Capitolo 62
Mia cara Marfa,
Il tempo a villa Artemide sembra voler fare brutti scherzi e trovar gusto nel prendersi gioco dei miei nervi: a volte scorre troppo velocemente, come nei giorni di festa che a malapena ricordi di aver vissuto per via della celerità con cui volgono al termine; altre volte invece sembra arrancare e volermi consumare fino all'osso, alla stregua delle uggiose giornate domenicali in cui non è mai ben chiaro il da farsi.
La consapevolezza intatta e immutabile, che sfugge a questa burla, si declina nella mancanza che ho di voi tutte.
Dolce Anthea,
Ancora una volta, mi trovo a dover difendere a spada tratta il tuo letto dai tentativi di Sir Jacques di assegnarlo a qualche nuova arrivata. Come ti dicevo, la principessa ha allargato il suo personale a corte e ogni giorno mi sembra di annegare in un mare di facce nuove che non ho interesse a conoscere.
Sebbene manchino ancora due mesi, non è mai troppo tardi per Jocelyn per cominciare a pianificare il compleanno di suo marito. Ti invidio per questo: ti stai evitando il subbuglio proprio di palazzo Livingstone in questo periodo.
Confido che questa nostalgia mi abbandonerà presto poiché sarà il giorno in cui finalmente ci rivedremo.
Mia cara Marfa,
Ricevo la tua lettera distesa a letto, di fronte a una tisana fumante. Sono giorni che il mio fisico fa capricci e non vuole degnarsi di darmi la forza necessaria per poter cominciare la giornata.
Sarà il cambio di stagione o il senso di solitudine che sto sperimentando ultimamente ad aver debilitato le mie membra. Hilde mi fa compagnia quando i suoi impegni non la costringono troppo a lungo lontana dalla mia stanza. È la governante della residenza, una donna avanti con l'età ma molto affettuosa e vispa. Se la conoscessi, sono sicura che ti entrerebbe in simpatia.
A volte, lamento la mia condizione lontana da te e da Lydia. Sento quasi nostalgia del «subbuglio» come lo definisci tu. Di fatti a villa Artemide le cose procedono con assenza di fretta: è il posto ideale per chi vuole rilassarsi un po' senza che poi i momenti di effettiva tensione arrivino davvero.
Mia cara Anthea,
Ho ricevuto la tua lettera da una settimana ma solo ora riesco a ricavarmi un po' di tempo libero per risponderti. La principessa è eccessivamente pretenziosa e, dopo aver restaurato un rapporto cordiale con suo marito, cerca di fare di tutto pur di compiacerlo.
Il principe, dal canto suo, è assorbito dai suoi pensieri e sembra che ogni giorno qualcosa vada a bussare alla sua testa con più prepotenza per disturbare la sua quiete. È molto indaffarato ultimamente e, non ci crederai, ma sembra trovare pace solo nelle riunioni dell'Assemblea, nei carteggi con i primi ministri d'Europa e nello scribacchiare documenti indecifrabili.
I due consorti danno l'impressione di essere l'uno il contrario dell'altra: lei la spensierata primavera che tutto abbraccia e fa fiorire; lui il freddo inverno che imbianca e che non fa distinzione tra nulla.
A te ha dato questa impressione quando, un mese fa, è sopraggiunto nel Kent?
Mia cara Marfa,
A dir la verità, mi sono a malapena resa conto che fosse arrivato nella residenza dal momento in cui ha trascorso la maggior parte del suo tempo insieme ai commercianti di luppolo. Ciò che mi confidi, pertanto, è cosa nuova.
Da miglia di distanza, non riesco proprio a immaginare cosa possa turbare così tanto i pensieri del nostro sovrano. Credo sia preoccupato per il proseguire della guerra, conflitto che pare non voler terminare.
Attendo con ansia vostre nuove poiché, come potete ben immaginare, io non ne ho molte da condividere.
Apposi la mia sigla, una «A» sinuosa e delicata e poi chiusi la lettera in quattro.
Credevo di sapere a cosa stesse pensando Carlyle in quei giorni, da renderlo così turbato come si evinceva dalle lettere di Marfa.
Agitata lo ero anche io.
Ottobre era stato il mese all'insegna del tappeto di foglie rossicce al suolo, del quotidiano benvenuto da parte di un sole pallido, dell'imbrunire anticipato e della paura del domani. Il fatto che il mio segreto non fosse più così tanto segreto mi dava le vertigini.
Se Ethelwulf avesse voluto vendicarsi di me avrebbe potuto. Credevo si trattasse di una questione di tempo.
Ripensai a quell'incontro ed ebbi un nuovo giramento di testa.
Non ero stata molto bene nelle ultime settimane, complice sicuramente la tensione dei miei nervi. Hilde per questo aveva preferito affidarmi meno mansioni possibili e relegarmi a uno stato di riposo forzato, sotto i brontolii di Gertrude a cui, onestamente, non diedi troppo peso.
La soluzione che aveva deciso di adottare la donna non fu dettata solo da una comprensibile empatia quanto, e soprattutto, dalle mie condizioni che mi rendevano, arrivata a quel punto, quasi impossibile un qualsivoglia movimento agile. Mi affaticavo molto più velocemente e necessitavo di riposo il doppio delle volte.
«Dovete mangiare, ne avete bisogno voi e il bambino.» era questo il ritornello che Hilde intonava ogni volta a pranzo quando fingevo di fare i complimenti per la seconda razione; in verità non desideravo altro che una doppia porzione di bollito, di patate, di minestra di ceci o di qualsiasi altra pietanza fosse stata preparata. Anche la mia fame, al di là delle altre cose, era raddoppiata.
Quella gravidanza, all'oscuro del mondo e vissuta quasi completamente in solitudine, non si era rivelata semplice. Ancora meno semplice sarebbe stato il dopo. Era quello un pensiero che, una volta scoperta la presenza di un nuovo inquilino, avevo deciso di procrastinare.
Avevo vissuto ogni giorno all'insegna del presente, quasi a voler ritardare l'imperversare del futuro.
Non avevo idea di cosa sarebbe successo, ma era un'urgenza che non potevo più evitare.
L'unico desiderio che avevo sempre avuto, magari anche inconsciamente, e che mi rincorreva da tempo, era la speranza che nascesse in salute.
A circa due mesi dal parto non avevo idea di cosa sarebbe stato di me e di mio figlio. Carlyle, come aveva più volte ripetuto, si sarebbe preso cura di noi, ma fino a che punto avrebbe potuto?
Erano in ballo troppe cose: un figlio illegittimo, una moglie ignara, un trono che rischiava di cadere e una possibile annessione da parte di uno stato straniero che non aspettava altro che il primo passo falso. Sommerseth e le sue piccole dimensioni, non avrebbero resistito alla supremazia dell'Inghilterra. E su tutto questo, io, avevo una certa influenza.
Era un equilibrio molto precario.
«Come lo chiamerete?» domandò Hilde, mentre infilava un cuscino nella sua federa.
Il nome era un'altra di quelle cose a cui, all'inizio, avevo deciso di non pensare.
«Non lo so ancora, ho qualche idea in mente ma nulla di ufficiale. È una scelta che va ponderata poiché un nome, una volta dato, è per sempre.»
Diede qualche colpetto al cuscino per ridargli una forma «Fate come me: i miei figli portano tutti i nomi di nonni, zii e lontani antenati. Seguite il mio consiglio, non farete scontento nessuno e voi vi semplificherete le cose.»
«Allora sarà il nome di un nonno.»
«Pensate sia un maschio?»
Il bambino si mosse, poi mi diede un piccolo buffetto. Doveva essere la sua conferma a quella domanda. Portai una mano sul ventre e lo accarezzai.
Anche io ero sicura si trattasse di un maschio.
Qualche giorno più tardi chiesi a Hilde di procurarmi della carta e dell'inchiostro. Una volta calata la sera, accesi una candela e mi sedetti alla scrivania di fronte la finestra. Rimasi in contemplazione del cielo stellato. Una profonda calma mi pervase.
Dopo lunghi rimuginii e titubanze su ciò che stavo per fare, alla fine mi convinsi che stessi facendo la cosa giusta.
Mia cara Daisy,
I mesi trascorrono e non hanno pietà del rimpianto che sormonta dentro di me nel non poterti vedere. Inconsueta, ma profondamente sentita, è la richiesta che ti rivolgo nel venirmi a trovare.
È da tempo ormai che non lavoro più a palazzo Livingstone ma a villa Artemide nel Kent. Le cose qui sono tranquille e amichevolmente accoglienti.
Ti aspetto, con la stessa trepidazione di un bambino che attende i regali il giorno del suo compleanno.
Anthea
Inviavo occhiate all'orizzonte, fiduciosa che avrei scorto una carrozza arrivare, magari udito il trotto di qualche cavallo. Ero in attesa, forse anche con un po' di anticipo, ma la trepidazione che avevo non mi permetteva di starmene rinchiusa nelle mie stanze ad attendere l'annuncio del suo arrivo.
«Prenderete freddo a stare così all'aperto!» veniva a ricordarmi Hilde a distanza sempre più ravvicinata.
Finalmente, verso ora di pranzo, scorsi una carrozza spuntare dai sempreverdi e immettersi nella strada in brecciolino della residenza. Sussultai di gioia.
La carrozza si fermò e ve ne uscì Daisy. Ero troppo emozionata e anche lei a giudicare dal sorriso nei suoi occhi quando mi vide.
Afferrò i lembi del suo abito dai colori chiari e corse in direzione delle scale, mentre due domestici della residenza si prodigavano a scendere i suoi bauli.
Piansi emozionata. Volevo molto bene a mia sorella e ne sentivo costantemente la sua mancanza, anche se non me ne lamentavo mai.
Daisy mi aveva quasi raggiunta. Mi rivenne alla mente il motivo per cui l'avevo fatta venire e mi agitai. Non sapevo come avrei gestito la cosa ma non avevo ancora molto tempo per pensarci.
Era lì che correva verso di me, ce l'avevo a pochi metri. La accolsi con un sorriso impaurito. La balaustra e le pieghe dell'abito ancora mi nascondevano. Poi, in ultimo, uscii allo scoperto.
Mia sorella si fermò di colpo, ispezionandomi pietrificata. Paura e curiosità combatterono dentro di lei. Mi guardò scioccata come se avesse appena assistito a un fulmine piombare dal cielo, alla scoperta di un nuovo esperimento o come quando si vede la neve per la prima volta, a metà via tra la meraviglia e la paura.
«Benvenuta a palazzo, signorina Gleannes.» esordì Hilde per rompere il ghiaccio.
«Daisy, vieni da me.»
La ragazza avanzò di qualche passo, assecondando la mia richiesta. Mi guardava confusa, nel tentativo di comprendere cosa stesse succedendo.
«Anthea, credo di non capire... »
Le poggiai una mano sulla spalla e la attirai a me «È per questo che ti ho chiamato.»
Dopo un periodo di imbarazzante silenzio che sembrò durare un'eternità, mi infilzò i suoi occhi marroni addosso «Di chi è questo bambino? Tu non sei sposata, Anthea!» inghiottendo, mugolò.
A quelle parole, un brivido mi percorse la schiena. Speravo che Hilde non avesse udito ma, quando ispezionai la sua espressione, questa parve testimoniare il contrario.
Camminammo fino alla panchina in pietra e ivi sedemmo. Il grigiore nel suo sguardo era scomparso, così come i suoi abiti neri e quella velina che le copriva i suoi begli occhi. Finalmente il periodo di lutto era giunto al termine.
«Ti ho fatta venire qui perché ho bisogno del tuo aiuto.» cominciai.
Daisy era lì pronta ad ascoltarmi, ancora un po' scioccata per la scoperta che aveva appena fatto, ma pronta a supportarmi in qualsiasi circostanza.
«Dirti la verità e spiegarti tutto sarebbe in questo momento il mio più grande desiderio ma, ahimè, non posso. Ho bisogno di sapere che qualsiasi cosa accada, ci sarai tu a prenderti cura di lui.» proferii quelle parole con un nodo alla gola.
Afferrò una mia mano e la strinse. La guardai intimorita e commossa.
«Te lo prometto.»
«Non dire nulla a nessuno, neanche a nostra madre. È fondamentale mantenere il segreto il più possibile. Se a te lo sto confessando, è perché di te mi fido.»
Avevo trascorso quei giorni, ben prima dell'arrivo di Daisy, a riflettere sui possibili scenari e tutti convergevano nella necessità di proteggerlo. Come ero passata dall'essere spaventata dal suo arrivo ad avere una struggente necessita di custodirlo e, al contempo, una timida voglia di conoscerlo? A volte veniva a farmi visita nei sogni: era un bambino già grande, dai capelli scuri e mossi come il padre e dal sorriso tenero di Daisy. La sua immagine era tuttavia ancora sfocata ma piacevolmente bella. Mi stavo finalmente convertendo in una madre?
Non condividevo quella tenerezza con nessuno perché ero gelosa. Ero gelosa che qualcuno potesse anche minimamente provare un soffio della sua dolcezza, ero gelosa di quell'esserino così piccolo e al contempo così prezioso. Era già un rubino, il più bello, grande e luminoso che la terra avesse mai donato. Non condividevo nulla con nessuno anche perché nessuno avrebbe capito. Quella gioia era intima e mi aveva scelta.
Esplodevo in una forte emozione quando pensavo a lui: mi ero convinta di amarlo, sia perché era mio figlio, sia perché era la perfetta unione tra la mia anima e quella di suo padre.
Daisy si trattenne ancora qualche giorno, decisa a non rivolgermi domande inopportune e preoccupandosi, allo stesso tempo, che non mi affaticassi troppo. Non voleva ripartire, non voleva lasciarmi sola.
«Sai, i Patel hanno acquistato la fonderia di Thomas.» esclamò qualche giorno prima della sua partenza. Percepii un velo di dispiacere nel suo tono.
La delusione fu tanta. Se come avevo visto bene, Orville possedeva le chiavi della fonderia a quel punto c'era un buon motivo. Abbandonai allora l'ipotesi che c'entrasse qualcosa e mi ritrovai di nuovo a vagare tra i meandri di un mistero ancora irrisolto.
«Il denaro chiama denaro. Non so da chi l'ho sentito dire ma sono sicura che, come frase, non è poi così sbagliata.»
La partenza di Daisy, sfortunatamente, arrivò in un batter d'occhio. Altra prova che, a villa Artemide, al tempo piaceva giocare brutti scherzi.
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