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Capitolo 61

Le passeggiate nel bosco dopo pranzo divennero la mia quotidianità più desiderata, per lo meno durante tutto il periodo in cui il principe si trattenne nel Kent.
Il fatto che ivi si fosse recato per iniziare il commercio con il luppolo non fu una scusa, anzi, a dire il vero, trascorreva la maggior parte del tempo chiuso nelle sue stanze, tra scartoffie e calamai di ogni tipo; o presso alcuni mercanti, per intavolare la trattativa che si sarebbe rivelata per lui la più profittevole.
Il bosco però, era il momento in cui gli affari mercantili venivano accantonati per un po'.
Ci davamo appuntamento sempre al solito posto. Quando riuscivo a sbrigarmi lo precedevo e mi recavo alla panchina in pietra per attenderlo; quando invece Gertrude decideva di importunarmi con capricci dell'ultimo minuto, era lui a dover aspettare il mio arrivo.
Avevo capito, a distanza di qualche mese, che non ero affatto simpatica alla mia nuova collega e che, al tempo stesso, nutriva una devozione spassionata e genuina nei confronti della principessa tanto che, quando si parlava di lei, la appellava come «la mia sovrana» oppure «il mio Stato» e che, avrei giurato, avesse attaccato sulla parete sopra il letto un dipinto di Jocelyn, alla stregua di un crocifisso o di un'immagine sacra.
L'adorazione della donna verso la sua governante mi fu subito chiara. Gertrude era stata la balia di Jocelyn quando lei era poco più che una bambina ed era stata successivamente assunta da Re Friederich Kynaston per servire la sua corte, non senza un po' di riluttanza da parte di quest'ultima. Carlyle e Jocelyn dunque avevano condiviso molto più che una fede.
Il suo astio nei miei confronti non mi fu subito immediato e, a momenti, mi faceva sprofondare nel disagio. Avevo come l'impressione che dubitasse di me e che mi odiasse a pelle, dal giorno stesso in cui mi aveva visto.
Hilde mi diceva di non darle troppo peso, che era una donnona burbera e che nessuno le aveva mai insegnato le buone maniere. A volte mi convincevo della cosa, altre invece avrei preferito evitarla come la peste.

«Credevo non sareste venuta oggi.» ironizzò Carlyle, balzando in piedi.
Gertrude, proprio nel momento stesso in cui stavo per uscire, mi aveva richiamata indietro dicendo che non mi avrebbe lasciata andare fino a quando non avessi ripulito tutti gli scarti di cibo che erano rimasti sul pavimento. L'ordine mi risultò abbastanza improprio poiché ero certa che avessi lasciato il pavimento lucido come uno specchio. Una volta entrata nella sala da pranzo, mi accorsi che aveva ragione ma che quel disordine non era frutto della mia scarsa attenzione ma il risultato di uno sgarbo architettato proprio da lei in persona, essendoci sul pavimento pezzi di pomodoro e di bollito sparsi qua e là. Digrignai i denti per la rabbia e poi cominciai a pulire, sotto il suo sorrisetto beffardo e malefico.
Lydia le sarebbe saltata addosso, ne ero certa.

Alzai le sopracciglia «Direi che oggi ho avuto più impegni del previsto.»
Ero intenzionata a godere di quel momento il più a lungo possibile, ignara di quando lo avrei rivisto di nuovo. Sapevo infatti che sarebbe ripartito il giorno successivo e già cominciavo a percepirne la mancanza, per quanto lo avessi a pochi centimetri di distanza.
Nei giorni precedenti ci eravamo dilettati a chiacchierare della nostra infanzia, di qualche aneddoto divertente che ci aveva visto protagonisti fino ad arrivare a discutere addirittura della guerra, argomento per la quale io avevo fornito il mio punto di vista e che lui aveva dato l'impressione di apprezzare.
Paradossalmente, per quanto fossimo accomunati da quanto più avessimo potuto mai immaginare, ritenevo di conoscerlo ancora poco.

