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Capitolo 67

Avrei voluto rimpicciolirmi in un angolo e scomparire, venir assorbita dalle pareti e non lasciare alcuna traccia, prendere il volo come un'aquila e confondermi nel grigio che preannuncia tempesta.
Mi resi conto solo tardi che avevo gonfiato il petto ma che avevo dimenticato di espirare e che stringevo Amaranta con una forza spropositata per il suo fragile corpicino.
«Desidero vedere la ragazza. Ora. Andate a chiamarla!» il tono caldo della sua voce cozzava con il gelo e la rabbia che imperversava nelle sue vene.
Gertrude annuì e procedette come una furia verso le scale.
Indietreggiai terrorizzata all'udire quelle parole. Ero sicura che non si trattasse di un incubo anche se ne aveva tutte le sembianze.
Amaranta emise un vagito. Doveva aver percepito che qualcosa non andava dalla presa rigida con la quale la sostenevo, molto diversa dalle onde morbide che erano solite cullarla.
Jocelyn percepì quel suono come un richiamo da caccia. Alzò lo sguardo e, dopo tanto tempo, lo rincrociai nuovamente.
Quando mi vide, il viso le si deformò in una maschera grottesca.
I suoi erano gli occhi di un boia, pesanti come la pietra e infuocati come la lava.
Rimanemmo a fissarci a lungo e mi sentii maledettamente a disagio.
«Venite qui sotto, mia cara!»
Quell'ordine fendette l'aria come una lama.
Il pensiero di esitare non mi balenò neanche per la testa tanto ero impaurita, quando cominciai ad avanzare lentamente.
Hilde assisteva alla scena esterrefatta, Gertrude compiaciuta.
«Dunque mio cognato aveva ragione!» esordì, una volta che mi aveva di fronte.
Jocelyn aveva le sembianze di un militare, di un generale reduce dalla guerra che non teme neanche la morte. Al contrario, io mi sentivo come una cacciata di casa che chiunque aveva vergogna ad accogliere.
«Da quanto tempo?» sibilò tagliente, dopo aver squadrato a fondo il frutto di quell'adulterio. Da quando aveva poggiato gli occhi su Amaranta non aveva smesso di ispezionarla dalla punta dei capelli fino a quella delle dita, per poi passare alla rotondità delle sue guance e soffermarsi sul nasino piccolo e morbido. Sperava di sbagliarsi e di avere di fronte una bambina qualunque. L'evidenza finì per contrastare i suoi auspici e decretare che quella era sì, la figlia di suo marito.
Strinsi la bambina ancora di più al mio petto e le coprii la testa con un lembo della copertina di lana.
«Da quanto tempo?» urlò e lo fece talmente forte che Amaranta scoppiò a piangere per la paura. Jocelyn sembrò infastidita da quel fragore, che non faceva altro che ricordarle quella presenza a lei così sgradita.
Mi tremarono le gambe e rimandare indietro le lacrime fu impresa alquanto ardua.
«Gertrude, prendete la bambina!» ordinò senza mezzi termini.
«Che cosa?» spalancai gli occhi e la compressi al mio seno.
Hilde si affrettò verso di me per afferrarla ma la principessa glielo impedì con un gesto della mano. Al suo posto, quella donnona burbera e maledettamente odiosa, avanzò con le mani protese per prendere ciò che fino ad allora non aveva neanche degnato di una sguardo.
Mi voltai di scatto dalla parte opposta. Non glielo avrei permesso.
«Fate come vi ho ordinato!» le sue grida rimbombarono quando si rese conto della mia reticenza.
«Fate come la principessa ha ordinato!» incalzò Gertrude come un eco.
La afferrò con le sue mani incapaci e, terrorizzata dalle conseguenze, non opposi resistenza per evitare di farle del male.
Con movimenti decisi e rabbiosi Jocelyn si avvicinò a me. I suoi passi lenti, pesanti, e sicuri fecero riecheggiare un brutto presentimento, avvalorato dal fatto che non mi aveva staccato gli occhi di dosso. Temevo di non essere in grado di reggere il confronto.
«Per tutto questo tempo avete fornicato nel mio palazzo! Con mio marito! Siete stata la sua puttana quando io ero troppo impegnata a cercare di capire cosa lo turbasse, cosa lo rendesse felice e cosa potesse essere in mio potere per apparire come la consorte che meritava di avere. E invece no! Lui aveva altro a cui pensare perché le vostre gambe aperte erano addirittura più importanti del dolore che mi avrebbe causato! Vi siete divertita! In casa mia! Di nascosto! Mi avete ritenuta una sciocca mentre vi beffeggiavate di me alle mie spalle. E pensare che siete solo una lurida che viene dal fango!» scandì ogni parola con una lentezza dolorosa, paragonabile allo schiaffo che depositò poco dopo sul mio viso.
Barcollai incredula. Mi portai una mano alla guancia. Non potevo credere che fosse successo davvero.
Amaranta schizzò in un pianto incontrollato. Gertrude si trovò in evidente difficoltà. Cominciò a scuoterla troppo forte, credendo di poterla calmare, ma non fece altro che agitarla ulteriormente.
Non ebbi il tempo di concentrami sul suo richiamo che me ne arrivò un altro e un altro ancora fino a quando non caddi a terra malamente sotto la sua prepotenza. Allora quegli occhi celesti mi guardarono ricolmi di un'ira interminabile e scaricarono tutta la loro ferocia in una raffica di calci diretti sulle mie gambe e sul mio ventre.
«Vostra Maestà! Per favore! Le farete del male!» gridò trafelata Hilde che intervenne come poté per scongiurare il peggio.
Jocelyn le vietò di avvicinarsi per la seconda volta e affondò l'ennesimo calcio all'altezza del bacino, poi uno sul petto e infine mi sollevò la testa per i capelli per tirarmi un pugno sul volto. Rivoli di sangue mi disegnarono un percorso confuso sul mento, quando sentii un dolore lancinante attraversarmi il cranio e terminare lungo la schiena.
Hilde sobbalzò portando le mani alla bocca. Gertrude non si scompose molto, al contrario, parve provare un pizzico di compiacimento sadico.
Portai la mano all'occhio destro. Pulsava e aveva cominciato a gonfiarsi.

