Capitolo 66
Se avere Amaranta dentro di me era stato come vivere in un mondo meraviglioso, stringerla tra le mie braccia fu come sentirmi libera in un universo sconfinato.
Ero stata io fino a poco prima la sua dimora, ora lei lo era per me.
Era nata da due mesi eppure sentivo una forte e crescente nostalgia di lei ogni giorno che passava, sopita all'inizio come una debole brace e divampata successivamente in un indomabile incendio.
Da quando c'era quella bambina nella mia vita avevo dimenticato cosa fosse la tranquillità, ma non perché temevo di dimenticarmi di sfamarla quando aveva fame o di non riuscire a dare un significato a quei mugolii che era solita emettere mentre dormiva, ma perché non ero in grado di starle distante neanche un secondo e il solo pensiero che la mia vita non potesse limitarsi alla sua mi causava un forte malessere fisico e psichico.
La gelosia che provavo nei confronti di suo padre, quando Jocelyn lo reclamava nelle sue stanze o quando qualche altra domestica lo guardava ammiccando libidinosa, non era lontanamente paragonabile a quella che mi strozzava quando era lei a essere l'oggetto del desiderio altrui: detestavo che qualcuno che non fosse me la prendesse in braccio, che le sfiorasse la sua pelle setosa o che si beasse del suo profumo albicocca.
Erano due gelosie massacranti in egual misura, ma diverse, poiché Carlyle non era di mia proprietà - alla stregua di un cimelio che si acquista - mentre lei dipendeva totalmente da me e io da lei.
Prendermi cura di Amaranta si era rivelata essere la cosa più automatica e naturale del mondo, sembrava quasi anticipassi le sue richieste, quasi a conoscerle prima che lei stessa ne sentisse l'urgenza.
Hilde mi aveva ribattezzata mamma orsa, poiché diceva che ronzavo attorno a quella bambina come fa l'orso con i suoi cuccioli quando non li perde di vista, li ninna e sbrana chiunque possa arrecare loro fastidio.
Mi identificavo in un'orsa quando scattavo sull'attenti non appena mi reclamava, quando mi alzavo nel cuore della notte per accertarmi che stesse bene o per nutrirla quando era trascorso già troppo tempo dall'ultima poppata. Le mie ore di veglia combaciavano alla perfezione con le sue e, di conseguenza, anche quelle di sonno.
Non mi ero ancora resa conto che il mio corpo aveva cominciato ad accusare la stanchezza e che cercava di convincermi ad accettare l'aiuto di Hilde all'occorrenza, per permettere a lui di riposare il tempo necessario da non farlo più sentire all'interno di una macina. Il fatto che però, proprio costui, mi inondasse di fiumi di adrenalina non appena vedevo le sue manine muoversi, mi confondeva, perché mi faceva sentire rinvigorita, fortissima e maratoneta.
Mi ero trasformata in un combinato di eccitazione materna e annientamento fisico.
Il giorno prima del ritorno del principe a Sommerseth ero stata svegliata di buon'ora dal vagito sempre più forte e sicuro di mia figlia, allora avevo scostato le lenzuola, messo i piedi a terra e afferrato sotto le ascelle quel tripudio di calda e morbida purezza.
Amaranta aveva cessato di piangere quando aveva capito che qualcuno l'aveva ascoltata, con le sue soffici braccia si era stiracchiata e poi aveva cominciato a scalciare i suoi piedini freneticamente. Una volta sfamata avevo deciso di non rimetterla nella sua culla ma di farla giacere sulle mie ginocchia.
La osservai come se stessi guardando la cosa più bella e accecante del mondo. Non ricordavo più il tempo in cui avevo maledetto il suo arrivo. Era difficile, invero, ammettere che quel tempo c'era stato.
Di lì a poco avrebbe fatto il ruttino e poi si sarebbe riaddormentata.
Fu in quel momento che entrò Carlyle.
A villa Artemide non c'era molto più bisogno di nascondersi poiché la storia sottostante la nascita della nuova Kynaston era ben nota a tutti, tuttavia, io e lui, cercavamo sempre di adottare quel minimo di necessaria discrezione. L'unica che ancora non aveva metabolizzato la scoperta e che invece aveva aumentato l'odio e il disgusto che provava nei miei confronti era Gertrude. Non ero entrata nelle sue simpatie sin dall'inizio per qualche ancora ignoto motivo e la rivelazione a cui aveva assistito in presa diretta non aveva fatto altro che esasperare la sua ostilità fino a trasformarla in rancore, tanto da togliermi completamente il saluto e disinteressarsi del tutto alla nuova arrivata quando gli altri domestici facevano a gara per vederla.
Amaranta ancora non si era addormentata e mi osservava con i suoi lapislazzuli blu. Hilde diceva che ci voleva ancora qualche mese per far prendere agli occhi il loro colore definitivo.
