Capitolo 33
Il ritorno da casa mi lasciò l'amaro in bocca per tutta la durata del viaggio. Anche in quell'occasione, prima del crepuscolo, era arrivata con mio grande stupore la stessa carrozza reale del giorno prima per scortarmi direttamente a palazzo.
L'addio a Daisy e a mia madre fu sofferto: mia sorella continuò a chiedermi copiosamente quando ci saremmo riviste e sottolineò più volte che sarebbe stata completamente sola durante i preparativi del matrimonio; al pari merito, al dispiacere materno di lasciar andar via - di nuovo - una figlia, si aggiunse quello di sentirsi responsabile nel non averle evitato una situazione così spiacevole il giorno precedente.
Se non potevo fare nulla per alleviare il turbamento di mia madre, promisi almeno a Daisy che, durante il suo giorno, non sarebbe stata sola e che mi sarei presa io la briga di accompagnarla all'altare.
Il Natale si avvicinava e così anche la sua atmosfera, tuttavia quello che riuscivo a percepire era solo una forte stretta al cuore e un infinito senso di abbandono. Mi chiesi più volte se avessi fatto bene a tornare a casa mia o se magari sarebbe stato meglio evitare a priori, così da risparmiarmi quello stato d'animo.
Pensai però in seguito che, prima o poi, mi sarei dovuta confrontare con quella situazione e che rimandarla sarebbe stato solo un palliativo.
Avrei dovuto accettare di vivere la mia famiglia pochi giorni al mese, ma mi promisi che le volte successive non avrei rinunciato ai miei giorni di permesso per guadagnare di più, ora che sapevo tra l'altro che Forks non desiderava una dote.
Il viaggio di ritorno fu dunque caratterizzato da sensazioni contrastanti: da una parte la tristezza e la desolazione che mi fracassavano il cervello, dall'altra invece l'agitazione e la nostalgia che contorcevano le mie budella.
Sapevo il motivo per cui avevo le farfalle nello stomaco e, con difficoltà e dopo averci ragionato su abbastanza, riuscii ad ammetterlo a me stessa.
Una volta arrivata a destinazione percorsi il lungo viale in ghiaia, dando qualche occhiata in qua e là verso i prati confinanti, poi raggiunsi l'ingresso e gettai uno sguardo a una coppia di uomini intenti a salire su dei ponteggi per sostituire le tegole che, qualche giorno prima, la caduta di un ramo aveva frantumato.
Rifocalizzai l'attenzione su ciò che veramente mi interessava: cercai dunque, con la coda dell'occhio, un qualche angolo di giubba spiegarsi tra una colonna e un'altra ma non la trovai, allora pensai fosse più semplice venir attirata dalla lucentezza di una spada ma anche in quel caso feci un buco nell'acqua. Magari invece sarebbe stato più semplice intravedere una capigliatura mora scendere dalla scale o ascoltare lo spessore di una voce virile.
Tuttavia non scorsi nulla di tutto ciò, neanche impegnandomi o sperandolo con tutto il cuore.
La mia ricerca frenetica terminò quando udii lord Campbell parlottare con qualche aristocratico venuto in visita a palazzo, non avendo trovato neanche lui quello che cercava.
«Non ne ero a conoscenza, mi sarei quantomeno risparmiato un viaggio.» miagolò il cancelliere.
«Dovrebbe essere di ritorno tra qualche giorno.» aggiunse una donna vicino a lui.
«È partito oggi alla volta di Londra con la principessa, non credo si tratterà di un'uscita vacanziera.»
«E giudicate bene invero, potrebbe volerci più di una settimana. Dipende da come procedono le condizioni di salute di Carolina di Hannover.» continuò un'altra voce maschile.
Il cuore mi si strinse in una forte morsa.
L'unico motivo per cui ero contenta di rientrare a palazzo non era presente tra quelle dodici mura e sapevo già che avrei trascorso il resto dei giorni, se non ore, ad aspettare di riascoltare quella voce calda e profonda rimbombare tra gli stucchi delle pareti.
In quel momento, mi sarebbe bastato anche assistere a una qualche scenata di Jocelyn, almeno quello era il segnale che i due fossero rientrati a palazzo.
Tornai nella mia stanza e rimisi in ordine quelle poche cose che avevo portato con me per la durata della mia breve assenza, dopodiché percorsi il corridoio e raggiunsi le cucine. Consumai il pasto con poca voglia, notando anche un velo di dispiacere sul volto della cuoca che scambiò il mio poco appetito con il non apprezzare ciò che aveva cucinato per cena.
«Violet, ho solamente poco appetito, ciò che avete preparato è buono come al solito.» le giurai dopo l'ennesima volta che mi camminò davanti aspettando un qualche mio commento e, una volta rincuorata, si spostò nell'altra stanza con un'espressione soddisfatta.
Si era fatta notte prima di quanto mi sarei aspettato, le giornate si erano accorciate di molto sebbene non fosse ancora arrivato il giorno di Santa Lucia, il giorno più corto dell'anno secondo alcuni.
