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Capitolo 55

«Anthea, caspita, sei una meraviglia!» esordì Lydia, dopo che Marfa aveva terminato il suo lavoro. Quest'ultima poggiò le mani sui fianchi e indietreggiò di qualche passo per ammirare meglio la sua opera. Gongolò su se stessa una volta resasi conto che, sì, si era impegnata davvero tanto.
Avevo solo un piccolo specchietto alla mano che non avrebbe contenuto la mia figura intera ma, una volta indossato l'abito e tutto il resto, meditai dentro di me che dovessi essere veramente una bella sposa.
Il timore dei giorni precedenti era stato che il vestito, una volta infilato, avrebbe messo in evidenza qualche rotondità. Non ero sicura di quanto fossi, potevo essere anche di un mese, e questo certamente non avrebbe dovuto crearmi disagi dal momento in cui, a quel punto della gestazione, le forme erano pressoché inesistenti. Mi tranquillizzai, tuttavia, solo dopo aver indossato l'abito e aver appurato con i miei occhi che era impossibile scorgere qualcosa che andasse al di là di una bella ragazza.
«Ethelwulf non appena poserà gli occhi su di te non vedrà l'ora di averti tutta per sé!» ammiccò Lydia, soffocando poi una risata maliziosa.
Ebbi il voltastomaco al solo pensiero ma risposi facendo finta di provare imbarazzo e, altrettanto, di non anelare altro che arrivasse quel momento.
Perché in fondo era questo il mio compito.

All'improvviso entrò in quella stanza una vocina fragile, sommessa e timida, accompagnata da un leggero rumore di tacchi e da un vestito rigorosamente scuro.
Non avevo mai rimpianto il fatto di non essere figlia unica e non esistevano situazioni in cui avessi al contempo amato teneramente mia sorella e desiderato non averla vicino.
Non c'erano mai state circostanze, infatti, in cui la gelosia avesse preso il sopravvento e mi avesse fatto desiderare torcerle il collo.
Daisy era lì, finalmente, dopo tanto tempo, con indosso un abito casto - non nero fortunatamente - ma molto meno appariscente di come avrebbe richiesto l'evento. I suoi occhi, una volta brillanti e spensierati, erano invece abitati dai fantasmi del rimpianto e dell'abbandono. La sua eccessiva magrezza e il volto scarno, di chi aveva concentrato troppe energie sul pensare a come sarebbe potuta andare al posto di prendersi cura del sé, erano la dimostrazione che non aveva ancora superato la morte di Thomas Forks e che forse non l'avrebbe mai superata.
Era cosa buona per lei essere lì in quel momento?
Come era ingiusta la vita ad aver privato una donna del suo grande amore e averne costretta un'altra in una strada a senso unico.
La presenza di Daisy era forse la meno azzeccata e opportuna per quel giorno. Non perché non desiderassi averla vicino, ma perché sapevo che presto avrebbe vissuto nuovamente la tragedia che le si era catapultata addosso senza che poi questa avesse avuto il finale da lei desiderato.

«Siete molto graziosa!» sussurrò timidamente.
Se lo aveva detto, lo pensava veramente. Sapevo però in cuor mio che quella frase le era costata molta fatica. Socchiusi le palpebre e mi grattai le guance, aprii poi le braccia che accolsero quel cucciolo indifeso e ancora dolorante.
Dopo mesi, la morte di Forks era un caso irrisolto, un omicidio di cui ancora non si conosceva il volto dell'assassino. Mi vergognavo amaramente di questo e me ne sentivo tremendamente in colpa, quasi a dovermi assumere la responsabilità di un caso senza soluzione. Questo mio sentire, per lo meno, denotava la mia umanità.
Quel fatidico giorno avevo promesso a me stessa, di fronte all'immagine della salma addormentata dell'acciaiere, che avrei concorso a rendere giustizia alla sua scomparsa.
Fino ad allora, tuttavia, pressoché nullo era stato il mio contributo e di certo non avrei potuto cominciare in quel momento per via delle mie condizioni.
«Cosa altro stiamo aspettando? Dai, dai! Non vogliamo mica far aspettare troppo il povero Ethelwulf!» l'emozione di Marfa si riconfermò ancora una volta stridente con la mia.
Il tragitto fino alla chiesa non fu lungo, tuttavia quell'abito stretto e i tacchi non resero agevole la mia andatura e vi impiegai per questo più del doppio del tempo.
«Perché ti fermi a guardare?» domandò Lydia, notando che rallentavo il passo di fronte a ogni finestra dei corridoi.
«Sto constatando che la giornata è a nostro favore.»
Effettivamente lo era, ma in realtà guardavo il cielo perché era l'unico modo attraverso il quale potessi connettermi con mio padre.
Quel giorno la sua mancanza gravò maggiormente. Ero sicura che lui mi avrebbe capita, semplicemente guardandomi negli occhi, e che mi avrebbe rincuorata con la parola giusta, adatta o meno per l'occasione.
Avevo bisogno di sentirlo vicino.

