Capitolo 59
«Ricordati di scrivermi spesso e sappi che se non lo farai te ne darò il tormento!» Marfa si sistemò i capelli dietro le orecchie facendo risaltare la sua criniera vaporosa. Mi aiutò a sistemare i bauli sulla carrozza e infine mi avvolse in un abbraccio accalorato.
«Non volevi mica partire senza prima salutarmi!» gridacchiò Lydia da lontano. Sembrava avesse voluto attendere il momento giusto prima di attirare la mia attenzione. Un gesto carico di vergogna, inusuale per una personalità scoppiettante come quella della ragazza.
«Stavo aspettando solo te, a dire il vero!» aprii le braccia per accoglierla e anche lei condivise con me il medesimo affetto della ormai mia vecchia compagna di stanza.
«È tutto pronto per partire, signorina Gleannes?»
«Ehi, non vedete che stiamo cercando di goderci gli ultimi momenti ancora insieme? Pensate a controllare queste bestie piuttosto! Dovete accertarvi che la mia amica arrivi sana e salva a destinazione altrimenti saranno guai per voi!»
Fulminai Lydia con lo sguardo.
Il cocchiere sobbalzò impaurito. Dovette convincersi che forse non era così sbagliato dare un'ultima controllata alla carrozza prima della partenza tanto che saltò in terra come una lince e si prodigò a ispezionare i cavalli, poi le ruote e infine che le portiere fossero ben oleate.
Quel giorno terminò di prendere la sua brutta piega quando scorsi Orville Patel entrare a palazzo. Il rapporto che legava i Kynaston con i Patel era più una tradizione che un bisogno: Re Friederich si era sempre affidato a loro e così aveva fatto suo padre e il padre di suo padre.
I Patel avevano acquisito la fama di essere paragonabili quasi ai più grandi banchieri di successo, con l'unica differenza che non possedevano alcuna banca. La loro bravura con i conti e le monete era però innegabile tanto che venivano richiesti anche per una semplice consulenza su quanto fosse profittevole acquistare un carico di merci proveniente da questa o quell'altra destinazione.
Ricordai che un giorno mio padre mi disse che il loro mestiere fosse più longevo di qualsiasi cimelio antico e che la loro professione era nata grazie a un loro antenato che si era trasferito, secoli e secoli prima, a Venezia, centro nevralgico dei mercanti e dello scambio di denaro e che da lì aveva tramandato l'arte del saper fare affari di generazione in generazione.
Mia nonna Beth, che non aveva molti peli sulla lingua, li avrebbe chiamati strozzini piuttosto.
«Ma guarda un po' chi ho l'onore di rivedere!»
Non riuscii a non mostrarmi scocciata. Improvvisai il sorriso più finto che potessi fare.
«Speravo che, una volta rivista, ti avrei trovata con l'anello al dito ma, a quanto pare, le voci hanno ragione a dire che non c'è alcun bisogno di farti le congratulazioni.» ispezionò le mie mani per accertarsi che quello che aveva sentito fosse vero.
Un san Tommaso; privo della santità però.
«Azzardato da parte tua!» bofonchiò ridendo, come se avesse appena detto qualcosa di molto divertente.
«Oh no, vi prego!» il sarcasmo trapelava da ogni mia parola «Non abbiate pena per me! Piuttosto voi, quando penserete di ammogliarvi? O credete invece che il passatempo che vi contraddistingue sia più piacevole di quello che concedersi a una sola donna per il resto dei vostri giorni? Che poi... sappiamo entrambi... » gli strizzai gli occhi, accecata dalla beffa «che non ce ne sarà mai solo una! Ma non disperate, i vostri soldi potranno comprare le attenzioni di qualsiasi donna vogliate, la quale sarà più interessata al suo compenso che a qualche vostra... discutibile...dote!»
L'unica cosa positiva della questione Patel era che, a distanza di quasi dieci anni, il nostro prestito era stato del tutto saldato, avendo ripagato anche i loro tassi di interesse assurdi che erano aumentati per via di qualche evento che loro attribuivano al cambio del peso dell'oro e del valore del doblone e che, quasi per magia, combaciava con il periodo successivo al mio rifiuto di diventare la futura donna della loro famiglia.
Non avrebbero avuto, a quel punto, più modo di importunarci.
La mia attenzione fu richiamata, con la potenza di una grande calamita, verso qualcosa che sporgeva dalle sua tasca e che scintillava abbagliante.
Quando misi a fuoco la vista, trasalii impaurita. Sentii il fiato venirmi meno.
Riconobbi le chiavi di cui, tanto tempo addietro, era alla ricerca James Forks una volta dato l'ultimo triste saluto alla salma del fratello. Una chiave massiccia con una targhetta attaccata.
Mi sforzai ancora di più, ma non potevo sbagliarmi. Era la stessa placca di metallo riportante il simbolo di un triangolo con una barra in mezzo.
Mi riscossi di colpo «Dove avete preso quelle?»