Sparecchiai la tavola e me ne tornai in stanza dove vi trovai Marfa, intenta a sistemarsi il cambio per il giorno dopo: avevo appreso che era una ragazza molto ordinata e preoccupata nel non fare le cose all'ultimo minuto.
«Già di ritorno! Come è stato il tuo rientro a casa?» esclamò non appena mi vide, mostrandomi i suoi denti bianchissimi in un tenero sorriso.
Sospirai «Desiderato ma inaspettato.»
Storse le sopracciglia «Cosa intendi?»
«Per quanto il rivedere mia sorella e mia madre sia stata una delle sensazioni migliori degli ultimi tempi» tossii via la saliva «la giornata è stata rovinata dall'arrivo di Orville Patel e delle sue pessime maniere.»
«Mi hai accennato di questo Orville, tuttavia non sono sicura di ricordare chi sia veramente.» sembrò un po' confusa dalle mie parole.
«Meglio per te.» poi, con il bisogno di condividere con qualcuno ciò che sapevo solo io, pensai fosse buona cosa parlarne con lei.
Le raccontai tutto, di quello che era successo, di ciò che avevo provato e di come non volevo più sentirmi. Era la prima volta che mi aprivo su quell'argomento.
Vidi Marfa alternare espressioni di rabbia, di frustrazione e infine di sgomento. Nel mentre parlavo, continuava a stringermi la mano per darmi forza e io strinsi la sua a mia volta. Terminammo il nostro discorso con un lungo abbraccio e infine ci mettemmo a letto, non prima di esserci date la buonanotte.
Dopo una decina di minuti Marfa già russava, sprofondata con tutto il peso tra le braccia di Morfeo, mentre io, per qualche ragione, non riuscivo a prendere sonno. Continuai a girarmi nel letto, alla ricerca del lato più comodo ma più mi muovevo più la stanchezza sembrava abbandonarmi.
Mi alzai dunque e indossai uno scialle pesante, ricordando la vecchia credenza di mia nonna Beth secondo la quale quando il sonno non sopraggiunge meglio non pensarci e dedicarsi ad altro.
Uscii dalla stanza e mi addentrai nel corridoio, facendo attenzione a fare il meno rumore possibile per non svegliare il resto della servitù.
Percorsi l'ingresso e mi sedetti su di un gradino all'esterno, assaporando sulla mia pelle la leggera e fredda folata invernale accarezzarmi i capelli e raggelarmi il petto. Strinsi le braccia attorno alle gambe e poggiai la testa sulle ginocchia, chiusi gli occhi e poi una lacrima mi scese solitaria sulla guancia. Perché non riuscivo ad ammettere a me stessa che mi mancava e che l'assenza di sonno derivava proprio dal fatto che non era lì presente? Perché non accettavo che c'era qualcosa di strano, nascosto, impossibile ma dolce e ispido allo stesso tempo?
Forse perché ero consapevole che i miei erano solo castelli di carta, forse perché speravo in una favola che auspicavo si avverasse ma di cui invece ne avrei sentito parlare solo nei racconti per i bambini?
Dove era finita la ragazza alla ricerca di indipendenza e disinteressata a tutto ciò che riguardasse il condividere la vita con qualcuno? La mia esistenza, fino ad allora, non era stata costellata da molte persone esterne a quelle che ero abituata a vedere tutti i giorni. Non avevo avuto praticamente quasi nessuna amica e tanto meno avevo avuto l'onore di giocare con qualche cugino, non potendone vantare. La solitudine non era pertanto per me cosa nuova, anzi, con il tempo avevo imparato a farci l'abitudine eppure, in quel momento, mi sentii più sola di come mi ero mai sentita in vita mia.
Per la prima volta, ero una straniera nella mia stessa pelle.
Un'altra lacrima scese indisturbata, indifferente rispetto ai miei tentativi di farla rimanere custodita tra le palpebre e, sul momento, anche la forza di una lacrima sembrò essere maggiore rispetto a quella della mia volontà. Ripetei nella mia testa che si trattava solo di una settimana o forse più, poi pensai alla peggiore delle ipotesi: e se si fosse trattato di un mese?
Al solo pensiero mi mancò il fiato.
Alzai il volto e guardai la fontana Margherita, poi la vasca dei Tre Delfini e infine il Canalone grande in lontananza, somigliante a una piccola pozzanghera rispetto a dove mi trovavo. Pensai nuovamente di essere molto fortunata a poter godere di tanta bellezza e a poterla divorare in solitaria, al cospetto di una notte stellata.
«Non sono l'unico che non riesce a prendere sonno allora.» proferì improvvisamente una voce pacata provenirmi dalle spalle.
Mi girai, spostai i capelli su di una spalla e accostai nuovamente lo scialle al petto.
«Ethelwulf!»
Questi si avvicinò e si sedette proprio vicino a me.
«A quanto pare no» gli risposi io, continuando a fissare il panorama antistante, poi lo guardai e gli chiesi «c'è qualche motivo in particolare per cui non riuscite a dormire?»
Allargò la schiena e si appoggiò sulle braccia portandole indietro «Pensieri che mi inseguono quasi tutte le notti» sospirò «non come tempo fa di certo, ma con una frequenza non piacevole.»
Siamo in due allora, riflettei.