Carlyle si sdraiò sul letto e prese la bambina tra le sue braccia. Non passò neanche un minuto che si addormentò, cullata. Forse stava attendendo un posto più sicuro in cui abbandonarsi.
L'uomo la guardava incantato e ancora incredulo che esistesse qualcosa di più bello di Madre Terra.
Mi accoccolai sulla sua spalla, in contemplazione di quel quadretto idilliaco. Inaspettatamente percepii che qualcosa non andava. Carlyle si era irrigidito, aveva perso il suo sguardo ammaliato e assottigliato le labbra.
«Anthea, tu e Amaranta non potete tornare a palazzo e tantomeno restare qui.»
La realtà mi investì con violenza. Sapevo che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato. Tentai di ottenere la risposta nei suoi occhi, ma non ve ne trovai alcuna. Contorcendo il mio volto in uno sguardo di afflizione, cercai la coperta da mettere addosso ad Amaranta, con la speranza che il toccarla mi avrebbe fatto rinsavire.
«Torna da tua madre, è la cosa più saggia da fare. Sarò io d'ora in poi a prendermi cura di voi.» continuò.
Se la vecchia me fosse stata ancora presente, avrebbe ribattuto, si sarebbe arrabbiata e avrebbe impedito che una tale usurpazione avesse avuto luogo. La vecchia Anthea, ragazza in erba e sicura di sé, non avrebbe accettato di venir mantenuta, di dare spazio al chiacchiericcio e di vivere all'ombra di qualcun altro.
La nuova Anthea, invece, si sarebbe privata di qualsiasi cosa pur di non doversi staccare da sua figlia. Il solo pensiero di lavorare e di stare ore lontana da quello scricciolo era impensabile. Da quando era nata infatti, non avevo lucidato un pavimento o steso un carico di bucato, solo perché Hilde non lo aveva preteso.
Lavorare avrebbe inoltre significato dover affidare mia figlia alle cure di uno sconosciuto, magari inesperto. L'immagine mi diede le vertigini. Quella bambina mi aveva convertito in una debole, in un mollusco senza spina dorsale che striscia in terra cibandosi di sabbia e fanghiglia.
Ero completamente assorbita da lei e pazzamente desiderosa di vivermela il più possibile.
Annuii, dunque.
«Vi farò costruire una casa e verrò a trovarvi tutti i giorni, se mi sarà possibile!» terminò rincuorato, quando si rese conto che da parte mia non arrivò alcuna reazione esagerata. Per quanto non mi sarebbe dispiaciuto rimanere a villa Artemide, sapevo che non era fattibile. Il Kent era troppo lontano da Sommerseth e raggiungerlo, quando il tempo era favorevole, richiedeva almeno una notte di viaggio; notte che si sarebbe trasformata in due nel caso di condizioni più avverse. Non potevo, pertanto, costringerlo a ridurre il tempo da dedicare a sua figlia.
Con molta cura, adagiò Amaranta nella culla. Si lasciò cadere nuovamente sul letto. I suoi occhi riacquistarono quel blu che li rendeva così magnetici, la sua carotide sembrò pompare litri di sangue per quanto era gonfia. Posizionò la sua mano di fuoco sul mio ginocchio, la fece scivolare sulla coscia in un movimento fluido e carico di passione. Quel gesto mi incendiò. Ebbi la sensazione di sudare lava.
Mi afferrò per i polsi e mi fece sedere sulle sue gambe. Ansimai. Le nostre labbra si inseguirono in un supplizio. Gemetti al suono delle sue mani divincolarsi tra le pieghe della mia veste e aggrapparsi alle curve del mio fondoschiena, trascinandosi con tormento fino alla linea del mio sesso.
Mi piegai di riflesso dal dolore.
Era ancora troppo presto per ciò che desideravamo entrambi. Carlyle lo capì e mi abbracciò con tenerezza.
Il giorno dopo era partito e io avevo avuto la premura di avvisare mia madre che sarei tornata a casa e che avevo molte cose da raccontarle, talmente tante che non potevano racchiudersi tutte in una lettera. Le mie valigie erano quasi pronte, mancava veramente poco.
Quel fine settimana, il messaggero fece recapitare una lettera indirizzata a me. Corsi nella mia stanza, chiusi la porta a chiave e accesi la candela della scrivania.
Quando lessi il mittente, esultai.
Mia cara Anthea,
la tua ultima lettera mi ha fatto contorcere dalle risate. Sei seria quando dici di esser caduta per le scale davanti a tutti?
È arrivato, a questo punto, il mio turno per raccontarti un aneddoto divertente. Qualche giorno fa Sir Jacques aveva richiesto a Violet un semplice brodo di verdure per cena, per acquietare lo stomaco che non gli dava pace dalla sera precedente.
Sai qual è stato il colmo? Che Violet, per colpa della luce fioca - come sostiene lei - ha scambiato l'acqua... con il vino bianco! Non puoi che immaginare la faccia di Théodore dopo aver ingurgitato il primo cucchiaio di zuppa!
