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Capitolo 54

«Non... non è possibile...!» dalla voce colsi il suo terrore e ne indietreggiai impaurita. Come era possibile che mi sentissi così in colpa per aver confessato?
Una voragine si era aperta di colpo dentro di lui. Qualche nuovo pensiero angosciante si era impossessato della sua mente.
Camminò in quel piccolo spazio seguendo un tragitto confuso, non rettilineo, mettendosi le mani tra i capelli e guardandosi in qua e là spaesato. Si muoveva non con la sua solita agilità felina ma con quella di un minotauro che sbatte gli zoccoli a terra per il peso della testa.
Ripeteva a bassa voce «Non è possibile.»
Non riusciva a smettere di tremare. Non si capacitava della notizia che gli avevo appena dato, non arrivava a farsene una ragione.
Trasalii. Non potevo accettare che dubitasse della mia integrità, non se mi conosceva almeno un pizzico di quello che avrebbe dovuto.
Mi allarmai ma attesi il tempo necessario per capire se ci fosse dell'altro, oltre a quel suo comportamento.
«Carlyle lo è, vi giuro che é come vi ho detto! Non ho conosciuto altro uomo se è quello a cui state pensando!» sottolineai inquieta, dopo aver appurato che più prendeva confidenza con quella notizia più il suo smarrimento accresceva.
Una volta proferite, ebbi l'impressione che quelle parole fuoriuscirono dalla mia bocca incontrollate tanto che mi resi conto di averle articolate solo a frase ultimata.
Mi fulminò con occhi di fuoco. L'idea gli fece ribollire il sangue e intuii che non era quello a cui stava pensando.
Quello sguardo fu più rivelatore di una qualsiasi spiegazione e solo allora riuscii a dare un significato a quella frase che ripeteva come il ritornello di una filastrocca. Mi affrettai a parlare prima di perdere il coraggio «Avete sempre creduto di non poter avere figli e, fino a ora, vi siete addossato responsabilità che in realtà non avevate, forse non siete mai stato voi l'ostacolo. Forse è vostra moglie che non può averne!»
Quelle parole ebbero in primis un effetto su di me oltre che su di lui. Intuii di aver premuto un tasto dolente, recondito e che gli procurava vergogna ma, al tempo stesso, mi accorsi di aver centrato il segno. Il punto era che non avevo mai avuto intenzione di farlo sentire nudo di fronte alle sue paure e, quando mi resi conto che invece era proprio ciò che era successo, mi dispiacqui amaramente.
Avvertii gli occhi pizzicarmi e un nodo alla gola cominciarsi ad attorcigliare. Gli corsi incontro e lo presi per i lembi della giacca. Lo guardai dal basso e la sua altezza mi diede le vertigini  «Carlyle, questo è vostro figlio... vostro figlio!» scoppiai nuovamente a piangere e poggiai il capo sul suo torace per celare le condizioni in cui mi trovavo. Era anche la mia dignità a doversi nascondere, forse tutelare. Mi sentivo rifiutata, non compresa e probabilmente anche giudicata. Mille pensieri tornarono a urlarmi nella testa. Cosa ero stata per lui? Un'amante e niente più?

Tra lo sconforto e le lacrime, sentii due braccia avvolgermi e stringermi. Una sensazione di calore partì dall'interno e mi intiepidì prima la mente e poi il corpo.
Smisi di singhiozzare e il petto riprese a muoversi a un ritmo normale, tirando su il muco che minacciava di causarmi un soffocamento.
Alzai il volto e lo guardai. Mi trovai di fronte un sorriso dolce ma malinconico. Con una mano mi asciugò gli occhi, poi mi riscaldò con l'aura dolce delle sue iridi e con un tenero bacio sulla fronte.
Sussurrò «Non piangete.»
Piegai la bocca in un accenno di sorriso che a stento riuscì a celare il mio dolore, allora mi accoccolai nuovamente sul suo torace e lo strinsi dolcemente. Il principe accolse il mio abbraccio e me ne restituì un altro ancora più protettivo e amorevole.
«Di quanto siete?»
Gradualmente mi sciolsi da quelle braccia possenti e sbattei gli occhi ancora umidi.
Uno stormo di uccelli, forse storni, sorvolò le nostre teste in una perfetta coreografia, macchiata solo dall'arrivo intimidatorio di un falco pellegrino. La primavera si stava finalmente svelando e, con essa, la sua vita.
«Forse due o tre settimane, non so dirvelo con esattezza.»
Dal momento stesso in cui gli avevo rivelato della gravidanza, avevo la sensazione di annaspare con l'acqua alla gola e che non ci sarebbe voluto molto prima di annegare.
Serrò le palpebre e spostò le pupille al di sotto in un movimento convulso, poi portò l'indice e il pollice della mano destra sui bulbi chiusi e premette lievemente. All'improvviso il suo volto cambiò. Divenne serio e imperturbabile, quasi si fosse dimenticato della rivelazione che gli avevo appena fatto.
Stava ragionando su qualcosa ed ero impaziente di scoprirlo.
«Questo fine settimana vi sposate, vero?»

