Capitolo 4 - seconda parte
Senza quasi rendermene conto eravamo già giunti a Sommerseth Town. Era qualche mese che non scendevo in città ma il suo aspetto non era cambiato. Sembrava sempre tutto così estraneo allo scorrere del tempo e che le persone che ivi abitavano erano sempre le stesse da quando era stato poggiato il primo mattone. Non sarebbero mai cambiate. La città si sopraelevava su di una collina ed era circondata da alte mura in pietra che nascondevano le abitazioni al suo interno. Le mura seguivano un percorso esagonale e a ogni vertice c'era una torre che presidiava il territorio sottostante. Mio padre mi disse una volta che al loro interno le torri erano vuote e che avevano solo una scala a chiocciola che permetteva di salire in alto. Raggiunta la sommità c'era uno spiazzo circolare dove si posizionavano le sentinelle reali a guardia di notte e di giorno. Ogni torre infatti aveva le proprie vedette che dovevano contribuire alla salvaguardia della città, sebbene erano anni che non si vedeva l'ombra di nemici. Di tutto questo mio padre ne era a conoscenza perché una volta un amico di vecchia data lo aveva condotto nei cunicoli nascosti della corte.
Ci dirigemmo verso l'ingresso alla città. Era un alto portone in legno massiccio a forma di arco, saldato tramite cardini di ferro alle colonne di pietra adiacenti. Le maniglie erano talmente grandi che le mie mani sarebbero entrate forse dieci volte. Mi chiesi chi sarebbe stato in grado di aprire un tale portone così alto e massiccio. Non appena la sentinella dall'alto vide il nostro calesse suonò un fischio di tromba ad avvertire della carrozza in arrivo. D'un tratto, con un rumore stridulo di ferro che evidentemente non veniva oleato da chissà quanto tempo, vidi le due porte aprirsi, lasciando scorgere l'interno della città. Capii subito che al portone erano attaccati due buoi a lato per aprirlo, perché forse di uomini ce ne sarebbero voluti una dozzina in totale. Feci cenno di ringraziamento alla sentinella per aver annunciato il nostro arrivo ma notai, contrariamente a quanto pensavo, che non stava dando attenzione a me ma che era tornato al suo lavoro.
Una volta entrate notai scene di vita quotidiana a cui io non ero abituata, abitando lontano dal centro cittadino, ma a cui facevo sempre caso ogni volta che per qualche motivo mi recavo a Sommerseth Town. Le strade della cittadina erano molto strette e a malapena riuscivano a passarci due cavalli insieme, noi però avendo un calesse abbastanza piccolo, eravamo agevolate nel tragitto. Le case di Sommerseth Town erano tutte molto basse, fatte di pietra e molto ravvicinate tra di loro, tanto che le donne del paese avevano attaccato delle funicelle per stendere i panni tra la finestra di una casa e quella di un'altra. Se in quel momento mi fossi alzata in piedi sul calesse sarei stata probabilmente in grado di spiare all'interno delle finestre di ciascuna abitazione per quanto erano state costruite ad altezza uomo.
Per le stradine della città si sentiva solo lo scalpitare degli zoccoli del nostro cavallo, fino a quando non giungemmo in una piazzetta con in mezzo una fontana circolare in pietra bianca. La fontana era il centro di quello che doveva essere lo stemma della casata reale, realizzato in terra con sampietrini di colore più scuro rispetto a quelli utilizzati per il resto della piazza. Lo stemma era una un bocciolo di rosa ricavato su una croce cristiana, il gambo della rosa si attorcigliava nella parte bassa della croce e il bocciolo si posizionava sul punto in cui i due bracci si univano. La croce era circondata da un anello da cui partivano tanti raggi.
«Cara, siamo arrivate!»
«Dove, signora Bell?» risposi io un po' dubbiosa. Non le avevo detto a che negozio avrei voluto dirigermi, del resto non lo avevo programmato neanche io dal momento che ne conoscevo ben pochi. Avrei voluto approfittarne della mattinata per farmi una camminata per la città e invece no, in quel momento la mia accompagnatrice aveva scelto per me e aveva mandato in fumo i miei piani. Certo, dopo il favore che mi aveva gentilmente concesso, mi sarei sentita in imbarazzo a non assecondarla.
«Da Margot's! È il paradiso per chi cerca un bel vestito!» rispose lei tutta entusiasta indicandolo con il dito.
Scesi dal calesse e iniziai a cercare il negozio da lei indicatomi. Dopo aver puntato un'insegna che sembrava riportare il nome Margot's strinsi gli occhi per mettere più a fuoco la vista e mi accertai che sì, era proprio Margot's.
Attesi che la signora Bell scendesse anche lei dal calesse e ci dirigemmo verso il negozio insieme. Quando finalmente entrammo capii che non aveva esagerato definendolo il paradiso. Era un negozio molto grande dove mi trovai circondata da vestiti di ogni genere e di ogni calibro. Era strutturato a corsie e in ognuna si aveva alla destra uno scaffale con gioie e lustrini, alla sinistra un appendiabiti con le vesti suddivise per taglia e tessuto. «Sbizzarritevi cara, ci vediamo qui fuori quando avete fatto.»
