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Capitolo 43

Non conoscevo affatto il latino e per di più non si avvicinava minimamente alla mia lingua. Quella parola, così melodiosa e oscura al contempo, mi elettrizzò a tal punto che dovetti chiedere delucidazioni a qualcuno sul suo significato. Di certo non avrei avuto la sfrontatezza di presentarmi direttamente al mittente e domandargli il favore di scrivere in inglese la volta successiva piuttosto che in una lingua morta - battuta che quasi sicuramente lo avrebbe divertito - per questo motivo non ci pensai due volte a chiedere a padre Baruffaldi, l'unico che avrebbe saputo rispondermi senza farmi troppe domande.

Quando mi recai in sagrestia non mi venne subito in mente che il sacerdote a quell'ora fosse nel pieno della celebrazione eucaristica e che per tale ragione avrei dovuto rimandare a più tardi il mio quesito. Decisi comunque di rimanere e di prendere parte alla messa, azione che facevo molto di rado senza saperne onestamente il motivo.
Ero convinta infatti che Baruffaldi oltre a essere un uomo di Chiesa era anche un uomo molto colto e profondo, che era solito impartire consigli o suggerimenti di vita che avrebbero scaldato il cuore anche della persona più estranea a Dio.

Presi posto nelle ultime file.
Il sacerdote, dall'alto del suo altare cominciò l'omelia, visibilmente infervorato dalle parole che stava per proferire.
«Cari fratelli, nel passo che abbiamo letto in questa giornata, ripercorriamo il senso del perdono. Gesù dice «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi» e dice ancora «Perdonate e vi sarà perdonato». Ora dunque, quale sforzo maggiore chiede il Padre nostro se non quello di perdonare un torto, sforzo più sofferto del digiuno, maggiore dell'arsura?» il prete diede una rapida occhiata agli estremi della cappella e comprovò che i fedeli erano completamente stregati dalle sue parole.
Proseguì «Comprendo, figli miei, che l'insegnamento di porgere sempre l'altra guancia sia complicato da mettere in pratica ed estremamente inumano, ma solo il sapersi rendere piccoli e cancellare il rancore e la rabbia dal nostro cuore ci rende quanto più simili al Cristo.»
Baruffaldi proseguì ancora per qualche altro minuto, ricamando sempre più insegnamenti attorno al concetto di indulgenza, ricordando a tutti che perdonare significa amare qualcuno nonostante la sua colpa, infine abbandonò la sua postazione e continuò la messa.
Al termine della celebrazione, una folla di fedeli lasciò la cappella in silenzio come era convenevole farsi, così che io avanzai diretta verso il sacrario.
Alla mia domanda, posta con tono più anonimo possibile, Baruffaldi rispose dicendomi che quella parola significava semplicemente «Con te».
Il cuore mi saltò in gola e un incessante tremolio alle mani prese a farmele vibrare forte. Visibilmente emozionata, mi congedai da lui.
Con me nel pensiero?
Con me nel giorno?
Con me nella notte?
Avrei aggiunto anche... con me nel peccato?
Turbata, scrollai la testa a quel pensiero. Non volevo dare spazio a delle immagini così buie e poco coerenti con lo stato d'animo che mi abitava dalla notte passata insieme.

L'indomani mi riversai da Margot's di buon'ora, avrei infatti voluto ritagliarmi il tempo di cui avevo bisogno per scegliere l'abito più appropriato all'occasione. Riflettei che non avevo mai preso parte a un matrimonio in passato e il solo pensiero di poter acquistare un vestito appositamente per l'evenienza non mi faceva stare più nella pelle.
Ero estasiata all'idea che ero in grado finalmente di vantare un briciolo di indipendenza tale da poter decidere come impiegare i miei soldi e, quella volta, li avrei spesi in un bel vestito.
Avevo bisogno di sentirmi bella, ogni donna avrebbe dovuto.
Molte cose erano cambiate da un anno a quella parte. Mi vedevo più matura, meno incompleta e più femminile.
Entrare in quella boutique ebbe come inevitabile conseguenza quella di trascorrere più del tempo preventivato tra stoffe e tessuti di ogni genere. Le cose si affrettarono dopo che individuai il mio vestito, di cui francamente mi innamorai a prima vista.
Era un abito stretto in vita per via del bustino incorporato, con un'ampia gonna e maniche a tre quarti. Il tessuto era un broccato con decorazioni floreali rosa e blu che si alternavano a tante fronde verdi. Sul davanti si stagliava un'apertura foderata da della seta bianca e impreziosita con pietre che riprendevano i colori dei fiori ricamati. Infine, un lungo e stretto strascico partiva da sotto la nuca per oltrepassare il bordo posteriore della gonna.
Quel vestito mi costò la metà dello stipendio del mese precedente, ma ne valse completamente la pena.
Decisa a non voler spendere ulteriori soldi, optai per i miei preziosi orecchini di perle, tralasciando a un altro giorno l'acquisto di una collana.