Sotto lo sguardo vigile di un falco pellegrino, mi porse la mano per aiutarmi ad attraversare il ruscello senza perdere l'equilibrio.
«Non vi pesa ogni tanto il trono?» esclamai all'improvviso.
Carlyle ispirò a fondo, alzò le palpebre e congiunse le mani dietro la schiena.
«Non meno di quanto pesi essere un Kynaston. Portare quel cognome è un gran fardello, a prescindere dalla Corona.»
Mi domandai se si stesse riferendo a qualche spiacevole episodio che riguardasse la sua famiglia.
Mi feci coraggio e gli poggiai la mano sul gomito.
«Posso chiedervi in quali circostanze è venuto a mancare il re?» lo guardai tremante, in attesa di vedere una reazione di fastidio da parte sua che, tuttavia, non arrivò.
Alzò lo sguardo al cielo per contemplare uno stormo di rondini ritardatarie che si esibì in una danza e che poi scomparve all'orizzonte.
Si aggiustò i polsini e cominciò «Era un periodo che mio padre aveva la bile verde, quasi giornalmente. Il medico di corte gli aveva consigliato di fare esercizio fisico e di trascorrere molto tempo all'aria aperta. Lentamente si stava riprendendo, forse soprattutto per via delle ore che dedicava a fare lunghe passeggiate nella natura. Nessuno si sarebbe mai aspettato che sarebbe morto nel giro di una notte, improvvisamente» ripeté sotto voce «nessuno se lo sarebbe mai aspettato.»
«Immagino sia stato un colpo per voi.»
Cercai di convincermi di quello che stavo dicendo.
Fu proprio quella l'occasione in cui si aprì con me in merito a quel tragico frangente della sua infanzia, in cui sua madre perse la vita di parto e in cui le uniche figure che avevano saputo dimostrargli affetto erano state le balie e il suo insegnate di latino, che oltre a indottrinarlo nella materia, lo consolava quando i momenti di debolezza si impossessavano di lui. Una storia che, a sua insaputa, io già conoscevo.
«Non posso affermare che lo amassi alla stregua di come avrei amato mia madre, ma non mi fece piacere la sua dipartita. Da quel giorno, sono più di dieci anni che porto il peso del trono sulle spalle.»
«Il re non ha mai pensato a risposarsi?»
«Avere delle amanti era meno impegnativo che avere una moglie.» rispose conciso e anche con un pizzico di sarcasmo.

Giungemmo in una vasto prato irrorato di rugiada in cui tirava un leggero vento refrigerante. Da lontano, su di una collina, si ergeva il pittoresco borgo medievale di Canterbury. Hilde me ne parlava così spesso e con tale enfasi che aveva sedimentato in me una tremenda curiosità, tanto da percepire la necessità di dovermici recare il prima possibile, soprattutto per andare a visitare la sua famosa cattedrale.
Camminammo fino ad arrivare alla strada sterrata e lì ci fermammo, per poi rigirarci.
Ci sdraiammo su un prato, lui così vicino a me che potevo quasi udirne i pensieri. Si distese con i gomiti a terra e così feci io. Sorrisi grata alla vita, non ancora del tutto consapevole che quello che stessi vivendo fosse davvero reale. D'istinto, Carlyle si sedette e mi accarezzò la pancia con quella sua mano possente. Non riusciva ancora a capacitarsi che presto sarebbe venuto al mondo il suo sangue e che sarebbe stato vigoroso e morbido al tempo stesso. Improvvisamente si alzò di scatto.
«Ora attendetemi qui, torno presto.» mi fece un sorriso rassicurante e scomparve.
Feci come mi aveva detto, mi sdraiai sul prato a chiusi gli occhi.

