Capitolo 31
La promessa che aveva fatto sul letto di morte di suo padre era che lui sarebbe stato sempre lucido, in qualsiasi occasione: di fronte al pericolo, di fronte a una nascita, perfino di fronte alla morte. Non avrebbe mai perso il controllo, perché credeva che lasciarsi dominare dalle emozioni fosse una cosa da deboli e codardi.
Gli animali potevano farsi trasportare con facilità dal loro istinto, e dunque, ecco che non avrebbero avuto problemi ad azzannare il proprio fratello per accaparrarsi l'ultimo pezzo di cibo oppure, inconsapevoli del pericolo, avrebbero ucciso anche l'uomo per difendere i propri cuccioli.
Lui però non era un animale e come tale avrebbe sempre ragionato prima di commettere un eventuale errore.
Forse questo temperamento lo aveva ripreso da sua madre, peccato che non lo avrebbe mai potuto constatare dal momento in cui la conosceva solo per sentito dire.
Per quale motivo allora, di fronte a quella ragazza, si era lasciato attraversare da un flusso sconosciuto di pensieri e impulsi che mai lo avevano governato prima di allora?
Da dove provenivano? Forse li aveva sempre avuto nascosti in qualche estrema parte di sé?
Impossibile, pensò.
Eppure non era fiero di come si era comportato. Aveva dato il peggio di sé e neanche sua moglie, se se lo fosse ritrovato davanti in quel momento, avrebbe saputo dire chi fosse. Quel giorno ciò che il suo corpo lo aveva implorato di fare, fu impedito solo da un estremo atto di volontà che gli costò fatica e raziocinio.
Perché sì, se non si fosse controllato avrebbe fatto anche di peggio.
Se non avesse mantenuto saldi i suoi nervi avrebbe rivoltato la stanza in un batter d'occhio, avrebbe distrutto la scrivania e spezzato i braccioli della poltrona, avrebbe staccato le tende e le avrebbe gettate dalla finestra, con il rischio di farle cadere sopra qualche mal capitato.
Fortunatamente, quella non era stata la sua reazione ma in qualche modo non si riconosceva nei panni che aveva vestito qualche ora prima. Per non parlare del giorno in cui l'aveva baciata! Il solo ricordo gli provocava il voltastomaco, ma non perché non gli fosse piaciuto, affatto! Era stata la cosa più deliziosa che avesse compiuto da quando era sul trono, ma si trattava di un gesto deplorevole, disgustoso e da dimenticare. Non era quello l'insegnamento con cui era cresciuto. E per cosa dopotutto?
Per una ragazza molto più giovane di lui, che conosceva a malapena e che era capitata in casa sua quasi per sbaglio?
Non poteva accettarlo, non riusciva a riconoscersi. Lui era un sovrano, un uomo potente, un governante, un membro della corona... non era un uomo qualsiasi!
Ciò nonostante, in più di un'occasione si era comportato come un uomo comune: quando le aveva chiesto di essere presente al ballo indetto per il suo compleanno; quando, in un tiepido sabato mattina, aveva intravisto sul bancone del gioielliere da cui era solito acquistare, una graziosa coppia di orecchini che avrebbe potuto donare solo al suo viso e che avrebbe potuto risaltare esclusivamente i suoi occhi verdi. Perché i suoi occhi gli ricordavano la rugiada sulle foglie di mattina, l'ululato della foresta che grida al ritmo del vento e il colore del bosco in cui un mese prima aveva a tutti gli effetti sostituito sua moglie con un'altra donna. Gli balenò infine il ricordo della volta in cui, di fronte a una pianta di amaranto, aveva assistito come unico spettatore alla leonina criniera dorata scenderle sulle spalle.
Al solo pensiero la sua virilità si fece pulsante.
Anche questo faceva parte dell'essere uomo e principe del resto.
Improvvisamente sentì troppo calore sul pube e una fastidiosa sensazione di costrizione. Per tale ragione i bottoni dei pantaloni parvero essere lì lì per cedere e, come poté, cercò di ricomporsi.