Nel corso della settimana l'intima relazione con Carlyle continuò a manifestarsi, fatta di sguardi furtivi, di occhiate momentanee, di leggeri sospiri e di inaspettati incontri tra i corridoi. Era quello il massimo che potevamo concederci, impossibilitati a pretendere altro.

Il venerdì arrivò in un battito di ciglia. Avevo preparato la borsa per quel piccolo viaggio, la domenica sarei infatti tornata a palazzo.
Nei giorni precedenti avevo già avvisato Ethelwulf che quel fine settimana non sarei stata a corte. Sapevo già che se mia sorella avesse saputo in anticipo delle mie nozze non avrebbe esitato un secondo a invitare anche il suo futuro cognato, per tale ragione lo esortai ad accompagnarmi così da presentargli la sua futura famiglia.
Mi meravigliai con me stessa di quell'invito. Non avrei potuto evitare quell'uomo - non se lo meritava - e sicuramente non avevo intenzione di ingenerare un fastidioso chiacchiericcio tra la servitù sul fatto che sfuggissi al mio quasi-marito, pettegolezzo che sarebbe potuto arrivare direttamente alle sue orecchie.
In maniera discordante rispetto a quelle che erano le mie vere aspettative, il mio futuro marito accolse con imbarazzo quell'invito ma lo rifiutò con tenerezza, asserendo che sarebbe venuto volentieri ma solo se Daisy ne fosse stata al corrente sin da subito. Voleva evitare infatti sorprese, ancorché sapeva che sarebbe stato ben accolto da chiunque fosse stato lì presente.
Prima di congedarmi da lui mi accertai che non ci avesse ripensato nel frattempo, poi mi salutò con un bacio sulla guancia, grattandomi con la sua barba ispida.
Non mi avrebbe baciato sulla bocca fino al giorno del matrimonio, in segno di rispetto. Una leggera morsa al petto mi strinse.

Mancava veramente poco all'arrivo a casa mia. Affacciai la testa e constatai che era rimasto tutto come prima, l'unica cosa che notavo di differente erano i colori più caldi e freschi che dipingevano quel piccolo quadretto pittoresco, lontano dalla città e dalla frenesia di corte. Quando ero andata via qualche mese prima infatti, mi ero lasciata alle spalle una triste immagine scura, incupita maggiormente dal mio stato d'animo in tempesta.
Scesi dalla carrozza, che per l'occasione avevo deciso di chiedere in prestito e di pagarne la tratta, poi mi congedai ricordando al cocchiere di esser nuovamente lì la domenica per ora di pranzo.
La mia vecchia dimora aveva preso nuova vita. Ero deliziata da questo.

Non c'era più l'ombra delle fastidiose piante rampicanti che si contorcevano tra le pietre delle mura, il portone stesso era stato sostituito con uno più massiccio e a prova di scasso e il giardino risplendeva ora di tante aiuole dai fiori più variopinti.
Un matrimonio comportava anche questo.
Quando entrai vi trovai mia sorella indaffarata tra i preparativi. Ebbi i brividi dall'emozione.
Non appena mi vide allargò la bocca in un sorriso sincero, si fece spazio tra mia madre e la signora Bell che erano lì indaffarate nella preparazione di qualche dolce da offrire la mattina seguente e poi mi saltò addosso di peso.
Si staccò dall'abbraccio, poi richiamò l'attenzione di nostra madre con tono civettuolo.
«Mamma è venuta anche la nostra futura sposa!» mi guardò di nuovo e mi pizzicò la guancia «la signorina Gleannes, ma ancora per poco!» mi strizzò l'occhio e poi mi baciò dolcemente, per darmi il benvenuto.
Salutai calorosamente mia madre e in maniera più composta la signora Bell, che non si risparmiò dal farmi le dovute congratulazioni.
Chiesi permesso per salire in camera, permesso che mi fu accordato. Gettai finalmente la pesante borsa sul letto e cominciai a disfarla. Mi sentii immediatamente più leggera. Mi preoccupai di appendere nel modo più consono l'abito, dunque estrassi gli orecchini e infine tutto ciò che vi era rimasto.