Per quanto amassi mia nonna Rosalie sopra ogni misura, il motivo sottostante la mia esultanza nell'andarla a trovare era, oltre alle meringhe che puntualmente trovavo sul tavolo all'ingresso e che erano state sfornate per finire direttamente nello stomaco della sottoscritta, una coppia formata da una cavalla e un bue che mio nonno teneva nella stalla retrostante la casa. Osservarli e parlare con loro per ore intere fu il mio passatempo preferito fino a quando non raggiunsi l'età che mi permettesse di capire che da quegli animali non avrei ricevuto risposte se non qualche emissione di suoni che coincidevano per lo più con il momento in cui la cavalla reclamava il suo fieno.
Una giorno come tanti mia nonna, notando un inconsueto alone di tristezza sul volto di una bambina, mi affiancò preoccupata per chiedermi se ci fosse qualcosa che non andasse.
«Credi che si sposeranno mai?» non ci pensai due volte a condividere con lei l'interrogativo che mi angustiava.
A quella domanda, mia nonna spalancò gli occhi e accennò uno sghignazzo che diede invece l'impressione di essere una risata soffocata per non far cadere nel ridicolo una bambina che non aveva fatto nient'altro che dimostrare la sua innocenza in quell'interrogativo.
«Oh no, il bue può sposare solo la signora mucca e la cavalla solo il signor cavallo.»
«Quindi non si ameranno mai?»
«No, non si ameranno mai, ma si vogliono comunque un gran bene, Anthea.»

Feci cenno di sì con la testa.
Il principe si morse il labbro e passò la mano tra i capelli. Percorse in tondo il patio del tempietto battendo i tacchi come le lancette di un pendolo. Avevo imparato ormai che quando faceva quel gesto si trovava in difficoltà.
Il lungo sguardo che ci scambiammo nell'attimo immediatamente successivo proferì molto di più di quanto le parole sarebbero state in grado di fare.
Un mondo di consapevolezza urlante e nefasta mi avvolse, fatta di silenzi costretti e certezze indigeste. Avevo capito prima ancora che lui mi parlasse.
«È la cosa migliore, per tutti e tre.» mormorò con un filo di voce.
Il matrimonio con Ethelwulf si sarebbe celebrato e avrei fatto passare il bambino per suo figlio, concepito durante la prima notte di nozze. Nessuno avrebbe dubitato di un parto anticipato di qualche settimana, l'evento sarebbe stato infatti considerato come normale per la nascita del primogenito.

Mi trovai nella posizione di voler controbattere, di urlare a un certo punto, ma non trovai le parole giuste e alla fine ingoiai quel compromesso, con uno sforzo e una riluttanza enorme. Non mi sarei potuta aspettare nient'altro a meno che non avessi desiderato la crisi in un matrimonio prevalentemente politico e minare alla stabilità di un regno già compromesso dalla disputa bellica tra potenze straniere e insediato ulteriormente dall'arrivo di un regnante rinnegato alla nascita.
Io e Carlyle eravamo come la cavalla e il bue: incongruenti sotto molti aspetti.
«Ethelwulf sarà un buon padre, voi una buona madre, e il bambino crescerà sereno.»
Il principe mi prese la mano. Era sofferente anche lui per quella decisione ma entrambi eravamo consapevoli che sarebbe stata quella meno dolorosa per chiunque, in primis per il bambino che sarebbe cresciuto lontano da complicazioni di ogni tipo.
Un giorno, forse, avrebbe capito.

Il bacio che successivamente mi stampò sulle labbra alleggerì l'emotività di cui mi ero fatta carico durante quell'ora. All'improvviso si fece più intenso, come se avesse voluto cibarsi di me ancora una volta. Afferrai il suo volto con le mani e le strinsi sulla mascella per poi avvicinarlo ancora di più a me. Mi abbracciò per la vita e mi sollevò in alto.
Proseguì quello scambio di effusioni nostalgico e doloroso fino a quando non percepii nuovamente le mie guance tremare. Fu allora che vidi per la prima volta scendere una lacrima dall'occhio di Carlyle, una timida goccia salata che si era staccata dal suo corindone blu e che viaggiava esule lungo la discesa.
Poggiò la mano sul mio ventre e lo accarezzò a lungo, poi con un gesto che mi meravigliò del tutto, si mise in ginocchio e vi poggiò la guancia, avvinghiandomi la vita con le mani.
Chiuse gli occhi e rimase con l'orecchio a un panno da suo figlio. Sperava forse di udire qualcosa, magari una vocina, magari un sospiro, ma nulla di tutto ciò si concretizzò.
Gli infilai le dita tra i ricci e cominciai ad accarezzargli la testa, poi lui si staccò e baciò il punto in cui doveva trovarsi quel bocciolo così piccolo e così protetto allo stesso tempo.

