricaduta anche su persone innocenti, quando l'unica colpevole ero io.
Il viaggio verso Livingstone era durato una notte intera, la principessa aveva infatti voluto partire con il buio e privarmi del sonno. Ero convinta lo avesse fatto di proposito.
Avevo viaggiato su una carrozza in cui a malapena riuscivo a entrare io e in cui era praticamente impossibile stiracchiare un braccio o sistemarsi la gonna sotto le gambe. Per tutto sfregio lei aveva optato per una sistemazione ampia, confortevole, che le avrebbe permesso addirittura di abbandonarsi a un lungo sonno.
Al momento della partenza fui colta da una sensazione strana: ebbi quasi l'impressione che Jocelyn volesse mia figlia tutta per sé. La guardava di sbieco, poi con occhiate quasi amorevoli che terminarono per trasformarsi in alcune cariche di collera. Lentamente aveva cominciato a rivolgerle lo sguardo più frequentemente rispetto al giorno in cui era arrivata. Dovetti convincermi che lo facesse perché in quella bambina rivedeva suo marito, i suoi lineamenti marmorei e il suo fascino antico, e lei per quell'uomo sarebbe morta d'amore, anche se l'aveva tradita davanti a pubblica piazza.
Sembrava essere nel bel mezzo di una guerra interiore.
Arrivò il momento in cui si avvicinò con le mani protese per prenderla in braccio, accompagnata da un sorriso velato, successivamente una vocina interiore dovette metterle di fronte l'evidenza che la bambina senza sua madre non avrebbe potuto mangiare e che per tutte quelle ore avrebbe patito la fame. Dovevo allora considerarmi fortunata: dopo quasi quattro mesi dalla sua nascita producevo ancora molto latte.

