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Capitolo 34

Il sonno di quella notte non fu tranquillo come quelli a cui mi ero abituata ultimamente. Non ricordavo di preciso cosa avevo sognato, solo che una volta sveglia provai una forte sensazione di oppressione sul petto.
Dopo aver fatto colazione cercai Sir Jacques nel suo studio per farmi consegnare la lista delle stoffe che avrei dovuto acquistare quel giorno per la principessa. Nel mentre che raggiungevo la destinazione sperai, con cuore pesante e gonfio, di ricevere la notizia che aspettavo da giorni: magari un viaggio di ritorno di notte, una lettera in cui si annunciava un imminente rientro oppure chissà, gli zoccoli di un cavallo che non udivo da tempo immemore.
Tutte le mie attese furono vanificate non appena incontrai Théodore.

Bussai alla porta ed egli, con intonazione soffocata e quasi forzata, mi fece entrare. Lo vidi seduto scomposto sulla poltrona, con una gamba accavallata sull'altra ad angolo retto, intento a leggere un carteggio molto lungo, composto di vari fogli sparsi sul tavolo e altri caduti in terra. Mi avvicinai e il gesto più istintivo fu quello di raccogliere quei pochi che erano sul pavimento.
«Oh lasciate! Lasciateli lì! Tra non molto diventeranno alberi...» esclamò lui, spostando i suoi occhialetti sulla fronte per poi tornare concentrato su ciò che stava leggendo. Notai che, dimenticata in un angolo del tavolo, vi era una bustina ocra abbastanza grande con ancora attaccato il sigillo in cera lacca, contrassegnato da un bocciolo di rosa e una croce.
Trasalii.
Presi un po' di coraggio e chiesi «Qualcosa vi turba, Sir Jacques?»
Questi sbuffò e sorseggiò dell'idromele, poi accantonò le lettere in un cassetto della scrivania. Si alzò, spostò le tende e aprì le finestre per far cambiare quell'aria stantia e consumata.
«Non dovreste essere in servizio voi, signorina Gleannes?» finalmente mi rivolse l'attenzione.
«Lo sono già in vero.»
«E che ci fate qui? Ricordavo di avervi assegnato dei compiti per questa mattina.» quel giorno non era il solito uomo scherzoso e burbero che avevo imparato a conoscere.
Deglutii «Sono qui affinché mi consegnate la lista delle stoffe da acquistare per il confezionamento dei nuovi abiti.»
Scosse la testa, si tastò i pantaloni e poi estrasse un foglietto stropicciato dalle tasche che mi lesse velocemente.
«Tenete. È la mia scrittura, mostratelo al commerciante e tornate con tutte le stoffe.»

Venti cubiti di velluto bacchetta azzurro, quindici cubiti di broccatello cremisi e dorato e altrettanti di raso giallo. Da aggiungere anche quattro cubiti di fili di rame e dorati, con cinquanta once di pietre di vetro e lamine metalliche.