Sgattaiolando dalla porta, Daisy mi colse di sorpresa da dietro, pizzicandomi i fianchi e facendomi sobbalzare dallo spavento.
Feci una smorfia e poggiai le mani sul bacino. Le era pur sempre rimasto il suo estro da bambina giocosa.
Si sedette comoda sul letto, muovendo i piedi in avanti e indietro.
«Sei emozionata per domani?»
Domanda retorica, ma di rito.
Si sdraiò, allargando le braccia ed espirando rumorosamente.
«Emozionata? Sono in estasi!»
Ridacchiai, la sua trepidazione era palpabile.
Daisy si alzò di scatto, puntandomi con il suo sguardo penetrante ma fanciullesco.
«Raccontami qualcosa del signor Jhoanart! Tra poco ti sposerai anche tu e ancora non so nulla sul mio futuro cognato. Potevi portarlo con te almeno!» disse imbronciata, incrociando le braccia al petto.
Alzai un angolo della bocca «Ethelwulf. Questo è il suo nome. Lavora a palazzo, è lì che l'ho conosciuto. È un taglial...» non mi fu concesso di terminare la frase che immediatamente avanzò la domanda successiva.
«Lo ami allora?» chiese impaziente, come se le stessi raccontando una favola e volesse subito sapere il finale.
Quella domanda mi destabilizzò e mi provocò un improvviso giramento di testa.
«Se lo amo?» ripresi fiato.
«Questo sembra dalla lettera che mi hai inviato. Sei cotta Anthea!» ripresentò di nuovo la sua risata argentea.
Volevo a Ethelwulf un gran bene, un affetto profondo e puro che mai avevo provato verso qualcun altro. Ma amarlo, non era questo ciò che provavo.
Mi sentii alle strette, per questo cambiai discorso. Avevo bisogno di una via di fuga.
«Sei felice di sposarti finalmente dopo aver dovuto procrastinare per tutti questi mesi?» auspicai di aver distolto il suo interessamento.
«Felice? Ero diventata impaziente e non nego che lo fosse anche lui, me lo ha proprio confessato. Ha aggiunto che nulla gli sarebbe importato saldare i debiti con i suoi creditori e che non ci avrebbe pensato due volte a rimandare quegli obblighi. La sua priorità è farmi sua moglie, poi può venire tutto il resto.»
Strabuzzai gli occhi «Creditori avete detto?»
Daisy sbuffò, muovendo freneticamente gli occhi. Era evidente che di quella faccenda sapeva molto poco.
«Beh sì, Thomas ha questi soliti brutti ceffi alle calcagna. Ma cosa vogliono, non sanno aspettare un po' di tempo in più? Lo sanno che sta per sposarsi!» aggiunse rabbiosa.
Non credevo che Thomas Forks se la stesse passando male con gli affari, disponendo di una fonderia che aveva garantito in passato una vita agiata a tutti i membri della sua famiglia, di generazione in generazione.

Presto calò la sera. La tradizione voleva che lo sposo non vedesse la sposa il giorno prima del matrimonio e per tale ragione la futura festeggiata era rimasta chiusa in casa, approfittando del tempo che aveva a disposizione per portare a termine le ultime cose, compito per cui fui felice di assisterla.
Una volta coricate, rimanemmo del tempo in silenzio, assaporando quei momenti che appartenevano ancora in qualche modo alla nostra infanzia.
La notte divenne pece ma ancora nessuna delle due era riuscita a prendere sonno. La casa era piombata nel silenzio da ore.
«Anthea!» mormorò Daisy, con voce flebile.
«Dimmi!»
«Quando avrò figli verrete a trovarmi? Sarete una zia presente?»
Sentii gli occhi avvampare e pizzicarmi.
«Che domande sciocche. Certo che sì!» risposi laconica.
Non aspettò di udire la mia replica, che già dormiva.
Mi voltai dall'altra parte, attendendo che il sonno facesse prigioniera anche me.
Il giorno dopo mi sarebbe aspettata una giornata molto lunga.