La principessa si staccò da me solo quando ritenne di aver sfogato quella collera a sufficienza, tale da procurargli il minimo di soddisfazione che cercava.
Mi feci forza sulle braccia e infine sulle gambe. Il mio corpo era martoriato per colpa di un uragano. Sentii le ossa doloranti e gli arti minacciare di cedere da un momento all'altro.
Jocelyn si sistemò la gorgiera, poi i capelli e congiunse le mani, pronta a emettere sentenza. Riuscii a guardarla solo con un occhio, l'altro era completamente umido e riusciva a stento a rimanere aperto.
Fu un sorriso quello che si dipinse sulle sue labbra? Stava forse continuando a prendersi gioco di me?
«Signorina Gleannes, voi tornerete a palazzo insieme a me.»
Sprofondai ancora di più in uno stato confusionale. Quella donna doveva essere affetta da qualche disturbo della personalità poiché sembrò mutare da un cerbero a tre teste a un'innocua trentenne.
Feci scorta di forza, coraggio e dignità «Vostra Maestà, io non sono più un membro del vostro personale. Io e mia figlia eravamo giusto intente a tornare a casa di mia madre. Io e mia figlia, Vostra Maestà, non torneremo più a palazzo.»
Assottigliò lo sguardo, poi arricciò un angolo della bocca. La sua tranquillità si rivelò essere tutta apparenza poiché nascondeva al suo interno una vena depravata e innata.
«Voi potete fare ciò che volete ma la bambina verrà a palazzo con me.»
Quelle parole furono la cosa più innaturale e bizzarra che avessi mai udito uscire dalla sua bocca, forse in tutta la mia vita.
La paura, il senso d'inferiorità e il panico si tramutarono in un ricordo.
Anossia - un'altra volta - poi i polmoni tornarono a riempirsi d'aria. Sporsi la mascella in avanti e allargai le narici.
Quella donna era una folle, una squilibrata se pensava che io potessi acconsentire a quello.
«Vi sbagliate se pensate che mi separerete da mia figlia!» tuonai invasa da una forza nuova.
«La bambina è una Kynaston e come tale starà a palazzo» poi mi guardò schifata, senza cercare di nascondere il suo disprezzo «e voi, sgualdrina che non siete altro, vi rimarrete fino a quando la bambina non sarà grande abbastanza da non aver più bisogno delle vostre cure!»
Quelle parole rimbombarono come le campane di una cattedrale. Non poteva pensare veramente ciò che aveva appena detto.
Voleva separarmi da mia figlia.
Per un istante mi convinsi che l'avrei scuoiata viva e arsa.
Le mani serrate a pungo pomparono il sangue che mi ribolliva in ogni angolo del corpo. Avrei voluto saltarle addosso e buttarla a terra per ripagarla con la sua stessa moneta.
Dovetti infine cedere e accettare di dover tornare a Livingstone.
C'era una domanda che volevo rivolgerle però, prima che se ne andasse.
«Dov'è Carlyle... » chiesi, con il cuore ancora gonfio di rancore.
La principessa spalancò la bocca incredula «Come osate chiamare mio marito per nome!» poi, mi sferrò l'ennesimo schiaffo.
Una forza ultraterrena mi impedì di contraccambiarla.
Fece per andarsene, poi si voltò a tre quarti e mi fulminò con l'angolo del suo occhio.
«Riguardo la vostra richiesta... il principe è partito in guerra, non lo incontrerete per molto tempo, ma non temete... mi accerterò personalmente che non lo vediate per il resto dei vostri giorni.» detto questo afferrò la sua lunga veste ocra, alzò i tacchi e se ne andò.
Gertrude fece per seguirla, quando interruppe la sua goffa corsa al mio richiamo.
Allungai un braccio in avanti.
«Datemi mia figlia!» ordinai laconica con un tono che non ammetteva repliche.
La donna si guardò attorno senza sapere se assecondarmi o meno e, quando si rese conto che la principessa non era più nei paraggi, mi consegnò Amaranta tra le braccia come se fosse un sacco di patate di cui disfarsi.