Ripiegai il foglietto e lo infilai in tasca «Tutto chiaro allora.»
Sir Jacques ripiombò sulla poltrona e picchiettò le ginocchia con le mani, respirando affannosamente con il suo naso prorompente e storto. Prese ad attorcigliare il suo codino e lo fece così freneticamente che se lo scompigliò e fu costretto a rifarlo.
«Voi intanto preoccupatevi di comprare le stoffe e fatevi consigliare anche le migliori, ma dubito verranno usate quest'anno.»
Storsi gli occhi con un velo di preoccupazione, cercando di interpretare il suo sguardo corrucciato e al contempo impegnandomi a evitare di risultare troppo invadente. Ciò nonostante, l'agitazione che mi attanagliava le vene e il desiderio di ottenere delle risposte alle mie urgenze, mi portò a rimanere del tempo ulteriore all'interno di quella stanza, ritardando di chissà quanto il mio appuntamento con Ethelwulf.
«Dite che la sarta aggiungerà queste stoffe a quelle dell'anno prossimo?» passai un dito sul mobile in mogano e disegnai una scia in mezzo alla polvere.
«Dico solo che il denaro per quest'anno potrebbe essere risparmiato, non vedendone personalmente alcun frutto futuro o utile destinazione... piuttosto, sarebbe utile accantonarne quanto possibile in vista dell'acquisto nella nuova residenza nella Contea del Kent.» si interruppe, spaventato dal tonfo di un piccione sul vetro che, non essendosi reso conto della sua trasparenza, aveva mirato l'interno della stanza.
Chiuse perciò le tende, lasciando un piccolo spiraglio «Che Dio gliela mandi buona!»
«A chi vi riferite, Sir Jacques?» mi sedetti davanti a lui, accavallando le gambe come un'aristocratica di fronte a un esattore delle tasse.
Rimase stupito dal mio comportamento, ma non lo reputò fuori luogo «A Carolina di Hannover, ovvio! E alla principessa di conseguenza.»
Mi intristii - di una malinconia vera - perché per quanto Jocelyn potesse essere arida in empatia e spigolosa nei modi era pur sempre un essere umano e come tale ne avrebbe provato le sofferenze.
«Le condizioni di salute della sorella di Sua Maestà sono peggiorate così tanto?»
«Purtroppo questo è quanto e i medici non sono convinti che supererà l'inverno» arricciò poi i lati della bocca e il mento «non so ancora perché mi sto confidando con una domestica piuttosto che con uno di più alto lignaggio, ma ci siete voi ora e sembrate essere anche una buona ascoltatrice.»
Eccome se lo ero.
«Preghiamo allora per la pronta guarigione della principessa Carolina. Padre Baruffaldi a tal riguardo dice sempre di affidarsi al Signore quando ci si ritrova davanti a situazioni che l'uomo, con le sue sole forze, non è in grado di risolvere.»
«In queste situazioni credo che neanche il buon Dio decida di porre la sua mano. Magari è sua volontà che la sofferenza umana finisca.» poi si portò la mano sulla fronte e scosse la testa per allontanare il peggiore - ma più realistico - degli scenari.
«A noi non resta che sperare e augurare un felice rientro ai sovrani Kynaston.»
«Voi parlate di rientro, ma chissà quando sarà!»
Mi sentii debole. Le forze parvero abbandonarmi poco a poco e, non appena vidi un bicchiere all'estremità del tavolo, lo agguantai con una mossa fulminea e lo riempii d'acqua per riprendere conoscenza, il tutto sotto lo sguardo schifato di Sir Jacques.
«Santa Madre di Dio, signorina Gleannes! Non pensate che quello poteva essere il mio bicchiere o quello a cui si era attaccata qualche altra persona?»
«Avete ragione Sir Jacques» deglutii un altro sorso «una strana arsura però si è impadronita della mia gola.»
Théodore ammiccò un'altra espressione disturbata, abbandonò in seguito il discorso per dedicarsi alla pianificazione dei turni della servitù della settimana successiva.

La realtà pertanto era una: i Kynaston sarebbero rientrati chissà quando, per godere il più possibile della temporanea permanenza di Carolina di Hannover nel mondo dei viventi e, molto probabilmente e per la prima volta in tutta la loro vita, avrebbero beneficiato di un Natale londinese.
Desiderare la morte di qualcuno? Giammai, il solo pensiero mi fece accapponare la pelle e trasformare lo stomaco in un pesante macigno.
Desiderare un uomo sposato? Quanto di più peccaminoso poteva esserci? Non desiderare donna d'altri diceva il nono comandamento, e io in questo caso - rivolto al maschile - lo avevo già infranto. Se Padre Baruffaldi avesse saputo, mi avrebbe costretta a trascrivere i dodici comandamenti sulla pietra come Mosè un numero così grande di volte che la mente umana non aveva ancora inventato.
Cosa potevo farci però? Tutti i tentativi della ragione di riportare la mente sulla retta via erano stati impediti da una pancia, bacino di turbamenti ed emotività, che invece spingeva verso quello che il cuore comandava.
Era un problema a cui avrei dovuto porre rimedio assolutamente, ma forse non ero ancora pronta.

