Capitolo 35
Durante quel mese Ethelwulf si era dimostrato un buon insegnante, dalla pazienza infinita e dal temperamento accondiscendente. Avevamo deciso di darci appuntamento fisso ogni giorno per circa un'ora dopo la fine di ogni mio servizio. Proprio per questo motivo avevo chiesto la cortesia a Sir Jacques di programmarmi i turni della settimana in maniera tale da terminare sempre per le cinque di pomeriggio così da poter iniziare la mia quotidiana lezione subito dopo. Attendevo quel momento della giornata con una trepidazione tale da non riuscire a giustificare a me stessa le sensazioni che provavo, sensazioni che avrei potuto provare invece nell'attesa di rivedere mia sorella o nel sapere di doverla condurre all'altare. Da quando avevo iniziato era capitato infatti, durante la notte, di svegliarmi in preda ai crampi alla pancia e alla sudorazione fredda data dall'eccitamento nel sapere che il giorno successivo avrei ricopiato per l'ennesima volta quei simboli che Ethelwulf mi faceva trascrivere sul solito pezzo di carta. In un mese potevo constatare dei miglioramenti inaspettati. Se era infatti facile per me riconoscere alcune lettere che mio padre, all'epoca che fu, aveva avuto modo di insegnarmi, fu altrettanto straordinario prendere consapevolezza di quanto fosse abbastanza semplice scrivere una parola completa.
«Mela»
Fu la prima parola che scrissi sotto suggerimento del mio insegnante. La cosa più difficile non fu però aggregare quelle quattro lettere insieme, quanto dosare l'inchiostro del calamaio che una volta intinto, tra la poca luce dell'ambiente e la mia goffaggine nel tenerlo tra le mani, sparse sul foglio un'infinità di gocce nere che resero praticamente impossibile il suo utilizzo.
«E anche questo è andato.» ripeteva buffamente Ethelwulf ogni volta che doveva accartocciarne uno per prenderne un altro.
«Prometto che quando andrò in città ve ne ricomprerò altri!»
E come ogni volta mi dava un buffetto sulla guancia per lasciarmi intendere che poi, in fin dei conti, non gli interessava più di tanto gettare l'ennesimo foglio se questo fosse servito a rendermi abile in ciò in cui si improvvisava maestro.
«Bambino» fu la parola che riuscii a scrivere dopo una settimana di lavoro e impegno, sotto la guida di Ethelwulf. Quella volta però, contrariamente all'energia e alla volenterosa predisposizione che mi avevano contraddistinto nelle precedenti occasioni, mi sentivo abbastanza svogliata, forse per le migliaia di lettere che mi ronzavano in mente da giorni, forse per la porcellana che avevo lucidato durante tutta la mattina. Fu Ethelwulf a venirmi in aiuto: prese la mia mano nella sua e condusse il calamaio con movimenti veloci e snodati, tra le bombature della B e le spigolosità della N.
Una settimana più tardi chiesi al mio maestro di aiutarmi nella scrittura di un'epistola da inviare alla mia famiglia e lui, di tutta risposta, mi posizionò il calamaio e la carta sotto il muso. Afferrai il pennino un po' agitata, avvicinai il foglio e scribacchiai la prima parola.
«Cara»
Mi girai poi verso Ethelwulf per ottenere approvazione da lui su come avevo proceduto e questi fece cenno di sì con la testa, per confermarmi che lo avevo soddisfatto.
Mi appoggiò poi la mano sulla spalla e disse dolcemente «Ora continuate.»
Non mi sbilanciai troppo. Non avevo l'intenzione di dare vita a una lettera eccessivamente prolissa, piuttosto mi concentrai su poche e concise parole, giusto per comunicare alle destinatarie la mia nuova abilità.
Cara mamma, cara Daisy,
Per quanto vi sembri strano, sono proprio io a scrivervi. Il Natale è trascorso e qui a palazzo l'atmosfera non si è percepita come avrei desiderato. Spero che questa sia solo la prima dell'infinità di lettere che ho intenzione di inviarvi.
Anthea
Una volta arrivata la sera, dopo aver consumato il tè presso casa sua come avevo preso l'abitudine a fare ormai da troppo tempo, gli domandai come potessi sdebitarmi per quell'enorme cortesia che mi aveva concesso e che non ritenevo affatto scontata.