Fortunatamente non fu necessario per troppo a lungo perché l'ingresso non annunciato di sua moglie lo riportò alla realtà.
Quando la vide capii che qualcosa non andava: lo comprese dalla sua andatura spigolosa, dalla mancanza di sorriso non appena gli rivolse lo sguardo e da una lettera aperta, contrassegnata dal sigillo di Re Giorgio II, che gli gettò tra le mani subito dopo.
Intuì che aveva pianto da poco e forse avrebbe ricominciato allorché avesse affrontato il discorso.
«Leggete, per favore.» fu l'unica frase che fuoriuscì dalla sua bocca contorta.
Più che una richiesta era un leggete e basta, non erano contemplate alternative.
Carlyle afferrò quella missiva, se la passò tra le mani e poi la aprì per leggerla tutta d'un fiato.
Capì subito il motivo per cui sua moglie versasse in quello stato.
Sua cognata, la sorella di Jocelyn, era stata colpita da una malattia sconosciuta, che tanto aveva fatto tribolare i medici e che ancora non aveva una diagnosi certa.
Carolina Elisabetta di Hannover nella sua epistola lamentava continui dolori lombari, un'inspiegabile perdita di peso, sebbene le servissero anguille e noci di Macadamia a volontà, e interminabili perdite di sangue che le causavano una spossatezza perenne. Carolina era costretta a letto da mesi, impossibilitata a camminare per più di cento metri e assistita in ogni quotidiana faccenda, anche nel bere un semplice bicchier d'acqua.
Carlyle era a conoscenza dell'amore incondizionato e cieco che sua moglie nutrisse per la sorella, non che fosse semplice ammettere di avere un fratello preferito, ma per la principessa era così e lei non lo aveva mai nascosto. Carolina era stata per lei la sostituta di una madre troppo assente e presa dagli affari di Stato, di una madre che l'aveva avuta quando era già molto avanti con l'età e che non l'avrebbe mai accudita al pari di come aveva fatto con il principe Federico Luigi, suo fratello e primogenito.
Ultima di nove figli, aveva sempre accusato il ruolo che ricopriva: non sarebbe mai stata prima di fronte ai suoi genitori, mai prima di fronte alla corona. Almeno si sentiva prima di fronte a suo marito, questa era l'unica cosa che la rasserenava.
«Avete letto?» chiese spazientita Jocelyn, che nel mentre camminava a braccia conserte in avanti e indietro.
Carlyle fecce cenno di sì con la testa, ripiegò la lettera e la riconsegnò a sua moglie.
«Beh allora? Non dite nulla?» continuò, con le lacrime che minacciavano di sgorgare.
Il principe si mise comodo sulla sedia «Mia cara, le parole di vostra sorella sono identiche a quelle che abbiamo ricevuto in occasione della Pasqua. Vostra sorella sta molto male, ma ciò non significa che non possa riprendersi.»
In quel momento sua moglie scoppiò realmente a piangere «Non capite? Oppure fate finta di non capire? Non vi rendete conto che mia sorella potrebbe non farcela?» la sua voce era strozzata dai singhiozzi e un fiume prese a scorrere violento sulle sue guance.
Carlyle questo lo sapeva bene, ma non voleva rischiare di farla stare ancora peggio di come stava.
Si alzò allora dalla poltrona e la abbracciò, sua moglie quindi nascose la testa tra le sue spalle e si lasciò andare alla disperazione.
«Cosa posso fare io per voi? Ditemi e cercherò di accontentarvi.» le sussurrò dolcemente, asciugandole quelle poche lacrime che scappavano dal loro abitudinario percorso.
Alzò il capo e lo guardò con occhi tumefatti.
«Andiamo da lei, per favore.» lo supplicò.
«In Inghilterra?» rispose sgomento.
Sarebbe stata la cosa più giusta da fare, un marito avrebbe accompagnato e sostenuto la moglie di fronte alle scelte più difficili.
E questa era sicuramente una scelta ardua.
Eppure non ce la faceva. Non avrebbe retto. I suoi nervi non glielo avrebbero permesso.
