Capitolo 36 - prima parte
Maximilian mi stava aspettando nel vestibolo e io nel raggiungerlo cercai di riportare alla mente l'immagine di qualche persona conosciuta nell'infanzia per capire se quell'uomo lo avessi mai visto veramente.
Al termine delle mie congetture, ne derivai la consapevolezza che dovesse trattarsi assolutamente di uno sconosciuto e che solo l'averlo davanti avrebbe chiarito che cosa avrebbe potuto volere da me.
Voltai l'angolo del corridoio con lentezza per permettermi di studiarlo un po' a distanza.
Si presentava davanti a me, in un'estremità dell'atrio, un uomo alto voltato di spalle, con una coppola consumata sul capo dalla quale uscivano in maniera confusionaria delle ciocche di capelli brizzolate e con indosso un completo logoro in panno marrone.
Parve non accorgersi all'inizio del mio arrivo e come avrebbe potuto del resto, non mi aveva mai vista e vicino a lui c'era un via vai di domestiche che avrebbero potuto facilmente confondersi con me.
«Siete voi Maximilian?» debuttai.
Questi si girò e rispose in senso affermativo.
Guardandolo bene in volto mi resi conto che si trattava di un uomo avanti con l'età, forse sulla quarantina, e non di un giovinotto come avevo creduto all'inizio. Maximilian dava l'idea di essere la persona che aveva vissuto innumerevoli peripezie e vicissitudini le quali, a loro volta, si erano impresse sulla sua pelle in tante profonde e marcate grinze.
Si tolse il cappello e raccolse i capelli in un codino per evitare che gli finissero in faccia come già minacciavano di fare.
«È un piacere conoscervi Maximilian.»
«Il piacere è tutto mio!» rispose garbatamente, ammorbidendo i suoi occhi neri in una piacevole increspatura.
«Spero di non sbagliarmi ma credo di non avervi mai visto.»
Maximilian delineò un sorriso «No, certo che non mi conoscete ma ho percorso terre e mari per essere qui e darvi qualcosa che vi appartiene.»
Mi consegnò allora un pacchetto di carta, tenuto insieme da un cordoncino.
A una delle estremità c'era scritto il mio nome e quando lo lessi mi parve addirittura di riconoscere la scrittura, una scrittura che aveva imparato a individuare negli anni, ma poi mi convinsi che si trattasse solo di un abbaglio e che quell'uomo con la mia famiglia non poteva c'entrarci nulla.
Lo aprii e dentro vi trovai una catenina dorata con un ciondolo piatto a forma di margherita, dai quali petali partivano tanti fili, anche quelli dorati, che si attorcigliavano tra di essi e che componevano nell'insieme la cornice all'interno della quale il fiore era custodito.
Rivolsi uno sguardo confuso a Maximilian «Mi dispiace, ma non riesco a capire...»
«È da parte di vostro padre.»
Quelle parole ebbero l'effetto di riscavare in me una voragine aperta di cui ero riuscita a ricucire solo le estremità affinché quel carico interiore non prendesse il sopravvento ogni giorno, ogni momento.
Cercai con tutte le forze di mantenere fermi i miei nervi e non permisi loro di prendere il controllo, tuttavia quell'esternazione rimbombò dentro di me al ritmo e con la stessa violenza di un campanile che annuncia un funerale.
Quell'uomo non poteva mentire. Lo rivoltai su se stesso almeno una decina di volte e constatai che quel pacchetto provenisse veramente da mio padre poiché quella scrittura, che all'inizio mi era sembrata così nota, si confermò essere, a tutti gli effetti, di derivazione familiare.
«Chi siete voi?»
Ero di fatto degradata. L'emotività aveva preso a impadronirsi del mio raziocinio e a lasciare intendere al mio interlocutore quanto quelle parole mi avessero turbato.
Cominciò «Ho condiviso con vostro padre alcuni giorni a Rochefort. Entrambi abbiamo vissuto la guerra e ho avuto il privilegio, per quanto mi riguarda, di esser stato l'ultimo a vedere in vita Hector quale persona genuina era.»
Mi asciugai le lacrime con il grembiule, trattenendo sempre salda quella catenina tra le dita. Maximilian mi poggiò una mano sulla spalla per darmi conforto e io, di conseguenza, poggia la mia sulla sua. Come aveva detto lui, era l'ultima persona ad aver visto mio padre in vita e anche l'ultima ad averne udito il suono della voce.
Cercai l'immagine di mio padre impressa nei suoi occhi. Li scrutai, li osservai a lungo ma non vi ricavai nulla se non altre lacrime.
Maximilian mi raccontò gli ultimi giorni della vita di mio padre, di come fosse diventato suo buon ascoltatore e di come anche lui, a sua volta, lo era stato per le preoccupazioni che lo abbrancavano ogni giorno. Mi disse che aveva acquistato un cimelio simile anche per mia sorella e che, in quel caso, si era recato lui stesso in persona a consegnarglielo. Gli risposi che avrebbe potuto tranquillamente lasciare anche la mia gioia insieme a quella di mia sorella e che si sarebbe potuto risparmiare l'incombenza di dover giungere a palazzo.