«Venite a farmi visita più spesso e magari fermatevi a cena da me anche questa sera.» confessò sommessamente, scandendo bene quelle poche parole.
In risposta a quella esternazione avvertii un senso di disagio inatteso, che mi fece lì per lì avere dei pensieri che fino ad allora non mi erano mai balenti nella mente, ma non persi energie a dargli ascolto. Giustificai quell'invito infatti come il desiderio di una persona che era abituata a trascorrere la maggior parte del tempo in solitudine e che avrebbe apprezzato avere più occasioni per beneficiare della compagnia di qualcuno. Quella sera tuttavia mi trovai a dover declinare l'invito di rimanere a cena da lui e optai per rincasare prima.
Una volta in prossimità del palazzo mi accorsi dell'arrivo di una carrozza. Affrettai il passo dalla curiosità perché era cosa alquanto strana che qualcheduno venisse in visita o in udienza a quell'ora tarda del pomeriggio. Appropinquandomi vidi, contrariamente a quanto pensavo, che non si trattava di una semplice carrozza in visita ma che in realtà erano ben due i mezzi: uno da cui scese una figura snella e vestita di nero, l'altra invece trasportante solo un'infinità di bagagli che non ebbi modo e tempo di contare.
Avevo quasi raggiunto l'ingresso, quando uno stuolo infinito di servitori cominciò ad affrettarsi verso l'esterno e a caricare bagagli a non finire, non prima di aver ognuno fatto un reverenziale inchino. Uscì in seguito anche Sir Jacques e una serie di domestici che erano stati da poco promossi di grado. Si posizionarono a file di due davanti la carrozza e non appena uscì fuori la seconda figura questi si piegarono in un ossequio ancora più sentito. La mia corsa si fece più rapida fino a quando non superai la vettura e mi ritrovai di fronte l'ultimo dei passeggeri presenti.
I miei passi sul brecciolino attirarono l'attenzione di colui verso il quale tutta la servitù lì presente aveva dimostrato un ricercato rispetto.
Questi si girò e nel vedermi si bloccò per qualche secondo. Altrettanto feci io.
Mi trattenni, pietrificata nel godere nuovamente di una visione che per troppo tempo mi era stata negata, allo stesso modo in cui gode un terreno arido che beve nuovamente dell'acqua in seguito a un'estate torrida. Non mi risparmiai affatto dal guardare quelle lucerne blu così luminose che contrastavano uniche il calare della notte e quei capelli così morbidi e flessuosi che ricordavano, non le fronde di un salice, quanto i cespugli rigogliosi primaverili. Osservai poi le sue mani possenti e venose che tante volte avrei desiderato mi sfiorassero come avevano fatto qualche mese prima in una piovosa giornata d'autunno e, infine, come tralasciare quell'abito scuro che indossava, impreziosito con nastri di seta e fibbie d'argento, che risaltavano nell'insieme la sua pelle bianca. Era nel complesso forse una statua di marmo o magari uno di quei tanti dei che nell'antica Grecia era costume lodare un tempo.
Quanto mi era mancato e quanto ancora mi mancava.
Avrei anche potuto piangere per l'emozione nel rivederlo dopo più di un mese e al contempo avrei voluto piangere per la disperazione di non poterlo avere per me.
Come avrei desiderato in quel momento che non ci fosse stato nessuno. Come agognavo abbracciarlo e essere avvolta allo stesso tempo dalle sue braccia massicce per abbandonarmi finalmente a lui e sopire quella nostalgia scoppiettante che tante volte mi aveva provocato il mal di testa.
Mi aveva pensato durante la sua assenza come aveva dato modo di farmi credere? Gli ero mancata? Era mai andato a letto soffocando le lacrime sul cuscino pensando a come io ero distante da lui e lui da me?
No quello no, non sarebbe stato da lui.
Carlyle continuava a guardarmi e altrettanto io. Notai il suo petto espandersi a ritmo irregolare, quasi incalzato da una fretta che aveva sopito per troppo tempo, lo vidi poi stringere i pungi e avrei giurato che se avesse potuto, in quel momento, mi avrebbe detto qualcosa, anche un semplice saluto, se non fosse stato per Sir Jacques che lo distrasse, frantumando quel momento di intimità di cui ne avevo bevuto anche le gocce.