«Siete solita soffrire di insonnia?»
«In realtà no, ho cominciato a soffrirne nell'ultimo periodo. Succede quando il rumore nella testa è più forte della stanchezza di una giornata di lavoro.» sbuffai, appoggiando nuovamente la testa sulle ginocchia.
Parve non comprendere fino a fondo il mio ragionamento «Un po' esagerato per una ragazza della vostra età, non pensate?»
«È quello che mi ripeto ogni volta che mi rotolo in qua e in là nel letto.»
La temperatura continuava a scendere sempre di più e io rabbrividii dal freddo per non avere indosso qualcosa di adeguato a ripararmi.
Con un gesto del tutto inaspettato, Ethelwulf si tolse la giacca di dosso e me la mise sulle spalle.
«Ora dovreste stare più al caldo.» constatò, arricciando gli angoli della bocca.
Lo ringraziai con gli occhi per quel tenero gesto proveniente, del resto, da uno sconosciuto «Adesso sarete voi ad avere freddo però.»
«Sono abituato alle temperature del bosco prima dell'alba e a quelle del Tamigi durante le notti di novembre.»
Rimasi meravigliata «Quindi siete inglese!»
«Sì, esattamente.»
«Posso chiedervi allora perché siete qui se la domanda non vi disturba? Il punto è che la cosa mi lascia abbastanza stupita... non siete un fuggitivo vero?» gli strizzai l'occhio, ciò nonostante mi chiesi se lo avesse notato.
Scoppiò a ridere ma tornò serio subito dopo, con una repentina alterazione d'umore.
«Sono qui per mia moglie.»
«Quindi siete sposato!» risposi stupita.
Vidi i suoi occhi illuminarsi al chiarore della luna. Lo sentii d'un tratto tirare su con il naso.
«Ero sposato. Mia moglie non c'è più.» confessò tremando, mi guardò poi con gli occhi rigonfi di lacrime «sono questi i pensieri che non mi fanno dormire quando tramonta il sole.» accennò un sorriso costretto per dare l'idea che avesse imparato a convivere con quella certezza, per quanto sapevo in cuor mio che doveva essere stata la cosa più difficile che aveva provato a fare nel corso di quella giornata.
Mi si chiuse la gola «Perdonatemi, non ne ero a conoscenza e di certo non avrei orientato il discorso su tematiche così delicate. Perdonate... la mia mancanza di tatto.»
Si asciugò gli occhi con il colletto della camicia «Non avete colpa voi, non potevate saperlo.» sembrò poi essersi ripreso.
Rimanemmo in silenzio per un po', ad ascoltare i rumori che la notte inviava a intermittenza a due anime affrante, chi per un motivo, chi per un altro.
«Vi trovate bene a palazzo?»
«Meglio di quanto pensassi. La mia sistemazione è quiete e lontana dalla frenesia in cui penso viviate voi tutti i giorni.»
Roteai inevitabilmente gli occhi «Dite bene e quasi vi invidio.»
«Potete venire a trovarmi quando volete, sapete? Ogni volta che intendete scappare da qualche pretesa assurda di Sir Jacques o da qualche ordine improbabile della principessa.»
Feci una grossa risata, forse anche un po' eccessiva «La loro fama li precede.»
Annuì con vigore.
Sentii che fosse arrivato il momento di rientrare nella mia stanza e credetti che lo pensasse anche lui dal momento in cui ci alzammo contemporaneamente. Ci salutammo con affetto, con la promessa di prendere sonno quella volta.
Aveva già fatto qualche passo quando mi fermai e lo chiamai.
«Ethelwulf!» il mio grido rimbombò in un eco.
Questi si girò e aspettò che io parlassi. Mi avvicinai a lui per evitare di gridare di nuovo perché, solo dopo averlo chiamato, mi ricordai di essere nel bel mezzo della notte, con tutti gli inquilini del palazzo alle prese con il loro quarto sonno.
«Vi andrebbe di accompagnarmi in città giovedì mattina? Ho una commissione da portare a termine per la principessa.»
Ethelwulf alzò un braccio in segno affermativo e giurai di aver visto un sorriso dipinto sul suo volto.
«Allora ci vediamo giovedì.» ripetei, per assicurarmi che avesse effettivamente capito e memorizzato.
«A giovedì allora. E ricordatevi che dentro casa mia siete sempre la benvenuta.» si incamminò nel buio e scomparve poco dopo.
Quando rientrai nella mia stanza trovai, da una parte, una Marfa dormiente e, dall'altra, le coperte come le avevo lasciate. Tolsi le scarpe e mi infilai finalmente nel letto, non prima però di aver contemplato, come tutte le notti, quegli orecchini d'oro e perla che custodivo nel cassetto del comodino come se fossero il mio più grande tesoro. Ero ormai della convinzione che non li avrei mai usati per paura di perderli e che solo la consapevolezza di averli lì dentro mi rendesse veramente serena.
Li estrassi quindi e li odorai, come se potessero dare corpo al profumo inconfondibile della persona che me li aveva regalati.
Li accarezzai con le dita e poi, finalmente, mi coricai nell'attesa del giorno successivo.
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