Ricordi quando anche noi ci lamentavamo di quella lampada a olio? Credo sia proprio arrivato il momento di sostituirla!
Marfa
Arrivò l'ora della cena e, dopo aver messo a dormire la bambina, scesi nelle cucine.
«Mamma orsa, attendevamo solo te!» esclamò Hilde, versando una ciotola di zuppa di ceci che poi mi passò.
«Non mi sembra di essere proprio l'ultima.»
Schioccò il palato «Gertrude oggi non cenerà insieme a noi. È rinchiusa nella sua camera da questo pomeriggio a scribacchiare qualcosa che non mi è chiaro e vuole che nessuno la disturbi.»
Ammisi che non avrei patito molto la sua assenza. Recitammo la preghiera, usanza a cui Hilde teneva particolarmente e poi, una volta riassettata la stanza, ci ritirammo ognuno nelle proprie stanze.
Dolce Marfa,
Il mio tempo a Villa Artemide è giunto al termine, come quello a palazzo Livingstone.
Se fossi stata almeno un giorno insieme a me, ti avrei presentato a chiunque qui dentro e chiunque avrebbe letto nei mio occhi la stima e l'affetto che nutro per te.
Io, dal mio canto, ti avrei presentato Hilde e sono sicura che l'avresti amata almeno un pizzico di quanto la amo io.
Ti avrei presentato, dunque, il silenzio del bosco della residenza e la calma atmosfera del lago a cui, più di una volta, mi sono recata.
E infine ti avrei presentato la pietra più preziosa dell'universo, la mia stella polare: Amaranta Kynaston. Lei è la gioia che mi ha reso madre.
A.G.
Piegai il biglietto in due e lo consegnai all'uomo che l'indomani sarebbe partito alla volta di palazzo Livingstone. Riempii una pentola di acqua e la lasciai scaldare sul fuoco. Amaranta aveva proprio bisogno di un bagno.
Una settimana dopo ero pronta per ritornare a casa mia. Non avrei mai pensato che, a distanza di quasi due anni dalla mia partenza, vi avrei fatto ritorno in una condizione diversa da quella in cui l'avevo lasciata. Credevo che mai più vi sarei tornata per viverci ma solo per andare a trovare mia madre e mia sorella durante le domeniche o le festività. Sapevo che era una cosa temporanea, un momento di passaggio, ma ancora non mi era chiaro quanto sarebbe durato.
Per l'occasione indossai un abito color pesca e un cappotto abbinato. Mi voltai a guadare un'ultima volta la stanza che mi aveva accolta per tutto quel tempo, la stanza della natività, e con rimpianto la chiusi alle mie spalle, imprimendo nella testa tutti i bei ricordi che ivi avevo collezionato.
Stringevo Amaranta tra le mie braccia. Dormiva beata.
Alcuni dei domestici mi aiutarono a scendere i bauli.
Prima che me ne andassi del tutto, venne Hilde a salutarmi a braccia aperte.
«Mamma orsa!» aveva le lacrime agli occhi. Mi commossi anche io.
Non ci fu bisogno di molte parole o di plateali dimostrazioni di affetto. I nostri occhi parlarono molto più di quanto avremmo potuto proferire con la bocca. Il distacco fu sofferto, indesiderato, ma inevitabile. Ci abbracciammo a lungo, ignare se ci saremmo davvero riviste un giorno.
Fui distratta dal via vai di Gertrude da un piano all'altro. Correva trafelata lungo le scale, trasportando lenzuola, asciugamani, biancheria pulita e tutto l'occorrente per tirare a nuovo una stanza.
«È in programma l'arrivo di qualcuno?» domandai.
Hilde fece spallucce, non lo sapeva neanche lei, ma i fatti parlavano chiaro. Probabilmente qualcuno che mi avrebbe sostituita.
Ero pronta per scendere le scale, quando vidi la porta d'ingresso aprirsi.
Gertrude divorò i gradini per l'ennesima volta. Era visibilmente emozionata, paonazza in volto e vittima di un delizioso nervosismo.
Un brivido gelido mi percorse la schiena. Mi sentii senza forze e l'istinto mi suggerii di non affacciarmi per vedere chi fosse arrivato, poiché lui stesso sapeva che non mi sarebbe piaciuto.
Cominciai a tremare, inspiegabilmente.
Aleggiò nell'aria un profumo troppo familiare, che non avevo dimenticato neanche dopo tutto quel tempo.
Una curiosità subdola mi convinse a sporgermi dalla balaustra, quel minimo che mi permettesse di vedere senza essere vista. Tutti i domestici si inchinarono. Dopodiché una voce conosciuta, lapidaria e foriera di guai riempì quelle quattro mura.
«Hilde! Sono venuta a far visita alla prole di mio marito!»
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