Non sapendo da che parte iniziare, entrai nella prima corsia che si presentava sulla mia destra. Passai la mano sugli abiti come facevo da bambina con le foglie dei cespugli, per toccarne la consistenza e gustarne il tessuto. Non ero abituata a quello sfarzo, del resto non ero in quel negozio per cercare un abito da sera ma per trovare un abito adatto all'occasione che si sarebbe presentata il giorno dopo.
Mi soffermai su di un abito in velluto nero, lungo visibilmente fino alle caviglie, con la gonna a campana e con un corpetto alto una decina di centimetri che avrebbe coperto a malapena il mio ombelico. Mi piacque il nastrino posto a chiusura del corpetto sulla schiena, anche esso di velluto nero. Molto di classe, pensai. Lo presi con delicatezza per paura di graffiarlo con le unghie, lo poggiai sul mio braccio destro e lo accarezzai con il palmo della mano per vedere se il semplice tocco facesse spostare i peli in senso contrario, evidenziando un colore più chiaro. Per fortuna il pelo era abbastanza corto da non ingenerare quel piccolo difetto. Accarezzai il velluto ancora una volta per sentirne la morbidezza e mi convinsi che quel vestito sarebbe stato la scelta migliore per me. Non era né troppo anonimo né troppo eccessivo per presentarmi a Corte, supposi del resto che una volta assunta sarebbero stati gli amministratori reali a fornirmi la divisa. Avevo scelto il vestito ma non avevo ancora scelto una camiciola da abbinarci sotto. Continuai a osservare con attenzione i vestiti esposti su quella corsia. Sarebbe stato perfetto trovare una camicia bianca, così da rimpiazzare quella che avevo a casa e che ormai mi andava corta. Girandomi verso lo scaffale ne trovai un paio piegate. Ne presi una delle due, pensando che il modello fosse lo stesso. Era una camicia molto graziosa, larga sulle maniche e con i bordi arricciati, il collo anche esso era arricciato ma con gli estremi regolabili da due fettucce che cadevano sul davanti. Non aveva bottoni quindi l'avrei infilata dal capo. Anche il tessuto fu di mio gradimento. Era un lino di cui la qualità era palpabile al tatto. Nell'andare a guardare la taglia mi accorsi che era una taglia più grande. Fa niente pensai, avrei evitato in futuro di trovarmi alla ricerca di un'ulteriore camicia.
Soddisfatta delle mie scelte, piegai in due parti la camicia, la poggiai sopra il vestito di velluto e mi diressi dalla proprietaria del negozio per pagare ciò che avevo scelto.
D'un tratto sbattei la mia testa contro qualcosa di duro. A primo impatto mi chiesi su cosa avessi potuto sbattere dal momento in cui ero certa che lo scaffale si trovasse sulla mia destra.
Alzai lo sguardo e lo vidi.
Davanti a me si alzava imponente un uomo che rimasi a fissare per qualche secondo, prima di ricompormi. Avrà avuto circa una decina di anni in più a me. Era alto, capelli mossi e scuri, occhi così chiari da sembrar quasi trasparenti. Dal vestiario che aveva addosso capii che non era un uomo qualsiasi. Indossava una giubba ocra, decorata con disegni floreali sul lato dei bottoni, e beh, anche un ingenuo si sarebbe accorto che quelli erano bottoni d'avorio. Al di sotto della giubba indossava una camicia bianca stretta sulle maniche e increspata sul collo e dei pantaloni, a metà gamba, dello stesso colore della giubba.
Mi fissava e io non sapevo come comportarmi, talmente ero affascinata da quell'uomo. Sentivo il suo sguardo posato su di me, uno sguardo da cui non sapevo come divincolarmi, che mi creava disagio ma che al contempo mi faceva sentire intrecciata a quello sconosciuto.
«Le chiedo scusa signore, non era mia intenzione.» dissi con un fil di voce abbassando gli occhi verso il basso. Sentii le mie guance avvampare e la salivazione diventare più insistente. Mai mi era capitato di provare una sensazione simile.
«Non vi preoccupate.» rispose lui con voce profonda e calda.
Mi scostai un minimo da quella figura che sarà stata alta il doppio di me. Mi sentivo così piccola rispetto a quell'uomo. Lo guardai a stento e gli feci un sorriso per congedarmi.
Recuperai il respiro affannoso e mi diressi al bancone con passo tremante per concludere il mio acquisto. Nel mio percorso decisi di non voltarmi per guardarlo un'ultima volta, con la paura di venir scoperta.
Le miei mani non avevano smesso un istante di vibrare.
Uscii dal negozio ancora frastornata e con il cuore che pompava nello sterno. Ero agitata e non capivo perché.
«Vi sentite bene, Anthea? Mi sembrate pallida!» domandò la signora Bell quando mi vide.
«Non proprio. Posso chiedervi di riportarmi a casa se non vi dispiace? Ho un urgente bisogno di stendermi!»
Nel guardare il soffitto mi ritrovai a pensare a quell'uomo per tutto il resto della giornata, ai suoi occhi e a come mi fossi sentita vulnerabile dinanzi a lui.
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