Arrivammo di fronte la porta della chiesa.
Sir Jacques, quasi ad aver percepito la mia presenza, comparve uscendo da una piccola fessura tra le ante per evitare che lo sposo e tutti gli invitati si privassero in anticipo dell'effetto sorpresa.
Sobbalzò, affascinato anch'egli non appena mi vide «Vado ad annunciare la vostra presenza!»
Sparì poco dopo e subito partì la marcia nuziale.
La mia anima vibrò agitata dall'inquietudine. Una tempesta burrascosa eruttò dentro di me e fece razzia di tutto il buono che vi era rimasto. Solo lui era al sicuro e solo per lui stavo compiendo quel passo, legando il mio destino all'eterna infelicità.
Un amaro e arrendevole sospiro seguì non appena la porta si aprì e un mormorio eccitato si elevò in accompagnamento.

Ethelwulf era lì vicino l'altare ad aspettarmi. Era indubbiamente di bella presenza, tirato a nuovo per l'occasione. Indossava un abito nero in vellutino, composto di giacca e pantalone a tre quarti, con una camicia bianca e calzettini abbinati. Mi attendeva con le braccia conserte all'altezza del fondoschiena e un sorriso stampato sulla faccia, di chi non attendeva altro che quel momento. Quando mi vide allargò la bocca da far vedere i denti e mi guardò estasiato, come se non mi avesse accompagnata, fino ad allora, a ogni prova dalla sarta. Sarà stata forse l'occasione in sé, forse la luce che entrava dalle vetrate decorate della chiesa e che formava un gioco di colore sul mio abito bianco; ciò che era certo era che mi osservava come fossi la cosa più bella che avesse mai visto prima.

Ero sicura di ciò che stavo facendo?

Lydia e Marfa si defilarono mentre Daisy aveva già preso posto tra i primi banchi della chiesa.
Mia madre mi prese da sotto il gomito per accompagnarmi e cedermi all'uomo che mi aspettava in fondo alla navata. Da lontano, padre Baruffaldi, con il suo saio marrone e la croce in ferro appesa al collo, mi attendeva con la mani congiunte. Sembrava molto più vecchio di come lo ricordavo.

Era giusto accettare un compromesso del genere? Quella non era una storia d'amore ma un matrimonio per l'amore. L'unica soluzione era sacrificarmi per qualcosa che non desideravo?

Avanzai i primi passi, tenendo così stretto il bouquet tra le mani che rischiai di piegare i gambi dei fiori.
Un passo e un altro ancora.
Conoscevo a malapena qualche volto di quelli seduti tra i banchi, la maggior parte di essi non li avevo neanche mai visti. I mariti mi guardarono a stento, le mogli invece non fecero altro che squadrarmi da cima a fondo per poi confidarsi all'orecchio qualche parola. Dal parlottare generale, capii di aver fatto una bella figura.
Mi voltai alla finestra e carpii la figura di un uomo a cavallo.
Il tempo si fermò.
Carlyle sormontava Baston. L'animale sembrava agitato. Forse anche lui aveva capito qualcosa. Il cavallo era sempre più irrequieto. Il principe lo tirò e questi trottò prima a destra e poi a sinistra.
Mi guardava da lontano. I suoi occhi sanguinavano disperazione, poi si girò e partì al galoppo, per scomparire infine nell'oscurità del bosco.

Lui era libero, io invece stavo per entrare in una gabbia fatta di menzogne e pugnalate alle spalle.

«Anthea, avanza!» sibilò Marfa, che era sgattaiolata tra i banchi per risvegliarmi da quello stato di trance. Mi ripresi di colpo e constatai che anche mia madre si stava chiedendo se ci fosse qualcosa che non andasse.

Quel bambino era stato concepito in due, non proveniva solo da me. Perché Carlyle aveva il privilegio di sfuggire alle sue responsabilità?

Ethelwulf non riusciva a interpretare quel mio temporeggiare. Quando gli abbozzai un sorriso, durante la traversata della navata, anche i suoi occhi marroni tornarono a risplendere.
Ero finalmente arrivata all'altare. Il mio futuro marito mi prese per la mano e mi aiutò a salire il gradino. Il suo sguardo brillava in estasi. Mi sollevò il velò da davanti il volto. Lo vidi commuoversi.
Padre Girolamo cominciò.

Perché un uomo giusto.

«Siamo quest'oggi nella casa del Signore per unire in matrimonio... »

Puro.

«Il signor Joanhart... » si voltò verso di lui.

Senza macchia quale era Ethelwulf.

«E la signorina Gleannes.» si girò verso di me.

Avrebbe dovuto portare il peso delle azioni di un altro?