Scesi nel cortile e andai ad avvisare il cocchiere di preparare una carrozza per via dell'imminente partenza. Proseguii verso la baita nel faggeto per avvisare Ethelwulf che ero finalmente pronta per andare in città, ma non fu necessario dal momento in cui lo vidi venire verso di me a passi lunghi, mentre che trasportava una bisaccia sulle spalle all'apparenza non così tanto leggera.
«Perdonate il ritardo. Ho speso del tempo a preparare delle focacce alle erbe per il viaggio, nel caso ci venisse fame. Ho pensato potessero esserci utili.» si tolse il cappello e indicò dunque la borsa.
Gli sorrisi teneramente «Molto premuroso da parte vostra!»
Si grattò la nuca e arrossì leggermente.
Salimmo poi sul calesse che nel frattempo era arrivato e iniziammo il breve tragitto verso Sommerseth Town.

Trascorremmo la maggior parte del viaggio in silenzio, non c'era in fin dei conti quella confidenza tale da iniziare un discorso tra amici e, oltre a esprimere qualche commento sulla giornata soleggiata e a chiederci come ci trovassimo nel nostro ruolo a palazzo, il viaggio procedette abbastanza silenziosamente.
«Ci tenevo a chiedervi scusa per ieri.» esordì Ethelwulf una volta varcate le porte della città. Avevo notato infatti un velo di agitazione nel suo gesticolare con le mani e intuivo avesse qualcosa da dire.
Ne rimasi sorpresa «A cosa vi riferite?»
«Al mio momento di debolezza, davanti a una fanciulla che a malapena mi conosce.»
Replicai una mimica fraterna «E perché dovreste scusarvi? Per aver amato vostra moglie?»
I suoi occhi tornarono lucidi e indossò nuovamente il capello con la visiera per nascondere, quella volta, una debolezza che non voleva condividere con me.
Poggiai la mia mano sulla sua per dargli conforto «Se volete, potete parlarmene. E non vi giudicherò se l'emozione prendesse il sopravvento.» aggiunsi dolcemente.
Questi mi guardò, si soffiò il naso con un fazzoletto che poi ebbe premura a inserire nella manica del cappotto e infine iniziò, con ritmo lento e sofferto.
«Si chiamava Alice e quando ci sposammo era poco più che una bambina. Siamo sempre stati vicini di casa, quindi capite bene come l'ho vista crescere nel tempo. Ricordo ancora quando nacque: avevo sei anni ed ero andato a trovarla solo perché i miei genitori avevano insistito tanto... come potete immaginare un bambino di quell'età preferirebbe restare a casa a giocare con i suoi gingilli piuttosto che andare a far visita a una poppante.»

Pesce fresco! Carne bovina!
Guardate che cipolle! Fatevi avanti!

La vita di paese interruppe momentaneamente il nostro discorso. Fu un frangente molto strano e a tratti invasivo: alle urla goliardiche dei marcanti, si contrapponeva uno stato d'animo solitario, malinconico e scuro. Si trattava di scene a cui non eravamo soliti assistere e per questo motivo cercammo di farne bagaglio.

«Come avete fatto dunque a innamorarvi di lei?» reputavo difficile infatti poter provare dei sentimenti per una persona che si conosceva sin dalla sua nascita, c'era il rischio infatti di finire per considerarla come una sorella, o un fratello nel mio caso, e ritenere il matrimonio come qualcosa di molto innaturale e forzato.
«È stato molto semplice invero.» quella risposta confutò le mie convinzioni «All'età di dieci anni, mio padre mi inviò presso il convento di Sant'Agostino a Chilworth, per imparare la lettura, la scrittura e le scienze conosciute. Vi rimasi per ben otto anni e vi sarei rimasto di più se avessi perseguito il desiderio di prendere gli abiti, come da tempo credevo di volere.»
«Quindi siete istruito!» i miei occhi brillarono.
Fu meno stupito di me, tanto che mi guardò anche abbastanza perplesso «Certo che lo sono! Voi no per caso?»
Imbarazzata e in difficoltà dovetti ammettere che ero pressoché analfabeta.
«A questo possiamo porvi rimedio.» diede una pettinata ai suoi capelli biondi, scompigliati dal leggero venticello che entrava dal finestrino abbassato.
«Non lo state per dire veramente... »
Mi rispose con i suoi occhi bruni e allargò la bocca carnosa in un'ampia smorfia di contentezza.
«Vi offro lezioni quando volete, all'alba o al tramonto, a notte fonda addirittura, e approfittatene perché sono... gratuite!» esplodemmo quindi in una rimbombante risata e lo avrei anche abbracciato per ringraziarlo se non fosse stato per una buca che il calesse prese improvvisamente in pieno e che ci fece sbattere la testa al soffitto.
«Stavate dicendo quindi di Alice?» il discorso aveva preso a interessarmi e lo cacciai nuovamente, non prima di averlo ringraziato pressocchè un'infinità di volte.
«Dunque, dopo otto anni che non la rivedevo e in occasione del matrimonio di mia sorella minore, tornai a casa. Varcato il recinto di casa mia fui subito attratto da questa chioma corvina, tenuta insieme da un fiocco giallo e da un fisico snello e longilineo, adornato da un vestito verde foglia, lungo fino ai piedi e snello in vita. Quanto si voltò riconobbi il volto di Alice. Era diventata una donna, per quanto mantenesse ancora i lineamenti infantili con cui l'avevo conosciuta.» la voce, che fino ad allora aveva retto a fatica, si spezzò e cominciò a tremolare. Erano quelli ricordi che lo stringevano ancora in una forte morsa e che avrebbero avuto bisogno di tempo per essere digeriti. Sapeva anche però che immagini così forti e cariche di sentimento avrebbero continuato ad accompagnarlo per il resto dei suoi giorni.
Continuò il suo discorso e mi descrisse il giorno in cui entrambe esternarono i sentimenti che si resero conto di condividere, mi parlò del giorno del suo matrimonio e di come decisero di trasferirsi a Sommerseth per via del fatto che Alice avesse trovato lavoro come balia presso la dimora di una famiglia aristocratica del posto.
«Erano i Connor e di loro non posso che avere un buon ricordo.»