Rimanemmo del tempo così, forse dieci minuti, forse un'ora e qualsiasi fu la durata di quel lasso non la considerammo sufficiente quando giunse il momento di dirci addio.
L'imbrunire era arrivato e così anche le incombenze, sua moglie lo attendeva per la cena e io allo stesso modo venivo attesa nelle cucine per servirla. Prima di salutarci del tutto ci riservammo ancora delle malinconiche e segrete effusioni, poi mi trasse a sé, mi accarezzò il viso e mi baciò, con l'altra mano mi frugò tra i capelli e mi baciò nuovamente.
Gli respirai vicino per dissetarmi ancora una volta di quella essenza proibita, poi lo guardai e scrutai tutta la terra e il cielo riflessi nei suoi occhi.
Dal fondo di me un bambino triste ci guardava. Per quella vita che avrebbe arso nelle sue vene avrebbero dovuto legarsi le nostre vite; al contrario ci lasciammo con una promessa: che non saremmo più tornati. I miei occhi non si sarebbero più incatenati ai suoi, ma ovunque sarei andata avrei portato con me il suo nome.
Ci salutammo. Mi disse di non affaticarmi troppo e di prendermi cura di quella nuova vita. Io gli risposi di non dimenticarsi di me.
Me ne andai, triste e svuotata di ogni cosa bella.
Me ne andai e presi la mia strada ma di preciso non sapevo dove avrebbe portato.
Avrebbe taciuto e così anche io.

La domenica era sopraggiunta e Marfa era sveglia prima di me da un pezzo, troppo emozionata per la cerimonia e per il banchetto che ne sarebbe derivato, tanto che aveva stirato il mio abito senza che io glielo avessi prima chiesto.
Venni svegliata di soprassalto dalla voce squillante di Lydia che fece capolino nella mia stanza intorno alle cinque e trenta del mattino, quando il mio matrimonio era ancora parte di uno dei miei tanti incubi.
«Dov'è la mia sposa preferita?»
La loro esaltazione cozzava con il mio stato d'animo cupo. Quel giorno era arrivato e sarebbe dovuto essere il giorno più bello della mia vita se non fosse stato che ciò che desideravo maggiormente era rimettermi a dormire e aspettare che esso volgesse al termine.
Misi sotto controllo le mie emozioni e cominciai a recitare la parte della sposa vergine, d'altronde non doveva essere poi così difficile rivestire i panni di qualcun altro. Lady Howard era stata utile anche a questo.

L'abito era appeso alla porta socchiusa mentre il velo, candido e stirato anche esso, era disteso sul letto di Marfa. Era tutto pronto: le scarpe in raso color perla, la cinta in seta verde che avrebbe dato colore a quella sposa completamente in bianco, il bouquet di fiori che mia madre aveva appositamente confezionato.
Lydia mi informò che sia mia madre che Daisy erano arrivate a palazzo e che in quel momento si trovavano a casa di Ethelwulf per preparare il talamo nuziale che, a fine giornata, avrebbe accolto i due sposi esausti. La tradizione d'altronde voleva questo.

«Alzati, lavati e accomodati proprio su questa sedia!» esclamò Marfa, che si era voluta assumere la responsabilità di confezionare la sposa più bella che palazzo Livingstone avesse mai visto.
Dal canto suo Lydia era invece troppo impegnata a riscaldare un ferro conico della lunghezza di una ventina di centimetri su di un braciere ardente.
Una volta pulita e indossata la biancheria, mi sedetti sullo sgabello come Marfa mi aveva ordinato e lasciai che si divertisse come meglio voleva.
«Reggimi questo specchio.» lo afferrai e me lo portai di fronte al viso.
Ivi trovai riflessa una donna dalla pelle luminosa e dallo sguardo assente. Ispezionai quella fanciulla che stava immobile, dal viso seviziato e stanco.
No, non era il mio volto ad avere ferite o cicatrici ma era la mia anima a sanguinare, ferita da tanti vetri e lame appuntite. I miei pensieri erano tormentati, il mio animo in tempesta. Tutti i tentativi di placarlo inutili.
La sua opera di restauro cominciò. Sperai in cuor mio che esagerasse con il trucco e l'acconciatura così da creare uno strato anestetizzante per quell'umore gelido e invernale.
Cosparse il mio viso di cipria e poi aggiunse della polvere rosa per dare colorito alle guance e della pasta di mandorle mischiata al succo di rape rosse per stenderla successivamente sulle labbra. Fu poi il turno dei capelli e, ciocca dopo ciocca, ognuna venne arrotolata attorno al ferro per trasformarsi in un morbido boccolo.

All'esterno, il richiamo del vento e il nitrito acuto di un cavallo a me familiare.

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