Io e mia figlia eravamo state segregate per tutta la durata del viaggio, senza possibilità di sgranchire le gambe o di urinare. Una volta arrivata a destinazione avevo la vescica che minacciava di scoppiare da un momento all'altro.
Amaranta era stata buona fino a quando la carrozza aveva calpestato terreno inglese poi, quasi avesse percepito l'attraversamento del confine, era scoppiata in un pianto incontrollato, forse perché non riconosceva quella terra come sua, forse perché aveva un brutto presentimento su ciò che sarebbe successo.
Quando riconobbi palazzo Livingstone da lontano ebbi un sussulto al cuore e un estremo senso di nostalgia. Dovetti ammettere a me stessa che mi era mancato come fosse casa mia e che se ivi stavo tornando era perché mi ero illusa che villa Artemide sarebbe stata la scappatoia perfetta.
D'un tratto vidi la carrozza della principessa allontanarsi sempre di più, fino a quando non raggiunse l'ingresso principale del palazzo.
Mi resi conto che avevo cambiato direzione e che mi stavano dirigendo sul retro.
La principessa non solo non voleva che ci vedessero insieme, ma voleva riservarmi anche il più freddo dei benvenuti.
Quando varcai l'uscio di una delle tante porte di servizio non ci fu nessuno ad accogliermi. Anche il cocchiere se ne era andato.
«Salite al primo piano, il maggiordomo vi aspetta!» disse una voce che non riconobbi. Era un ragazzo dal volto nuovo, molto più giovane di me, forse da poco entrato nella pubertà. Era uno dei nuovi acquisti nel personale della principessa che mi scrutava con sguardo perso e timoroso, di chi era stato assunto da poco e aveva paura a sbagliare anche nel fare un respiro in più di quello concesso.
Mi appropinquai sulle scale in legno e salii un gradino dietro l'altro, pregustando ciò che mi attendeva. Ero sicura che con Sir Jacques potevo stare tranquilla.
Perimetrai la scala a doppia rampa all'ingresso, con i suoi due leoni da guardia in marmo a incutere timore a qualsiasi forestiero fosse venuto in visita, attraversai il vestibolo e infine mi immisi nel corridoio per raggiungere la sala Afrodite, luogo in cui Sir Jacques era solito tenere le sue udienze.
Una volta girato l'angolo, ahimè, vi trovai una lunga fila di domestici, chi a destra, chi a  sinistra, che sembravano non attendere altro che il mio arrivo.
Doveva essersi sparsa la voce che presto sarei tornata a palazzo e quando scorsero Amaranta tra le mie braccia, alcuni non risparmiarono un verso di meraviglia.
Mi irrigidii ancora di più quando vidi la principessa comparire all'estremità opposta. Mi guardava con aria di sfida, con il mento all'insù e con un velo di compiacimento sadico.
«Prego, venite!» ordinò ad alta voce.
Rabbrividii, ma poi una scarica di adrenalina mi irrorò le vene. Avevo paura per mia figlia.
Avanzai lentamente lanciando occhiate di sfida a tutti quei volti che cercavano di farsi spazio per assistere alla scena, alla donna che era scomparsa all'improvviso e che poi era riapparsa portando con sé un nuovo mistero. Non ero sicura infatti che tutti conoscessero la storia, ero convinta che Jocelyn si fosse assicurata di non far spargere la notizia.
Alcuni erano volti nuovi, altri invece li riconobbi ma era come se non li avessi mai visti.
Stringevo Amaranta tra le mie braccia, quasi a farle male. La bambina, che nel frattempo si era svegliata, mi guardava perplessa con i suoi occhi grandi e verde reseda, facendoli danzare sul mio viso e emettendo di tanto in tanto qualche piccolo verso. Dopo quattro mesi avevo la rassicurazione che qualcosa da me l'avesse preso.
Seguii la principessa e in meno di poco entrai nella sala Afrodite dove c'era anche Sir Jacques ad attendermi. Esattamente come avevo immaginato.
Le porte vennero chiuse con un forte tonfo, a dispiacere di tutta la calca che si era radunata lì per origliare. Camminai lentamente, scrutando guardinga coloro che erano in mia attesa.
Sir Jacques sobbalzò e il suo sguardo mutò espressione quando vide la bambina, ma non ci mise molto a ricomporsi. Doveva aver capito.
All'improvviso, come in una scena teatrale, comparve Godwin da dietro. Non mi ero accorta della sua presenza e tantomeno avrei pensato di ritrovarmelo lì dopo tutto quel tempo. Scoppiò in un assordante e disgustoso ghigno malefico.
«Cognata, te l'avevo detto io! Dannazione, ancora non capisco perché ti ostini a non fidarti di me! E ora guarda chi abbiamo qui, la bastarda di mio fratello e la sua puttana! Devo dire però che la somiglianza è sorprendente!»
La principessa non si scompose, ma avrebbe voluto decapitarlo.
«Perché sono qui... » domandai, preparandomi al peggio.
Jocelyn cominciò a picchiettare il pavimento con i suoi tacchi, disegnando con i suoi passi la forma circolare dell'ambiente. Théodore, dal canto suo, era immobile e mi destinava sguardi carichi di apprensione.
La donna si fermò d'un tratto di spalle, pronta a emettere sentenza.
«Signorina Gleannes, le domande dentro questo palazzo le faccio io.» temporeggiò e fece scrocchiare il collo.
«Sir Jacques, fate vedere alla signorina Gleannes la sua nuova stanza.» fu questa l'unica risposta che ricevetti. Avrei dovuto tranquillizzarmi ma inspiegabilmente la mia agitazione sormontò come un uragano.
Sir Jacques fece un inchino con la testa e acconsentì, illustrandomi la strada con le mani.
Mi sembrò di essere tornata al mio primo giorno di servizio, quando era stato proprio lui a presentarmi la mia sistemazione.
Infilò le chiavi nella serratura e mi fece entrare. Era una stanza carina, dal pavimento verde e con due grandi finestre coperte da tende bianche e leggere. Al centro della stanza c'era un letto con una lettiera in legno dorato e al suo fianco un comodino con una piccola lampada a olio.
Vicino al letto vi trovai una culla sempre in legno dorato. Pensai che non dovesse essermi andata così male ma poi Sir Jacques proferì quelle parole.
«Dovrete rimanere qui, fino a nuova disposizione.»
Sentii freddo di botto e un'asfissiante paura schiavizzarmi.
«Cosa intendete?» ero allarmata.
L'uomo sospirò e inarcò la bocca, dispiaciuto anche lui per quella realtà.
«Intendo dire che non vi è concesso uscire da questa stanza, a meno che non sia la principessa stessa a richiederlo.»
Il petto si fece incredibilmente pesante e il respiro corto e ritmato. Per un momento persi l'equilibrio e dovetti cercare appoggio da qualche parte.
«Una prigioniera? Sono stata portata qui per vivere come una prigioniera?» gridai con le lacrime agli occhi.
Scrollò le spalle. Non aveva potere su una decisione presa dall'alto.
«Mi limito a osservare i comandi che mi sono stati impartiti.»
«E non avete pena per me e per questa figlia innocente? Acconsentite davvero a questa clausura? Credevo che nella nostra conoscenza fossimo andati oltre, che fosse nata un'amicizia o quanto meno una simpatia!»
«Anthea, non ho voce in capitolo e se questo è il volere di Sua Maestà io non posso che eseguirlo.»
I miei occhi divennero una fessura, gli puntai il dito contro per la disperazione, tanto da farlo barcollare.
Mamma orsa era allora più feroce che mai.
«Théodore, decidete da che parte stare! Sappiate che sono a conoscenza della vostra relazione con Sir Robert e non credo abbiate interesse a che questa voce si venga a scoprire» si sentì immediatamente nudo, come Adamo e Eva nei giardini dell'Eden «poiché come io sono fonte di vergogna per questa bambina, lo sarete anche voi e la vostra perversione agli occhi di quella sadica di Jocelyn!»
Sir Jacques mi fissava esterrefatto e offeso per la mia esternazione. Non si capacitava del fatto che io sapessi e soprattutto del come avessi saputo. Si interrogò se fosse stato qualcuno a spargere la voce, se fosse stato lo stesso Sir Robert ma poi improvvisamente questi pensieri persero di valore.
«Mi meraviglio del fatto che pensiate possa stare dalla vostra parte solo sotto ricatto! Come ho detto sono solo un mero esecutore degli ordini altrui.» detto questo se ne andò, sbattendo la porta con violenza e lasciandomi ai miei sensi di colpa ma anche alla rassicurante consapevolezza che almeno un alleato dentro quelle quattro mura l'avevo trovato.
Quel giorno sarebbe iniziata la mia prigionia e, caso strano, mi trovavo anche a pochi passi dalle stanze della principessa. Tutto era stato architettato con cura per potermi controllare e per farmi sbriciolare pezzo dopo pezzo.