Il matrimonio si sarebbe celebrato due ore dopo ma Daisy era quasi pronta e uno stuolo di donne le ronzava attorno per assicurarsi che non fosse fuggito nulla alla loro attenzione. Uno sposalizio, in una realtà piccola come quella, voleva infatti che prendessero parte ai preparativi anche tutte le vicine e se desiderose, anche le altre donne del borgo.
Quando la vidi mi avvamparono le guance. Era bellissima, questo era indubitabile.
Aveva optato per un abito bianco dritto, senza troppi fronzoli, che le scendeva sinuoso sul corpo e che si apriva in una gonna a ruota sui piedi.
Il corpetto rimaneva morbido, abbellito da tanti ricami fatti all'uncinetto e ripresi anche sui bordi delle lunghe maniche. Infine un piccolo nastro color ocra le avvolgeva la vita.
«Non dimenticarti del velo!»
Glielo fissai con due pinze sul raccolto e poi glielo spostai sul volto.
I miei occhi si inumidirono ma non diedi a vederlo. Non potevo credere che il giorno prima giocavamo con le bambole e che nel giro di poco una di noi sarebbe diventata la signora Forks.
Daisy agguantò il suo mazzo di fiori - rigorosamente di lavanda - e poi uscimmo di casa.

Davanti l'uscio della porta della chiesa mia sorella cominciò a tremare. La presi per il braccio ancora più forte, ma non sapeva che io ero più agitata di lei.
«Non ci riesco, sono troppo nervosa.» mormorò impaurita.
Le sorrisi, increspando il mento per la commozione, poi le feci forza a procedere.
Quando entrammo, tutti gli invitati si alzarono facendo a gara a chi vedesse prima la sposa. L'organo intonò la marcia nuziale.
I muscoli di Daisy, prima contratti, si rilassarono poco a poco.
Si bloccò all'improvviso pietrificata.
«Cosa succede?» le sussurrai all'orecchio.
«Cosa vogliono quei due?»
Era visibilmente impaurita.
«Sono gli strozzini di Thomas! Perché sono qui?» aggiunse.
Lessi il panico nei suoi occhi.
«Non sono neanche tutti, ne manca uno! La cosa mi inquieta» le sue mani tremarono così forte che il mazzo di fiori per poco non le cadde a terra.
«Potrebbe essere una coincidenza, non allarmatevi!» dopodiché la accompagnai davanti l'altare, dove Padre John la stava attendendo.

In chiesa era presente chiunque: l'anziana vedova Forks con gli altri suoi figli, mia madre e alcuni amici di famiglia. Erano presenti addirittura i Patel e i Connor.
L'organo intonò prima uno, poi due, e infine ben tre marce nuziali. Di Thomas Forks neanche l'ombra. Di solito era la sposa a farsi attendere, non lo sposo.
La preoccupazione divenne palpabile quando dopo un'ora di attesa, dell'uomo non si era vista neanche l'ombra.
Daisy mi lanciava occhiate allarmate, con gli occhi rigonfi di lacrime pronte a sgorgare. Cercai di infonderle sicurezza da lontano ma anche io mi sentivo in realtà molto nervosa. Che cosa era successo? Perché non arrivava?
Passò un'altra ora di attesa. James Forks decise da ultimo di andare alla ricerca del fratello. Mi sentivo sottosopra e nel mentre graffiai tutto il banco della chiesa con le unghie.
Dopo mezz'ora fu di ritorno.
Si fermò all'ingresso, con lo sguardo di chi aveva appena visto un mostro. Alzò il capo. Era trafelato. Aveva gli occhi sbarrati, il fiatone e la pelle pallida.
«Lo hanno ucciso!»

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