«Ehm? Di cosa state parlando?» trafugò con la mano nelle tasche, brandendo un sorriso canzonatore.
«Mi riferisco alle chiavi che avete appena nascosto!» gridai nella collera.
«Anthea, fatevi salutare prima di partire, mia cara!»
Sir Jacques mi prese per le spalle e mi fece voltare su me stessa come una trottola. Rimasi a farmi stritolare tra le sue braccia per qualche secondo, ascoltando i tentativi di Théodore di risultare dolce a modo suo e, quando mi girai nuovamente per continuare l'interrogatorio, di Orville non c'era più alcuna traccia.
Un brivido gelido mi percorse la schiena e si insediò nella mia mente. Che lui avesse avuto un ruolo nell'omicidio?
Quella sinistra sensazione mi accompagnò anche una volta uscita dai giardini di palazzo Livingstone. Per quale motivo aveva quelle chiavi? Non volevo correre a conclusioni affrettate, magari era solo una coincidenza, ma il fatto che Orville possedesse un oggetto di cui lo stesso James era alla disperata ricerca mi risuonò come pericoloso.
Se Orville avesse deciso di inserirsi negli affari della fonderia, Daisy me l'avrebbe detto.
Quel fine settimana si era pronunciata su molte cose, ma non su quello.
Quello su cui ero sicura era che Orville la sapesse più lunga di quanto volesse far apparire e che, presto o tardi, la questione andava approfondita.
La carrozza si immise su una strada sterrata e un po' fangosa, dati gli acquazzoni primaverili della notte precedente, tanto che udii il cocchiere richiamare i cavalli per farli rallentare.
All'improvviso si fermò nel bel mezzo del nulla. Lo sentii nuovamente articolare altre frasi, ma quella volta di senso compiuto. Doveva aver incontrato qualcuno per strada.
Scostai la tenda facendo smuovere la polvere. Tossii.
Mi accostai al vetro per capire in chi ci fossimo imbattuti. Dopodiché la carrozza riprese a camminare.
Di fronte la finestra macchiata di polvere, passò Carlyle. Attaccai la mano al vetro.
Mi guardò nostalgico e impaurito. I suoi occhi si ingrigirono e la sua bocca assunse una piega spiovente. Era a cavallo di Baston e teneva al contempo le redini di Foedus.
Su un angolo appartato di quella sistemazione, osservò con attenzione quell'infinito silenzio e poi si rivolse a me, che stavo abbandonando quella che fino ad allora avevo considerato casa mia.
Come riuscii in quel momento a trattenere le lacrime, non seppi. Con l'impetuosità di un fiume in piena, si materializzò davanti a me il dolce ricordo dei tempi assieme.
Non riuscii a odiarlo come avevo fatto qualche giorno prima. Lo avevo, a modo mio e forse inconsapevolmente, perdonato.
Lo contemplai un'ultima volta con il cuore di cenere in mano, incerta su quando lo avrei rivisto nuovamente.
Mi aveva promesso che sarebbe venuto a trovarmi. Fu quella la certezza che mi fece aggrappare alla speranza.
La carrozza riprese la sua andatura lenta e rumorosa. Non mi staccai dal vetro e seguii quell'uomo con lo sguardo. Feci scivolare le dita sul vetro per salutarlo. Lui, da lontano, attendeva che il mezzo scomparisse all'orizzonte.
Foedus all'improvviso nitrì e Baston in risposta. Il dolore che provai fu al limite della sopportazione.
Non smettemmo di guardarci fino a quando non fummo così distanti che anche definire i contorni delle nostre figure divenne arduo. Solo a quel punto sussurrai debolmente «addio» e mi rintanai nel buio del mio stato d'animo.
Sperai ardentemente di rivederlo presto. Ne avrei sentito una mancanza accecante.
Dopo un giorno di viaggio, finalmente al tramonto arrivai a destinazione.
Più che un castello, la residenza poteva essere considerata la tipica dimora estiva in cui rintanarsi per fuggire alla mondanità e al trambusto.
Un piccolo gruppetto di domestici, quantificabili sulle dita di una mano, mi attendeva dinanzi la villa in preda alla trepidazione di scoprire chi fosse la nuova arrivata.
La carrozza si fermò e lentamente aprii la portiera. Mi divertiva creare la giusta suspense.
Una signora dai capelli grigi e dall'aspetto bonario mi venne incontro «Benvenuta a Villa Artemide, signorina Gleannes!»
Villa Artemide era una residenza all'insegna della modernità e del buon gusto. Non eccessivamente grande, mi diede l'impressione di esser stata ispirata all'eleganza meridionale e al fascino francese.
Affacciata su un labirinto di siepi molto ampio, la dimora si sviluppava principalmente in orizzontale su pianta quadrata, con due torri alle estremità. Per accedervi bisognava salire una scalinata in basalto bianco a due bracci fino a raggiungere la balaustra in cima, dove tanti occhi vispi mi ispezionavano curiosi.