Sentì nuovamente un brivido elettrico percorrergli la schiena e il suo pensiero tornò a focalizzarsi su quegli occhi smeraldo. Avrebbe sofferto già molto solo per rivederli l'indomani, non poteva aspettare addirittura una settimana se non di più.
Si innervosì per il solo pensare quelle cose, di nuovo. Perché si sentiva così in trappola?
Stava per dirgli che l'avrebbe accompagnata, che sarebbe stato il suo sostegno di fronte alla difficoltà, ma l'unica cosa che uscì dalla sua bocca fu uno sbuffo sordo.
«Allora? Parlate per favore!» incalzò lei nervosamente.
Tutto ciò che gli veniva richiesto era di articolare pochi vocaboli, bastava un semplice Si, sarò con voi e per voi, ma sembrò avesse perso l'uso della parola, come se si fosse dimenticato della lingua che aveva parlato fino ad allora.
Jocelyn continuava a fissarlo, in attesa di una sua risposta.
«Per quanto tempo?» un qualcosa era uscito, anche se non la frase che sua moglie si aspettava.
Lo guardò esterrefatta «Per quanto tempo cosa?»
«Quanto a lungo staremo via?» rispose, con un accenno di balbuzie.
«Cosa importa quanto tempo staremo via? Potrebbe essere una settimana, se non di più. Saremo di ritorno per Natale senza dubbio.»
Barcollò «Più di una settimana?» scosse la testa «Mi dispiace, non posso.»
Jocelyn parve non capire «Non potete? E per quale motivo?»
Il principe dovette fare ripiego sulle lezioni di recitazione che aveva preso quando era ancora un bambino «Affari importanti mi mantengono qui a corte, tra meno di dieci giorni ci sarà la scadenza per il pagamento del tributo di residenza e sapete anche voi quanto i nostri sudditi siano restii a ottemperare.»
«Avete Sir Jacques anche per questo!» brontolò Jocelyn dandogli le spalle.
Sua moglie avrebbe trovato una ragione ovvia a qualsiasi sua scusa, non sarebbe di certo stata necessaria la sua presenza a corte per quel lasso di tempo e non sarebbe successo nulla per il quale non poteva essere sostituito.
Si sentì nuovamente in trappola. Se fosse capitata una cosa del genere qualche mese prima non avrebbe avuto problemi a partire, piuttosto, avrebbe già ordinato di preparare le valigie e qualche cadeau da portare in segno di cortesia. Ma in quel momento no, no che non poteva!
Si morse le labbra per il nervosismo che quello stato gli causava.
Cosa era diventato? Forse un debole? Un sentimentalista?
Eppure solo lui conosceva l'emozione che gli provocava veder passeggiare quella giovane ragazza tra gli interminabili corridoi della sua dimora, mentre gli versava del tè fumante la mattina con le sue dita bianche e affusolate o quando capitava di notare che, per sbaglio o volontariamente, lei stessa lo stesse guardando.
Allontanò quei pensieri dalla testa come mosche fastidiose e poi pensò a una risposta da dare a sua moglie che la potesse soddisfare.
«Quando desiderate partire?»
Le si illuminarono gli occhi «Domani mattina. Vi direi di partire oggi stesso ma comprendo come sia difficile organizzare tutto in così poco tempo.»
Fu come ricevere un pungo assestato alla bocca dello stomaco, ma non lo diede a vedere e si limitò ad acconsentire con la testa.
«Dobbiamo sbrigarci perché ogni giorno potrebbe essere l'ultimo per Carolina.»
L'indomani all'alba sarebbero partiti e avrebbero affrontato un viaggio di mezza giornata per raggiungere Londra e restarci fino a chissà quando.
Il vortice dei suoi pensieri fu momentaneamente interrotto dall'improvviso bussare alla porta.
«Avanti Sir Jacques.» rispose Jocelyn, sapeva infatti che tre colpi erano il segno distintivo del maggiordomo che attendeva di essere ricevuto.
L'uomo fece il suo ingresso stringendo tra le mani una lettera contrassegnata dal sigillo di Federico II, re di Prussia.