«Vostra Maestà? Vi sentite bene?» per fortuna il maggiordomo non si era accorto di nulla e neanche la principessa essendo che questa aveva già raggiunto le sue stanze.
«Sì Théodore, solo la stanchezza del viaggio.» Carlyle terminò di scendere le scalette della carrozza e sfilò tra le file dei domestici, facendo infine cenno al cocchiere di rientrare entrambe le carrozze.
Il principe continuò procedendo verso l'ingresso mentre io, come una calamita, non trovai la forza di distogliere lo sguardo da lui. Fui pressoché sicura che sentì la mia presenza addosso. Prima di voltare l'angolo, lo vidi girarsi verso di me e inviarmi un'ultima e fugace occhiata, dopodiché scomparve.
L'indomani non fui mai tanto contenta di essere di turno per la colazione.
Svegliarmi prima dell'alba non fu un peso come non lo fu imburrare dozzine di fette di pane tostato o speziare il latte caldo con cannella e cardamomo. Chiunque era presente nelle cucine notò il mio stato d'animo in fiore.
«Qualcuno qui ha ricevuto belle notizie?» ammiccò la cuoca.
«Affatto Violet.» presi poi un panetto di burro e glielo mostrai «vedete? c'è scritto burro!»
«Vi rende contenta una forma di burro?» domandò sconcertata.
«Assolutamente. Mi rende felice poter sapere che si tratta di burro prima ancora di poterne toccare la consistenza o assaporarne l'odore.»
Fu quella la prima scusa che mi venne in mente e fu anche abbastanza credibile dato che tutti i domestici del mio piano sapevano che mi stavo facendo dare lezioni direttamente dal taglialegna.
Henry, un giovanotto di quindici anni e da poco assunto, pensò bene di fare bella figura posando per primo le brioche già calde in tavola, per questo afferrò l'intero vassoio, anche con il rischio di farne cadere qualcuna, e si avviò versò l'uscita.
«Fermo Henry, ci penso io. Voi aspettate prima che il tè bolla e poi conditelo con miele e scorza d'arancia.» con tutto il rispetto che potevo nutrire per le buone intenzioni di quel ragazzo, avevo troppa fretta di uscire da quella stanza e raggiungere quella in cui sarebbe di lì a poco arrivato il principe.
Presi il vassoio e con una fluidità dei movimenti inaspettata raggiunsi la Sala d'Autunno.
Vi trovai alcuni manovali intenti a smantellare quelle poche decorazioni che i Kynaston avevano richiesto per le festività natalizie: qualche festone in prossimità delle finestre, un centrotavola rosso e dorato. Per quell'anno nessun abete decorato e niente giochi luminosi alle fontane, il tutto per rispettare il lutto che la principessa Jocelyn aveva subito.
Anche Padre Baruffaldi nella sua omelia natalizia, ricordò la forza con la quale Carolina aveva combattuto nella sua breve vita e di come talvolta si riusciva a trovare nel dolore, la salvezza.
Sistemai il tavolo nella maniera più scarna possibile e poi attesi in un angolo l'inizio della colazione.
La mia momentanea distrazione fu riportata in riga quando sentii qualcuno aprire la porta.
Entrò il principe, quella volta non annunciato e non in compagnia di sua moglie. Prese posto e arrotolò i polsini della camicia in seta.
Afferrai la teiera con il latte e gliene versai un po' nella tazza, poi come da consuetudine, aggiunsi un goccio di tè, ma non troppo perché non voleva che il sapore dell'ingrediente principale venisse offuscato.
«Desiderate una brioche?»
Sorseggiò la bevanda e poi si pulì la bocca «Sì, con marmellata di corniolo.»
«Purtroppo quella marmellata è terminata, posso andare a vedere se ne è rimasta un po' di quella al ginepro.»
«Lasciate stare, questa mattina vada per brioche semplice.»
Gliene porsi due e poi rimasi in attesa di una successiva richiesta: era buona educazione infatti abbondare sempre nel piatto. Se i principi non avessero consumato, allora il cibo sarebbe finito nella spazzatura oppure dato ai maiali.