La notizia di Carlyle in battaglia mi massacrò. Non era mai partito per la guerra, non da quando c'ero io almeno. Aveva manifestato più volte il desiderio di cacciarsene fuori... perché aveva ceduto allora? Sentii dolore al collo e poi al petto, non paragonabile a quello fisico di cui ancora soffrivo gli urlanti strascichi, ma un dolore lancinante fatto di mancanza e di timore di non rivederlo più. Come aveva potuto, lei, darmi quell'informazione con così tanta tranquillità? Forse ne godeva al sapere che ne avrei sofferto. Forse non le interessava più nulla del suo destino.
Cosa era successo in quel frangente di tempo tra loro due?
Le urla selvagge e interne si intensificarono al pensiero che nel giro di poco sarei tornata nella sua dimora ma che non ci sarebbe stato lui ad accogliermi; al contrario, sarei stata lanciata in mezzo a leoni desiderosi di vendetta.
Caddi vittima di una sofferenza atroce, di quelle che divorano dall'interno. Quando ti avrei rivisto... quando mi avresti nuovamente abbracciata?
Oh, Carlyle... ciò che desideravi rimanesse sopito era arrivato sulla bocca delle persone più sbagliate!
Sì, ma per colpa di chi?
Chi era stato a rivelarle quel segreto così tanto a lungo protetto?

La risposta fu una. L'unica che poteva reggersi in piedi.
L'innato disprezzo che Gertrude provava nei miei confronti, accentuatosi dopo la nascita di Amaranta, l'aveva portata, vigliaccamente, a rivelare tutto alla principessa. Le aveva inviato una lettera dove le aveva raccontato tutto e la principessa, una volta appreso lo scandalo, non ci aveva pensato due volte a recarsi nel Kent. Le cose dovevano essere andate necessariamente così.
Nel fare tutto questo, però, aveva messo a rischio mia figlia.
Sentii un vulcano esplodermi nella testa, la mascella diventare rigida e dura, il naso arricciarsi verso l'alto dal disgusto. Espulsi l'aria rumorosamente come un drago sputafuoco.
Non l'avevo mai affrontata di petto, ma quella era l'occasione perfetta per non fare troppe cerimonie.
«Hilde, prendete Amaranta!»
La donna afferrò la bambina, confusa. Quest'ultima assunse il tipico musetto di quando stava per piangere, arcuando la bocca all'ingiù e bagnando gli occhi delle prime lacrime.
Hilde cercò di tranquillizzarla, poi mi chiese dove stessi andando.

Non le volli rispondere. Era una questione che riguardava me e Gertrude.
Ignorai il dolore alle gambe e salii le scale con la massima velocità che potevo raggiungere. Divorai il corridoio e spalancai la porta che mi separava dalla traditrice.
«Gertrude!» sbraitai come una iena.
Con ancora la mano sulla maniglia, mi resi conto che della donna non c'era traccia.
Senza perder vigore, ma sentendo la collera sormontarmi dentro sempre più, entrai, alla ricerca di una prova della sua colpevolezza.
Rovistai sulla sua scrivania, aprii le ante del suo armadio gettando a terra i pochi vestiti che indossava a rotazione. Non soddisfatta, scoperchiai il suo letto, rigirandone il materasso e perlustrando all'interno di quest'ultimo, non sapendo bene cosa speravo di trovare in mezzo a delle piume. Mi buttai allora a terra, battendo tutti gli angoli del pavimento, fiutando gli spazi nascosti tra i mobili, ma il nulla fu l'unica cosa in cui mi imbattei.
Esausta, mi gettai a terra. Ero desolata.
I miei occhi caddero, da ultimo, quando pensavo di aver perso tutte le speranze, su un cassetto della scrivania.
Come avevo fatto a non vederlo!
Con un movimento fluido e silenzioso mi alzai e lo tirai, con la tensione di chi stava per scoprire un tesoro inestimabile.
Quello che vi trovai dentro mi lasciò senza fiato.
Scartoffie di ogni tipo, alcune sporche di inchiostro secco, altre di cibo sgranocchiato.
Tutte, indistintamente, riportavano la stessa parola: Getud, Gerrtid, Certude.
Esaminai quei goffi tentativi di scrivere il suo nome. Le lettere erano sfatte, alcune più grandi, altre più piccole, poco armoniose e, talvolta, sgradevoli alla vista.
Vicino a quei fogli c'era una boccetta di inchiostro ancora fresco con pennino abbinato.
Davanti a me, si spiegarono gli sforzi di una donna analfabeta che stava cercando di imparare a scrivere.
Ne rimasi sconvolta.
Se non sapeva scrivere, non poteva essere stata lei a informare la principessa.
Ero sotto shock, ancora di più perché colei che avevo considerato sin da subito l'unica e più papabile colpevole, in realtà, si era rivelata essere innocente.
Non escludevo che se avesse potuto non mi avrebbe pugnalata alle spalle, ma non aveva ancora gli strumenti per farlo.
Esterrefatta e con una verità in più, abbandonai la stanza.
Non era stata Gertrude.

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