Il nostro discorso fu improvvisamente interrotto dalla visione di una ragazza di spalle, dai capelli bruni e ricci, che indossava la mia stessa divisa e che era ferma a un vicolo, intenta a parlare con una donna sulla mezza età. Feci cenno al cocchiere di interrompere un attimo la corsa. La scusa fu che Sir Jacques mi aveva commissionato di acquistare dei fiori di camomilla e malva dall'erborista per i decotti che la principessa beveva prima di andare a dormire quando non riusciva a prendere sonno. Feci cenno a Ethelwulf di reggermi il gioco e questi agì di conseguenza, aggiungendo che non dovevo dimenticare di acquistare il biancospino, come Théodore aveva ripetuto più volte. Il cocchiere senza fare troppe storie acconsentì e parcheggiò il calesse proprio a quattro passi dall'erborista.
Entrammo nel negozio e subito fummo accolti dal commerciante che si prodigò a offrirci il suo cortese aiuto.
«La ringraziamo ma stiamo dando solo un'occhiata.» risposi io, senza neanche permettergli di terminare i suoi convenevoli.
Il mio accompagnatore mi prese per il gomito «Potete spiegarmi cosa avete architettato?»
Mi accostai per bene dietro il coprifilo della porta e gli indicai la ragazza, in attesa della sua prossima mossa. Il commerciante nel frattempo ci guardava con incredulità.
Ero convinta infatti che Marfa era impegnata nelle cucine quella mattina, dunque ritrovarmela in città fu cosa alquanto imprevista e misteriosa.
Finalmente smise di parlare con la sua interlocutrice e poi si diresse verso l'edificio che avevo proprio di fronte, non prima di aver indossato un cappuccio che le coprisse il volto per intero.
Portava tra le mani un fagottino dal quale sembravano uscire indumenti lavorati a maglia della taglia di un bambino. Da come si muoveva pareva avere anche una certa fretta.
Quando scomparve nell'edificio, domandai a Ethelwulf «Sapete che palazzo è quello in cui è appena entrata?»
«È un orfanotrofio!»
«Un orfanotrofio?» ero completamente confusa e anche abbastanza intimorita.
«Sì, cosa c'è di male a entrare in un orfanotrofio?» Ethelwulf ancora non capiva bene la situazione.
«Non c'è nulla di male infatti, se non fosse che quella ragazza è la mia compagna di stanza e non mi ha mai detto di frequentare un istituto del genere.»
«Per quale motivo dovrebbe dirvelo però, magari è la principessa che le ha commissionato di fare la carità a dei bambini che non hanno più intorno delle figure di riferimento.»
«Da quando Jocelyn fa la misericordiosa con gli orfani?» espressi con sarcasmo.

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