La liturgia seguì con il ricordo del battesimo. Era impensabile infatti che due battezzati non si sposassero davanti a Dio.

Perché infondere la falsa convinzione di una presunta paternità in un uomo privo di colpe se non per quella di aver fatto affidamento su una donna bugiarda?

Venne celebrata la consueta messa. Non prestai attenzione alla minima parola, neanche quando il sacerdote intonò l'omelia. I suoi sermoni erano sempre dispensatori di ottimi consigli.
Trascorsi tutto il tempo a cercare la risposta nel crocifisso d'oro appeso al di sopra del tabernacolo.
Mi sentivo come un cucciolo impaurito e nascosto fra gli sterpi secchi di un perenne inverno.

Ethelwulf mi avrebbe perdonata? Avrebbe mai acconsentito a questo se avesse saputo?

Seguirono le letture dei fedeli accompagnate da un «Ascoltaci, Signore» in risposta.

Con quale presunzione mi ero accordata a condannare l'uomo che avevo di fronte?
Aiutami, Signore.

Cercai Daisy, allo stesso modo in cui lei cercò me quando si rese conto che il ritardo di Forks era ingiustificato. La trovai e le chiesi aiuto. Mia sorella capii. Irrigidì il volto e serrò le labbra. Non avrebbe potuto fare nulla.

Sapevo che mai più avrei potuto volar via come avrebbero fatto gli uccelli da un albero all'altro. Marciavo verso un destino certo: avrei consumato il mio tempo, mentre il tempo avrebbe consumato la mia felicità e quella di Ethelwulf di riflesso.

Baruffaldi afferrò l'aspergillum e lo immerse nell'acqua santa. Lo agitò prima su di noi, poi si incamminò tra i banchi e fece lo stesso sul resto dei fedeli. Era la seconda volta in quella celebrazione.

Che bisogno c'era di benedire nuovamente un'unione infelice?

Udii la porta della chiesa cigolare per poi chiudersi subito dopo. Un mormorio si diffuse nell'aria e, per un breve istante, Baruffaldi smise di celebrare la messa. Lui stesso non aveva capito se quell'ingresso era preventivato o solo casuale.
La maggior parte dei presenti, non avendo mai visto il principe in persona, ne rimase sbalordita quando se lo ritrovò a pochi passi di distanza.
Seguì qualche inchino, non troppo eclatante per il luogo in cui ci trovavamo né troppo pudico per non mancare di rispetto alla figura che si trovavano di fronte.
Quegli occhi che mi avevano stregata, me li ritrovavo davanti un'altra volta. Essi avevano turbato il mio spirito e frantumata la mia pace.
Cosa ci faceva lì? A rendere ancora più complicato quel passo?
Gridavo dentro di me affinché andasse via perché solo così sarebbe stato più semplice apporre la firma su un destino martoriato. Eppure lui era lì, nella penombra di un angolo, ad attendere di udire quelle parole che non avrebbe mai desiderato ascoltare. Era lì, in preda a una tormenta di rimpianti e illusioni, in attesa della promessa tra un uomo e una donna che avrebbe vanificato tutte le sue impossibili speranze.

La liturgia del matrimonio stava arrivando al suo momento più importante. Il sacerdote si munì del libro sacro e proseguì con tono solenne.
Era arrivato il frangente più temuto e rinnegato di quel giorno, dalle acque così torbide, dall'espressione così assente.
Mi lamentavo dal basso dei fondali marini, piangevo dal centro di una distesa desertica.
«Volete voi, Ethelwulf Joanhart, prendere in moglie la signorina qui presente Anthea Gleannes, per amarla e onorarla per il resto della vostra vita?»
«Sì, lo voglio!» esclamò in balia dell'emozione.
«E volete voi, Anthea Gleannes, prendere in marito il signore qui presente Ethelwulf Joanhart, per amarlo e onorarlo per il resto dei vostri giorni?»

Ethelwulf, non sarò mai Alice.

Mi girai finalmente per guardarlo. Nei suoi occhi vi lessi speranze, attese, desiderio e amore. Era emozionato come un bambino di fronte a un aquilone, di fronte alla madre che lo accoglie al ritorno dai campi, di fronte al suo primo amore fanciullesco.

Se ti avessi amato avrei vissuto, forse male, forse bene, ma avrei vissuto.

Gli presi le mani e le strinsi tra le mie. Erano calde e tremolanti.

Chissà cosa ci avrebbe riservato il futuro. I nostri figli, se ne avessimo avuti, mi chiedevo come sarebbero stati: può darsi avrebbero ripreso i tuoi capelli biondi, forse i miei occhi verdi.

Flettei il labbro in una curva concava. Quell'atto infuse in lui fiducia. Divenne sempre più impaziente di ascoltare la risposta.
«Ethelwulf» il suo sguardo brillò per l'emozione «io non posso sposarti.»

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