Ero affacciata alla finestra, cullando e baciando Amaranta per farla addormentare e per confidarle che no, non avrei mai permesso che qualcuno potesse farle del male, quando riconobbi Lydia.
«Lydia!» urlai dall'alto. La ragazza si girò in qua e in là per capire chi l'avesse chiamata. Urlai nuovamente il suo nome. Finalmente alzò lo sguardo e mi riconobbe.
Le feci cenno di raggiungermi e questa prese la corsa dentro il palazzo.
In meno di qualche minuto era a bussare alla mia porta. Entrò quatta quatta, buttando uno sguardo nei paraggi per accertarsi che nessuno l'avesse vista.
«Sai che non potrei essere qui!» sussurrò, dopodiché mi abbracciò e mi rimase incollata a lungo, per recuperare tutto quel tempo che eravamo rimaste divise.
Chiacchierammo del più e del meno. Conobbe mia figlia e volle tenerla tra le sue braccia ma non mi fece alcuna domanda su di lei. Non sapevo se fosse a conoscenza dei fatti o se si limitasse a seguire le istruzioni che le erano state impartite. Decisi di non indagare.
«Lydia, sapete dov'è Ethelwulf?»
Questa mi guardò sbalordita «Ethelwulf?» scandì bene le parole per accertarsi che avessi pronunciato effettivamente quel nome.
Annuii. Avevo una forte urgenza di parlare con lui.
«La tua domanda mi lascia perplessa... non sai? Ethelwulf è andato via da palazzo un mese dopo il fallimento del vostro matrimonio e non vi ha più fatto ritorno! È evaporato! Scomparso! Se sapessi in quale parte del mondo si trova te lo direi di certo!»
Quelle parole rigirarono nella mia mente. Ero completamente esterrefatta, come se mi fossi svegliata troppo in fretta da un sogno, disorientata e scombussolata.
Lydia se ne andò e mi lasciò da sola con quella rivelazione.
Se Ethelwulf non aveva rapporti con i Kynaston da più di un anno, lui non c'entrava nulla con quella faccenda.
Mi sentii in colpa per aver dubitato di lui. Anche di fronte al mio comportamento poco nobile, si era riconfermato essere la persona genuina e leale che avevo imparato a conoscere.
Ero da capo a dodici. Le uniche persone che sapevano e di cui avevo sin da subito sospettato avevano finito per rivelarsi innocenti.
La domanda su chi fosse stato a raccontare tutto mi martellava il cervello.

Udii bussare alla porta.
Quando andai ad aprire mi ritrovai di fronte una montagna di boccoli neri e due occhi scuri e vispi a sorridermi.
Marfa si buttò al mio collo, esaltata per avermi finalmente rivista.
La abbracciai a mia volta e di istinto.
Prese a parlarmi con la velocità di un fulmine ma improvvisamente la sua voce divenne sempre più ovattata, fino a quando non si trasformò in un debole suono di sottofondo.

E infine ti avrei presentato la pietra più preziosa dell'universo, la mia stella polare: Amaranta Kynaston.

Le avevo scritto una volta.
Mi tremò la terra sotto i piedi. Ero stordita, svuotata. Una scarica elettrica mi fece vacillare.
«Ti senti bene, Anthea? Ti senti bene?» udii a malapena in sottofondo.
Oltre a Gertrude e Ethelwulf, Marfa era l'unica persona a sapere.
Un misto di incredulità, afflizione, delusione e rabbia mi deformò il volto.

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