«Beh... avete intenzione di venire ad aiutarla o no? Cosa state aspettando?» due ragazzetti, poco più grandi di me, scattarono sull'attenti sotto l'ordine della donna e trasportarono le mie valigie all'interno, con cura a non farle cadere.
La donna dai capelli grigi e dall'aspetto elegante mi fece strada verso l'ingresso.
«Signorina Gleannes, io sono Hilde e sono la governante della casa.»
«Piacere di conoscervi! Se non vi disturba, potete chiamarmi Anthea.»
Hilde sorrise e fece un cenno del capo.
La dimora era stata inaugurata da poco e, da quel che avevo capito, solo il principe vi si era recato fino a quel momento. La scarsità dei domestici presenti mi fece credere che il trasferimento potesse essere quasi giustificato se non avessi conosciuto in realtà le ragioni di fondo.
Mi mostrarono la mia camera: una stanza spaziosa e illuminata, con un letto più grande del normale e decorata con qualche tappeto e dipinto alle pareti. Non una di quelle camere che sarebbero spettate in genere alla servitù.
«Sua Maestà ha fatto espressa richiesta che alloggiaste qui. Pensate che all'inizio era stata concepita come camera degli ospiti.» ammiccò Hilde.
Distratta da un movimento, Hilde si scusò con me.
«Gertrude, non venite a presentarvi?» gridò la governante in direzione della porta.
Una donna bassa e dall'espressione scocciata entrò controvoglia. Sembrava fosse stata disturbata proprio nel momento sbagliato.
«Rimanderete i vostri impegni a tra poco. Adesso è buona educazione farvi conoscere alla nuova arrivata.» rimproverò Hilde.
Gertrude improvvisò una riverenza impostata e mi congedò con un sorriso forzato, poi uscii in fretta e furia verso la direzione in cui stava procedendo prima di venir disturbata.
«Presto ci farete l'abitudine, Gertrude è fatta così.»
Giungo trascorse e così fece luglio, fino a quando non arrivarono le calde giornate di agosto. Scoprii che Hilde era la domestica più longeva della famiglia Kynaston e che aveva iniziato a prestare servizio prima ancora della nascita del principe. Instaurai un bellissimo rapporto con lei, tanto che iniziai a vederla più come una figura materna che come una figura a cui ero alle dipendenze.
Fu lei a chiedermi conferma che fossi incinta quando il mio stato divenne più evidente. Mi confidò che era un interrogativo che iniziava a serpeggiare tra il personale e che non avrebbe voluto affidarmi mansioni troppo faticose se fosse stato vero. Non ebbi timore a confermarglielo.
Al quinto mese avevo una pancia evidente e rotonda. Ormai non riuscivo quasi più a vedermi le punte dei piedi.
Era già qualche settimana che lo sentivo muoversi e capitava spesso che durante la giornata lo riprendessi sottovoce per chiedergli di rallentare con i calci perché, a volte, mi faceva venir meno la concentrazione.
Un giorno successe un fatto molto strano. Stavo riordinando le porcellane, quando lo sentii saltellare come una molla. Andai nel panico.
Mi toccai la pancia e rivolsi a Hilde uno sguardo carico di terrore «Sembra impazzito! Credo di avere una trottola dentro, non un bambino!»
Hilde scoppiò a ridere e per poco non fece cadere a terra uno dei piatti che stava lucidando.
«State tranquilla, vostro figlio ha solo il singhiozzo.»
La scrutai, ancora confusa «Non credevo che potessero avere il singhiozzo già in questa fase!»
«Ne ho avuti otto e posso confermarvi che è proprio così.»
Il bambino, da quella occasione, ebbe il singhiozzo almeno una volta al giorno e, quando capitava, prendevo posto su una sedia in attesa che andasse via.
La storia che avevo raccontato era più o meno quella di lady Howard: ero rimasta vedova e mio marito, prima di lasciarmi, mi aveva fatto il più bello dei regali.
Ero sicura che Carlyle avrebbe approvato.
A tal proposito, non avevo sue notizie da quando ero partita.
Ogni mattina mi svegliavo con la speranza che fosse esattamente quella in cui sarebbe venuto a trovarmi e, ogni sera, andavo a letto con la consapevolezza che invece quel desiderio non si era avverato.
Cominciò a farsi spazio dentro di me l'idea che avrei partorito da sola e che avrebbe conosciuto suo figlio solo una volta nato. L'idea mi terrorizzava.
Ogni giorno attendevo una sua lettera, anche sotto mentite spoglie, ma non ricevetti neanche quella. La speranza cominciò ad affievolirsi, ma non scomparve mai del tutto.
Mi fidavo di ciò che mi aveva detto. In cuor mio, gli credevo e lo attendevo con ansia.
Da quando ero arrivata, per tenermi compagnia e per ricordare al mondo della mia esistenza, intrattenevo un costante scambio epistolare con Marfa mentre con Gertrude a malapena qualche parola.
Mi convinsi che non le fossi molto simpatica.
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