Mi controbatté che per lui non fu affatto un problema e che avrebbe gradito consegnarmelo di persona.
Mi raccontò che mio padre gli consegnò i due fagottini il giorno stesso della sua dipartita, che si era recato presso la sua tenda di nascosto dal comandante Ferguson e che lo aveva salutato chiedendogli di promettere di consegnare quei due regali alle sue due figlie a Sommerseth, nel caso in cui non avesse avuto l'opportunità di farlo lui.
«Vostro padre è partito quel giorno con la consapevolezza che non sarebbe tornato, ecco perché ha deciso di affidarmi questo incarico.» fu ciò che mi confidò. Il passato era quello che conoscevamo entrambe e non seppi se quella considerazione mi fece male o mi risollevò il morale un minimo: la sua morte non doveva essere giunta così all'improvviso e magari si era già preparato al peggio per accoglierla nel migliore dei modi.
Passai al setaccio tutte le informazioni che fuoriuscivano da quell'uomo, a partire da dove avesse trovato sepoltura il corpo esamine di mio padre.
«Questo non ve lo so dire con certezza poiché non ci è stato riconsegnato all'accampamento, ma la legge della guerra, o meglio, la legge che conviene più all'uomo, vuole che le salme dei nemici vengano seppellite in una fossa insieme a tutte le altre o in alternativa che vengano accatastate e poi arse. Sono immagini che comunque non volevo condividervi.»
Boccheggiai, come un pesce fuor d'acqua «Bruciato? È questo il destino che meritava?» uno strido disperato fuoriuscì incontrollato dalla mia bocca tanto che anche le due domestiche che mi passarono vicino in quel momento ne furono spaventate.
«Non angustiatevi, sono sicuro che non è stato questo il destino di Hector.»
Non sapevo se lo avesse detto per darmi sollievo o perché ne aveva una quasi certezza, ma decisi di credergli e di non affidarmi allo scenario peggiore per questioni di sopravvivenza.
Continuammo a parlare per svariato tempo, tenendo sempre mio padre come centro della nostra conversazione. Cercai di farglielo conoscere un po' meglio, confidandogli i bei ricordi che avevo collezionato durante la mia infanzia e quelli più nitidi della giovinezza, lui al contrario espresse il suo dispiacere nel non aver goduto del tempo sufficiente insieme a lui tanto da non poterlo chiamare neanche amico.
«Cosa farete adesso, Maximilian?»
«Sono da poco tornato da Rochefort sebbene non mi sarebbe dispiaciuto rimanervi più tempo. Sapete, non avendo famiglia, non troverò qualcuno a casa ad attendermi.»
Avvertii un senso di malessere e dispiacere trasudare da quell'uomo grazie al quale, dopo mesi, avevo avuto l'impressione di avere di nuovo mio padre vicino.
«Dove siete diretto di preciso adesso?» chiesi.
«A Norwich. Ho intenzione di alloggiare in un ostello in città per questa notte e poi partire domani mattina di buon'ora.»
«È un viaggio lungo!» strinsi più forte la catenina tra le mani.
«Ebbene sì, ci vorranno almeno due giorni di cammino.»
«Posso offrirvi una tazza di tè bollente allora?»
Fece cenno di no con le mani «Vi sembreranno strane queste parole dette da un inglese, ma non amo particolarmente il tè.»
Gli strizzai l'occhio «Allora del caffè? Non aspettatevi però quello italiano... qui ancora serviamo una brodaglia dal colore scuro e dal gusto annacquato.»
«Per il caffè sono disposto a rimanere anche più del dovuto.» rispose ironicamente.
Gli feci strada verso il corridoio, per portarlo direttamente da Violet nelle cucine: di certo non si sarebbe spazientita nell'offrire ristoro a un forestiero e poi quello era il minimo che io potessi offrirgli in cambio, dopo la sorpresa che mi aveva procurato.
Stavamo per girare l'angolo, quando improvvisamente comparve Marfa proveniente dall'altra direzione, trasportante una pila di biancheria che le impedì di rendersi conto della nostra presenza.
Seguì un impatto con Maximilian e tutto il carico che trasportava cadde in terra con destinazione, un'altra volta, la lavanderia.
«Perdonatemi non mi ero accorta di voi!»
«Non c'è nessun problema, signorina.» rispose Maximilian, inginocchiandosi in terra per aiutarla a recuperare il carico riversato.
«No, per favore non...» Marfa alzò lo sguardo, per completare la frase e per ringraziarlo allo stesso tempo, ma quando lo guardò in faccia la sua espressione si contorse in movimenti di incredulità e paura.
La vidi gettarsi in terra a un metro da lui, con la bocca piegata in una smorfia di disprezzo e procedere all'indietro con il sedere per allontanarsi sempre più da quella figura, come se avesse tra le mani una forca e fosse pronto a infliggerla su di lei.
«Cosa ci fai tu qua? Cosa vuoi?»
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