«Come state, signorina Gleannes?» domandò tagliando l'ultimo pezzo di lievitato.
Sgranai un poco gli occhi e mi ricomposi «Direi bene, Vostra Maestà.»
«É una buona notizia questa.»
«Concordo.» un lieve brivido mi percorse «Voi invece come state?»
Che conversazione surreale quella che stavo vivendo. Chiedere a un principe come stava quando piuttosto avrei dovuto chiedergli cosa avrebbe preferito per il pranzo o se gradiva che gli cambiassi le lenzuola.
«Ho vissuto giorni migliori.»
«Comprendo la vostra situazione.» furono le parole più sensate e meno invasive che riuscii a trovare tra una battuta e un'altra.
«Piuttosto signorina Gleannes... spero possiate perdonarmi per quello spiacevole episodio che ha riguardato me in prima persona e voi il giorno prima della mia partenza. Dovete scusare l'eccesso di agitazione di cui vi ho caricato ma erano giorni difficili per me e mia moglie.»
Sperai di non dover udire mai quelle parole.
Per un momento pensai di averle inventate nella mia testa. Che motivo c'era di scusarsi se era stata una delle rare occasioni in cui aveva dimostrato che di me qualcosa gli importava?
«Come potete immaginare la malattia della mia compianta cognata, le varie questioni della tesoreria e il proseguire della guerra mi hanno sovraccaricato di una serie di fardelli che mi sono ritrovato a gestire in maniera completamente fallace.»
«Non dovete fare ammenda.» una lacrima mi rigò il volto.
«Invece credo sia la cosa più opportuna, potrei avervi messo paura.»
«Credo invece che anche voi, Vostra Maestà, siete un essere umano e che potete avere come tutti noi dei momenti di deb...»
«Il sovrano di un regno non ha momenti di debolezza. Alcune volte, tuttavia, potrebbe aver bisogno di evadere dal suo ruolo e talvolta nel farlo, commette degli errori. È un rischio che si assume.» tuonò, senza neanche darmi l'opportunità di terminare la frase.
Quindi era stato tutto un errore e tutto un rivestire un ruolo, un po' come un attore veste dei panni di scena sul palco e poi dietro le quinte torna a essere la persona di sempre.
Il mio orgoglio era ferito, i miei sentimenti crepati come vetro.
Per la seconda volta mi aveva respinta, dopo avermi farcita di illusioni.
Consapevole di ciò che stavo per dire, consapevole che sarebbe potuto entrare nella stanza chiunque da un momento all'altro e che avrei rischiato così di scalfire l'autorevolezza del principe, decisi comunque di difendere la mia dignità già solcata.
«Credo, Vostra Maestà, che talvolta sarebbe meglio non dare ascolto a ciò che il cervello ci consiglia ma udire piuttosto le inclinazioni del cuore.»
Gettò il tovagliolo sul tavolo e mi guardò sconcertato, incredulo che avessi potuto asserire una cosa del genere.
«Mi state per caso dando lezioni? Chi siete voi per giudicarmi? Vi state facendo burla della mia incommentabile debolezza?»
«Affatto, Vostra Maestà.»
«E cosa ne volete sapere voi di sentimenti?»
«Non molto, ma so riconoscerli quando arrivano.»
Avrei gradito udire una sua risposta ma purtroppo l'ingresso di Sir Jacques interruppe bruscamente quel dialogo.
«Signorina Gleannes, c'é... » guardò poi il posto libero di fronte al principe «La principessa ancora non consuma il pasto?»
«La principessa questa mattina rimarrà nelle sue stanze. Se sarà suo desiderio, sarà lei a comunicarvi quando avrà intenzione di consumare.» rispose lapidario.
Sir Jacques fece un inchino per l'imbarazzo in cui si ritrovò catapultato.
«Sir Jacques, volevate dirmi qualcosa?» sollecitai con le lacrime agli occhi.
«Sì.. sì.. ecco, c'è un uomo che richiede la vostra attenzione!»
Mi trovai nuovamente impreparata e sorpresa «Un uomo?»
«Un uomo, come ho detto. Non l'ho mai visto prima però ha richiesto di parlare espressamente con voi.»
«Sapete almeno il suo nome?»
«Mi ha detto di chiamarsi Maximilian.»
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