«Speriamo, almeno adesso, che siano buone notizie.» commentò Carlyle a bassa voce, assicurandosi che nessuno lo ascoltasse.
Il principe aprì anche quella lettera, la seconda della giornata, e vi lesse notizie confortanti: a Leuthen la Prussia aveva sconfitto l'Austria con meno della metà delle forze. Una notizia piacevole dopo la tragedia di Rochefort, pensò.
Aveva maturato con il tempo la convinzione che spalleggiare l'Inghilterra fosse cosa giusta, sia perché sua moglie era inglese sia perché avrebbe rischiato di mettere a repentaglio la salute del suo regno, tuttavia era anche convinto che non potesse voltare completamente le spalle alla Francia perché, per quanto Beaufort fosse un minuscolo territorio quasi confinante con l'Italia, era pur sempre di sua proprietà.
Da anni quel territorio veniva gestito da suo fratello per nome e in suo conto; quello tuttavia non era stato nient'altro che uno stratagemma per allontanarlo da Sommerseth. Per troppo tempo infatti Godwin aveva manifestato la sua insofferenza nel non poter essere il sovrano del principato che credeva gli spettasse per principio: non per motivi di sangue, essendo frutto di un amore proibito, quanto perché riteneva aver maggior pugno duro rispetto a suo fratello e anche perché si reputava più propenso alle arti belliche e alla diplomazia.
Averlo relegato a Beaufort si era rivelato dunque essere il giusto compromesso tra il renderlo reggente di qualche dominio e averlo abbastanza distante da casa propria.
La decisione di patteggiare con l'Inghilterra era stata una scelta ponderata e ragionata ed era comunque un'informazione che necessariamente doveva sopraggiungere alle orecchie di Godwin, sapeva tuttavia che suo fratello non l'avrebbe presa bene e che presto avrebbe ricevuto sue notizie.
In ogni caso non era quello il momento per pensarci.
«Come procedo, Vostra Grazia?» rispose soddisfatto Sir Jacques. Anche lui, di nascosto, godeva per la vittoria della Prussia e mai avrebbe fiancheggiato la Francia, sebbene i suoi genitori provenissero da un piccolo paese della Normandia.
Il principe aprì il cassetto e vi estrasse una pergamena e la cera lacca rossa.
«Portatemi del nero di seppia per favore, non ne trovo qui intorno.»
Il maggiordomo fu di ritorno in poco tempo portando con sé due boccette d'inchiostro ancora sigillate.
Sir Jacques prese la pergamena e intinse il calamaio nella tintura, poi attese che il principe dettasse le parole che sarebbero arrivate direttamente in Prussia.
Si trattò dei soliti ringraziamenti e delle solite lodi, alle quali si aggiunse una sincera dimostrazione di sostegno.
Il principe scaldò la cera e la versò tra i due lembi della pergamena, sigillando il tutto con lo stemma del suo anello.
Fino a quel momento, Jocelyn era rimasta nella stanza in silenzio, attendendo che gli affari politici del marito venissero sbrigati nel minor tempo possibile per fare spazio ai suoi.
Quando il maggiordomo fuoriuscì dal suo campo visivo si sentì subito più leggera e riprese il discorso che aveva dovuto interrompere involontariamente.
La principessa si avvicinò a suo marito e lo abbracciò da dietro, cingendogli le mani sul cuore «Vado a far preparare le mie valigie allora. Vi consiglio di portare qualcosa di pesante, so bene quanto detestate il tempo uggioso di Londra.»
Cambiò discorso «Mangeremo presto questa sera, così da riposare il più possibile durante la notte. Ci aspetta un viaggio faticoso domani.» le diede un leggero bacio sulla fronte e la congedò.
Aveva bisogno di tempo per riflettere.
Quando rimase solo, come per magia, si materializzò sotto il suo naso il profumo di camelie dei suoi capelli dorati. Sentì il suo cuore aumentare il ritmo e il sangue pulsare violento nelle vene.
Prima di partire avrebbe dovuto averla vicina un'ultima volta.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro