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Capitolo 57

Nel giro di qualche settimana la notizia del mio matrimonio fallito serpeggiò in tutti gli angoli di palazzo, giungendo alle orecchie della principessa stessa e, di conseguenza, a Godwin.

Era sera e si trovava accomodato alla sua solita scrivania in ebano, inebriato dai fumi dell'incenso, intento a rispondere alle missive francesi che reclamavano il suo ritorno a corte alle quali lui, tuttavia, replicava alludendo a impegni inesistenti che lo costringevano a Sommerseth. I suoi occhi si illuminarono di una luce perversa e maligna il giorno in cui gli venne comunicato che la sottoscritta aveva rifiutato suo marito sull'altare e per di più che lo aveva fatto per un altro uomo.
A meravigliarlo fu proprio quest'ultimo particolare dal momento in cui non era dotato dell'empatia necessaria che potesse fargli provare un minimo di compassione umana verso un uomo frantumato, quanto della consapevolezza che qualcuno c'era e che si trattava proprio di suo fratello.
La cattiveria di Godwin era pericolosissima. Egli costituiva l'esempio vivente di una verità destinata a durare in eterno: il potere logora chi non lo possiede.
Mi chiesi allora quale fosse l'obiettivo di tutte le sue malefatte: se diffamare Carlyle, fargli perdere credibilità agli occhi dei sudditi che non lo avevano mai privato del loro appoggio o, semplicemente, vendicarsi di suo fratello per averlo relegato tutta la vita nella penombra. Ero sicura che nutrisse una gelosia affilata e canina verso il principe per aver usurpato il posto che lui riteneva suo per natura o per diritto divino e che non avrebbe desistito dal tramare contro di lui fino a quando non avesse ottenuto una rivincita che avrebbe saputo soddisfarlo.
Non dubitai di Ethelwulf all'inizio, non lo credevo capace di sbandierare ai quattro venti l'accaduto alla ricerca di compatimento, non dopo tutte le volte che aveva manifestato il ribrezzo nei confronti del pettegolezzo; ma poi in me si fece spazio l'idea che quella potesse essere la sua vendetta: umiliarmi come avevo fatto io con lui.
Se era stato lui oppure semplici allusioni da parte di qualche presente indiscreto, non potevo saperlo.
Quella notizia rinvigorì Godwin a perseguire il suo scopo e, allo stesso modo, a infondere in Jocelyn quanto più sospetto possibile. Gradualmente e senza mai agire in maniera plateale, il duca aveva reso la principessa il suo burattino: facile da manipolare e da fagocitare di paure e presentimenti. Era semplice farle credere ciò che a lui conveniva di più: la dipartita della sorella, l'assenza del principe negli ultimi tempi e la malalingua di Godwin non facevano altro che indebolirla e farla dubitare della sua stessa ombra.
E dunque se Carlyle non la baciava sulla guancia una volta finita la colazione, Godwin sibilava nel suo orecchio la calunnia che suo marito non fosse più quello di un tempo; se non la invitava a cavallo durante la passeggiata del sabato pomeriggio allora non aveva più piacere a trascorrere dei momenti di intimità con lei e se non la riempiva di complimenti come sarebbe stato conveniente per una reale inglese significava, del resto, che le sue buone maniere venivano indirizzate verso qualcun'altra.
Jocelyn, nel giro di poco, era diventata estremamente sospettosa e instabile.
Mi accorsi che mi pedinava con lo sguardo più del previsto: era su di me mentre servivo la tavola, mentre camminavo in giardino nel tempo libero e perfino mentre scendevo nelle mie stanze una volta calata la sera.
Avevo costantemente il suo fiato sul collo, pesante, indagatore e asfissiante.
Ero diventata il suo chiodo fisso, il persecutore dei suoi sogni e, al tempo stesso, la preda da cacciare. Godwin le aveva fatto il lavaggio del cervello, facendole credere che io fossi una minaccia per il suo matrimonio e che avevo in mente chissà quale piano malvagio per far cadere suo marito nella trappola.
Lei questo non poteva permetterlo.

Sotto suggerimento di suo cognato, era fondamentale però agire d'astuzia: mettere da parte esternazioni affrettate e temporeggiare per evitare di dare troppo nell'occhio a Carlyle che, dal canto suo, avrebbe potuto fare ben poco se non rassicurare a parole sua moglie su quanto infondate fossero le allusioni di un pazzo che provava piacere nel seminare zizzania per sentirsi meno ignobile dal basso della sua condizione.
Questo era il massimo che il principe potesse fare... perché la verità era un'altra e sicuramente non poteva dare spettacolo dei suoi impulsi come aveva già fatto una volta.

Le mestruazioni di quel mese non arrivarono, come volevasi dimostrare. Ero agitata all'inizio, non sapevo come nascondere quel piccolo particolare, poi fortunatamente mi ricordai che poco più di un mese prima avevo nascosto nel cassettone un lenzuolo macchiato di sangue che non avevo mai messo a lavare e che, per quell'occasione, poteva tornarmi utile.
Per aprile me la cavai, il problema sarebbe stato per i mesi successivi.
Se a me non erano tornate, la principessa era stata precisa come un orologio svizzero e, come di consuetudine, le sue lenzuola andavano cambiate.
«Non vorrete me ne occupi io, signorina Gleannes!» esclamò Sir Jacques quando ribattei che avrei gradito fare altro, anche raccogliere a mano tutti i fiori di zafferano, pur di evitarmi quello.
Ebbi timore, invece, quando intesi che era previsto che sarebbe stata solo e unicamente la sottoscritta a doversi occupare di quella mansione: rabbrividivo all'idea di incrociare il suo sguardo e di diventare bersaglio delle sue domande, istigazioni e commenti infelici.
Acconsentii controvoglia, non potevo certo rifiutarmi, ma decisi di recarmi nelle sue stanze verso ora di pranzo, in un momento in cui, quasi certamente, non l'avrei trovata.
Ero alla sua porta, più tranquilla di quello che mi sarei aspettata. Bussai debolmente per consuetudine, come era giusto fare, ma non rispose nessuno.
Quel pomeriggio mi ero messa d'accordo con Marfa per andare a prendere un tè in città e per passeggiare tra le vetrine dei negozi. Avevo accumulato un gruzzoletto e fremevo all'idea di poter comprare un nuovo cappello dalle forme morbide, come quelli che andavano di moda negli ultimi tempi.
Sfortunatamente, non ebbi il lusso di bearmi tra quei pensieri dopo ciò che mi ritrovai davanti, una volta aperta la porta.

La camera era sfatta, utilizzata come covo di due amanti che avevano passato la mattina, forse l'intera notte, a rincorrersi sotto le lenzuola. Nel letto, coperto da solo un lembo della coperta, c'era Carlyle a petto nudo.
La pelle candida, i peli bruni sui pettorali e le vene in rilievo delle braccia... lui li aveva appena condivisi con un'altra.
Mi irrigidii, sbarrai gli occhi e indietreggiai sconvolta.
Il principe che risiedeva sotto tutti quei merletti, risaltava beato come un quadro dentro di una cornice. Lo fissai abbastanza a lungo per chiedermi dove fosse l'uomo che conoscevo e provare, dinanzi a quell'incapacità di rispondere, un tremendo senso di sbigottimento.
Mi rivolse un ampio sorriso «Signorina Gleannes, perdonateci, io e mia moglie avremmo dovuto sgomberare la stanza da un pezzo.»
Si mise a ridacchiare, alludendo al fatto che il mio ingresso aveva interrotto il loro divertimento.
Ero tramortita. Perché si comportava in quel modo? Non potevo crederci. Forse ero parte di un incubo.
Boccheggiai con goffaggine, senza sapere cosa dire, poi afferrai velocemente le lenzuola che erano in procinto di cadermi dalle mani per lo sconcerto.
Proveniente dal bagno della stanza, comparì Jocelyn. Era nuda e il suo corpo alto, divino e snello era a malapena coperto da un lenzuolo che reggeva fiaccamente con la mano, per creare l'effetto vedo non vedo.
Avanzò sinuosamente, con le movenze di una gatta.
Mi scrutò maligna e appagata. Arricciò la bocca in una smorfia beffarda e aggrottò i lunghi e biondi sopraccigli. Si sedette sensualmente sulla poltrona in velluto e appoggiò le lunghe gambe sul puffo, mettendo in mostra una parte di se così pericolosamente attraente.
Afferrò del tabacco e lo inserì nella pipa e poi cominciò ad aspirarlo, creando tante nuvole di fumo che la avvolsero in una nube mistica.
«Scusateci, eravamo... impreparati a questa visita.» espirò un'altra folata di nicotina e rise sensualmente. La principessa mi ispezionò guardinga, dando l'impressione di non attendere altro che la mia reazione. Forse non vedeva l'ora.

Ero piombata in una situazione di gelo. Abbassai gli occhi per risponderle, ma temetti di balbettare per il nervoso.
Aprii la bocca, pronta a dire una parola, forse un verso, ma rimasi bloccata in quella condizione senza riuscire ad articolare nulla.
Lei godeva a vedermi così, era chiaro, ma non fu quel particolare a meravigliarmi, quanto constatare che Carlyle non provasse neanche un briciolo di misericordia per me.
Dov'era finito l'uomo che mi aveva dimostrato sollievo per il fatto di non essermi sposata? L'uomo che esplodeva nella collera cieca alla visione di qualcuno che non fosse lui, sfiorarmi? Perché mi sembrava tutto così irreale?
Jocelyn improvvisamente si alzò, portando con sé l'unico capo che copriva le sue grazie. Si diresse verso il marito molleggiando. Questi la osservò incantato e con ardore.
Senza indugiare, strappò via quel frammento di coperta che lo copriva a malapena. Per timore che fosse nudo, scostai la testa istintivamente.
Mi resi conto, solo dopo, che non lo era e che lo aveva invitato ad alzarsi.
La scultura di marmo acconsentì all'invito della donna. Quell'immagine mi scosse l'animo al solo pensiero che più volte ne avevo attinto e che non ero io la persona destinata ad abbeverarsene nuovamente. I suoi muscoli si mostrarono più definiti del solito, i polpacci striati impreziositi di tanti riccioli neri, i glutei sostenuti, i pettorali gonfi e vigorosi. Prostrò la mano nodosa e affusolata alla donna e questa la baciò, portandola poi sul suo fondoschiena.
Un fuoco sottile divampò sulla mia pelle, il buio annebbiò gli occhi e il ghiaccio irrigidì il cuore. Il rombo del sangue pulsò nelle vene e la lingua a malapena si contorse in un lamento.
Carlyle rimase di spalle di fronte la finestra, irradiato da una luce che lo fece sembrare ancora più divino. Jocelyn si nascose dietro il corpo del marito e lasciò cadere in terra il lenzuolo.
Fremetti a quella visione.
Si affacciò con la testa dalla spalla per fulminarmi con occhi che sprizzavano vendetta. Affondò una mano tra i capelli del principe e infilò l'altra nelle braghe, pronta a farle scendere.
«Vostra Altezza, credo di non sentirmi bene. Tornerò più tardi, quando la stanza sarà vuota.» biascicai incredula e disturbata.
Guardò l'uomo di profilo e gli rivolse una smorfia audace «Credo sia meglio, signorina Gleannes, adesso io e il principe abbiamo da fare.» lo baciò con eccessiva passione. Fu allora il momento dell'inchino e di fuggire da quella gabbia di lussuria e gelosia.

Corsi via in preda a un misto di sensazioni che non seppi subito identificare. Uno strano sentimento, più antico della follia, si intrufolò nella mia mente e mi rese schiava della perdizione e della gelosia. Cercai un appiglio.
Le certezze di prima erano affogate... potevo veramente chiamarle così?
La testa mi sbandò pericolosamente. Ebbi bisogno di vomitare.
Era sua moglie, lei poteva tutto, ma lui... perché lui non aveva evitato che assistessi a quello scempio perverso?
Era sì, sua moglie, ma avrei voluto soffocarla con le mie mani.
Mi trovavo sull'orlo della pazzia, in preda a un'apnea infinita.
La mia serenità era spaccata, rimasta solo con uno scheletro d'amore che gridava vendetta. E piansi nel mio abbandono. Oscillai come sospesa su un filo, tra i quadri del corridoio e gli incubi che mi perseguitavano, fino a quando Marfa non mi scorse da lontano e mi venne incontro, atterrita.
«Anthea! Cosa ti succede?»

Il bosco.
Ethelwulf.
Il tempietto dell'amore.
Le sue carezze.
Il bambino.

La abbracciai e scoppiai a piangere come una bambina lasciata sola, in preda al suo dolore. Marfa si impensierì, mi avvolse al petto e mi accarezzò il capo.
Scrutò i dintorni «Vieni, andiamo via da qui.»
Mi asciugai le lacrime con un fazzoletto, fino a quando non fu talmente bagnato da non poterlo più utilizzare. Andammo all'esterno e ci sedemmo su una panchina, nel giardino all'italiana.
Il sole brillava candido in cielo, non presentandosi più pallido come l'inverno trascorso.
Mi lasciò assaporare il silenzio, interrotto dal canto degli uccelli che ribadivano l'arrivo della bella stagione.
A un certo punto poggiò la sua mano sulla mia, io gliela strinsi e la baciai teneramente.
Cosa era un'amica, se non qualcuno sempre presente nel momento del bisogno.
Ripercorsi nuovamente quelle immagini nella mente e fu come ricevere una scarica di pugni sullo stomaco.
«Ti sei mai sentita travolta da un sentimento forte... così forte... ma impossibile da nutrire alla luce del sole?» la afferrai per le mani e la inchiodai con lo sguardo «ti sei mai sentita strappata da qualcosa che consideravi irrazionalmente tua?»
Marfa abbassò lo sguardo. Si distrasse con il merletto dell'abito.
Dopo un po' mosse leggermente la testa in senso affermativo.
Qualcosa mi diceva che non si riferiva a Maximilian.

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