A un tratto, il mio dormiveglia fu disturbato più dal rumore di un cavallo al galoppo che dal bambino che si muoveva come una trottola. Mi destai di soprassalto.
«Tutto bene signorina?» una voce maschile e tremendamente familiare mi chiamò.
Capelli biondi, occhi marroni e mani consunte dal lavoro.
Quando lo riconobbi, il tempo smise di scorrere e impietrii.
Una parte di me si sentì sola, come un masso in fondo a un pozzo. L'altra parte fu invece scossa dal vortice del mondo e venne fatta tremare come una foglia che si stacca dal ramo che la abbevera e che gli dice addio, nel suo lento e disperato progredire fino al suolo.

Ethelwulf era già sceso da cavallo con l'intento di prestare soccorso a quella fanciulla che si era ritrovato di fronte per caso e che credeva si trovasse in difficoltà. Il suo animo altruista non era scomparso.
Quando mi riconobbe anche lui, indietreggiò. Diede l'impressione di aver visto un fantasma, forse un boia o forse un mostro a tre teste.
Dal giorno del matrimonio non lo avevo più incrociato. Mi ero convinta che mi stesse evitando e, di questo, non potevo di certo biasimarlo.
Sentii una dannata necessità di diventare invisibile, poi di scappare e infine di annientarmi. Ciò che paurosamente avevo cercato di nascondere era, a quel punto, manifesto e limpido. Copiosi pensieri apocalittici iniziarono a urlarmi nella testa. Contenni a stento un attacco di panico.
Mi risollevai, resistendo faticosamente alla paura.
«Ethelwulf, non... non credevo ti avrei rivisto qui.» confessai, con un'intonazione che cercai di rendere la più amichevole e sorpresa possibile. In realtà avevo una tempesta dentro che mi sconquassava.
Per alzarmi dovetti far ripiego su tutte le forze che mi erano rimaste a seguito di quel turbamento improvviso.
I suoi occhi cominciarono a perlustrarmi per accertarsi che sì - ero proprio io - e spalancò la bocca dal terrore quando si poggiarono sulla mia pancia.
Tremò per l'incredulità.
Lo shock che ebbe quando mi riconobbe non fu lontanamente paragonabile a quello che lo colse quando si rese conto che ero incinta. Scaraventò una mano sul petto. Temetti lo stesse per cogliere un attacco di cuore.
Gli porsi la mia ma lui arretrò ancora di più, trascinando fortemente le scarpe a terra e creando dei profondi solchi.
Cercò il cavallo per trovare un appoggio.
«Tu... » sibilò.
La scena aveva del surreale. Chi si sarebbe mai immaginato di trovarselo davanti nel luogo in cui mi ero recata proprio per trovare rifugio.
Indicò il mio ventre «Tu già sapevi... e me lo hai tenuto nascosto!»
Un'accecante paura mi si aggrappò al cuore.
«Tu mi hai ingannato e per ben due volte, facendomi credere che mi amavi e che il figlio che ne sarebbe nato sarebbe stato mio!»
Mi ricordai del momento in cui stavo per farlo, di quando avrei acconsentito a far passare il bambino per suo e di come invece, forse spronata da una forza più grande di me, avevo deciso di fare la scelta migliore per chiunque. Quindi sì, da un lato lo avevo vigliaccamente ingannato ma poi ero tornata sui miei passi.
Lo sguardo di Ethelwulf venne distratto da qualcos'altro in lontananza. Strozzò un rantolo. Mi girai nella stessa direzione in cui stava guardando e scorsi Carlyle venirmi incontro, prima con un'espressione serena, poi con una più sgomenta e angustiata. Portava con sé un mazzo di fiori rossi.
Speravo a quel punto che la terra inviasse un terremoto, che una crepa si aprisse proprio sotto di me e che mi inghiottisse.
Ethelwulf parve assentarsi un attimo, gli occhi persi nel vuoto. Provai a chiamarlo, a urlargli le mie scuse, ma era come se non mi sentisse. Quando si rinsavì, lessi l'oltraggio sul suo volto. Mi puntò il dito contro.
Avevo il sentore dentro di me che avesse capito tutto. Sentore che si rivelò presto essere giusto.
«Da quanto tempo?» urlò a pieni polmoni. Il cavallo emise un nitrito per la paura e una piviera volò sul ramo di un altro albero per timore di correre qualche pericolo «Da quanto tempo te la fai con il principe?» gridò nuovamente, quella volta con più impeto e rabbia.
Per un frangente che durò un battito di ciglia, ebbi il bisogno di seguire l'istinto di negare, ma non lo assecondai. Ethelwulf non era sciocco.

Ero paralizzata. Non fui in grado di rispondere, ma tanto non era quello ciò che si aspettava.
Continuò in balia della pazzia «Deduco da quando eravamo già promessi per portare in grembo il suo bastardo!»
Carlyle, che nel frattempo mi aveva raggiunta, mi strinse a sé con fare protettivo; successivamente tuonò «Signor Jhoanart, vi ordino di calmarvi e di controllare le vostre parole!» Percepivo il suo nervosismo sulla mia pelle ma sperai in cuor mio che desse più retta al suo raziocinio che a quello che la sua pancia gli intimava di fare.
Il giovane lo incenerì con lo sguardo. Sembrò, all'istante, aver ricevuto una rivelazione.
«Vostra Maestà, adesso mi è tutto più chiaro... » avanzò con calma verso di lui con aria di sfida «la vostra immotivata comparsa in chiesa il giorno della cerimonia, la vostra costante presenza attorno a quella che sarebbe dovuta diventare mia moglie e che io consideravo pura casualità» mostrò i denti e gli occhi iniettati di sangue «il pugno che ho ricevuto in faccia qualche giorno prima del nostro fidanzamento e che voi avete fatto passare per un'accidentale caduta!» dopodiché la sua bocca si piegò in una smorfia motteggiatrice «Toglietemi un dubbio, Vostra Altezza, vostra moglie ne è al corrente?»
Quella domanda retorica, così caustica e provocatoria, mi causò dei giramenti di testa.
Notai i muscoli del principe irrigidirsi. Era pronto a rispondere, ma lo afferrai per il braccio appena in tempo. Non volevo che le cose peggiorassero più di come erano.
Sorrise beffardo ma l'unica cosa che lessi sul suo volto fu una profonda e incancellabile delusione.
Dopo un silenzio che durò secoli, aveva stabilito di aver ottenuto quel briciolo di vendetta sufficiente da permettergli di proseguire verso la sua destinazione con la testa meno pesante. Si voltò per andarsene, senza fare riverenze o omaggi di alcun tipo. Per comportarsi così, a Ethelwulf, era stato fatto toccare il fondo.
Infine, una volta montato nuovamente a cavallo e afferrate le briglie, profetizzò rivolgendosi a me «Tu, mia cara Anthea, sta accorta poiché sei destinata a soffrire il doppio di quanto hai fatto soffrire me!»

Non mi sentivo bene. Avevo bisogno di un letto su cui abbandonarmi prima di svenire.
Io e Carlyle non ci scambiammo neanche una parola durante il tragitto di ritorno, entrambi troppo sconvolti da quell'incontro. Solo una volta in prossimità della dimora mi lasciai andare a un «Ho tremendamente paura, così tanta che potrei non sopravviverne».
Carlyle mi abbracciò e, come una cura, mi sentii subito meglio, poi mi baciò leggermente le labbra e mi promise, rassicurandomi con i suoi occhi acquamarina, che non avrebbe permesso ci sarebbe accaduto qualcosa.
Rincasai con la sconvolgente consapevolezza che Ethelwulf sapeva. Il timore principale era che giungesse alle orecchie di chiunque e, soprattutto, a quelle di chi era meglio non avesse saputo.
Ero sconfitta e, la cosa peggiore, era che non avevo nessuno con cui confidarmi.

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