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Capitolo 24

Mia cara Anthea,

Avrei voluto scriverti in momenti più propizi e non farti arrivare la mia voce in occasione di un evento così doloroso. È con grande sofferenza che ti comunico la scomparsa di tuo padre sul campo di battaglia a Rochefort. Come puoi ben immaginare non avremo modo di compiangere il suo corpo esamine. Di lui ci rimarrà solo il ricordo e, date le circostanze, ti invito ogni giorno a far riecheggiare nella tua mente la sua voce, così che tu non abbia mai a dimenticarla.
Con la speranza di rivederti presto, io e tua sorella ti mandiamo un abbraccio da lontano, per quanto sai bene che mai come oggi siamo state così vicine.
Tua madre.

Padre Bruffaldi ripose la lente nel taschino e ripiegò il biglietto cercando di fare il meno rumore possibile, per evitare di sovrastare il frastuono che riecheggiava dentro di me.
Chinò la testa per rispettare il mio lutto e mi consegnò l'unica parte che mi legava alla mia famiglia.
Allargai la bocca mostrando tutti i denti, spalancai il palato e iniziai a ridere così forte e così rumorosamente che la mia risata sembrò rimbalzare su tutte le pareti. Continuai a ridere e poco a poco le lacrime cominciarono a fuoriuscire copiose, la risata si trasformò in un lamento e infine in un singhiozzo rauco.
Ripetei nella mia mente le parole presenti nella lettera, una...due...e infinite volte perché non potevano essere reali. Non poteva essere successa una cosa del genere. Non a me.
Presi quel biglietto e lo aprii per accertarmi che non ci fosse nulla di quello che mi era stato appena letto. Probabilmente il sacerdote si era sbagliato. Probabilmente era molto anziano. Il mio sesto senso purtroppo mi confermò con orrore che quella non doveva essere una menzogna, che padre Baruffaldi era una persona onesta e mai avrebbe scherzato su un argomento così delicato. Lessi quel biglietto dall'alto in basso e viceversa, facendo finta di capire qualcosa che non avrei mai saputo decifrare.
Il tempo smise di scorrere per un periodo che non seppi quantificare. Doveva essere per forza così, anche l'aria nella stanza si era fermata, il vento, le nuvole e l'abbaiare dei cani dei guardacaccia. Qualsiasi essere vivente si era interrotto per dare spazio alla mia afflizione. Il sacerdote era rimasto di fronte a me aspettando di ricevere una risposta, una smorfia o qualche cenno di vita che testimoniasse la mia presenza.
Il principe invece si era trattenuto a distanza, pietrificato e inerme.
Quando il tempo riprese a scorrere mi sentii percorsa da una scarica elettrica nel corpo che partì dai piedi, mi attraversò le viscere e infine spinse sulla bocca affinché urlassi.
Ma non lo feci.
Rimasi composta e infilai il foglietto nel corpetto che si era impregnato di sudore a seguito dello shock vissuto. Il respiro si fece affannoso e la stanza iniziò a ruotarmi attorno. Barcollai per trovare un punto di appoggio. Una maniglia. Un pomello.
Era tutto così distante e persi l'equilibrio. Fu grazie a Baruffaldi che non caddi a terra, mi prese per il braccio e poi per le ascelle per rimettermi in posizione eretta.
«Andate e prendetevi del tempo, signorina Gleannes. Il vostro lavoro qui è terminato.» mormorò dolcemente l'uomo.
Lo guardai con gli occhi spalancati e mi chiesi se dovessi dare ascolto a lui o all'autorità del mio sovrano, che fino a quel momento non aveva proferito parola e che si era limitato a restare spettatore della mia sofferenza. Avevo bisogno di tempo e avevo bisogno di sfogare l'uragano che imperversava dentro di me, che cercava qualche apertura del mio corpo per uscire ma che la sola che aveva trovato disponibile era l'unica che provavo a tenere serrata.
«Andate mia cara.» ripeté di nuovo il parroco. Interruppi il tremolio delle mie ginocchia e provai ad assumere una posizione quanto più composta possibile. Aprii le spalle, congiunsi le mani all'altezza del bacino e in segno di riverenza mi voltai verso la porta.
«Dove andate? Aspettate!»
In quel lasso di tempo che mi era sembrato interminabile, fu la l'unica frase che sentii da parte sua.
Mi girai a tre quarti per guardarlo, con gli occhi gonfi di lacrime e la faccia rossa come quella di un vulcano che stava per esplodere.
Lo scrutai per qualche secondo con disprezzo.
«Con permesso.» aggiunsi con voce tremolante e continuai per la mia direzione. Aprii la porta con delicatezza e la richiusi facendo rumore, illudendomi che avessi lasciato il mio dolore lì dentro.
La realtà era invece che quel macigno mi inseguiva e forse mi sarebbe stato accanto per il resto della mia vita.
«È successo qualcosa, Anthea?» Sir Jacques, che era rimasto fuori la Sala immobile, si accorse del mio stato d'animo e ne fu anche angosciato dato che mi chiamò per nome. Lui, che era solito appellarmi con parole confidenziali solo nelle riunioni con la servitù, mi chiamò per nome in un contesto del tutto inusuale e lì capì quanto fosse effettivamente preoccupato per me.
Lo guardai e gli sussurrai un debole «più tardi» dopodiché presi a correre per il corridoio perché il forte bisogno di uscire e di riempire i polmoni di un'aria meno viziata era insopportabile.

Le mie gambe, senza che me accorgessi, si mossero a una velocità irragionevole e le mie braccia le accompagnavano per rendere i movimenti più agili.
«Ehi! Fate attenzione!» brontolò una cameriera alla quale avevo appena fatto cadere la biancheria pulita in terra. Non mi girai neanche a chiederle perdono e in meno di qualche secondo ero per le scale. Le percorsi con foga e anche in quel caso rischiai di tamponare più persone. Se la principessa fosse stata lì presente non mi sarei risparmiata dall'andarle addosso e non me ne sarebbe interessato nulla, non mi sarebbe importato niente neanche delle conseguenze che poi avrei subito. Correvo, ma ancora non sapevo in quale direzione. Sentivo solo un'incredibile necessità di correre. Percorsi l'ingresso del palazzo e fuoriuscii da una delle porte posteriori così che la mia disperazione non avrebbe dato nell'occhio nell'eventualità in cui qualcuno mi avesse visto dalle finestre. Conoscevo ormai come le voci girassero tra la servitù e quanto le cameriere più chiacchierone si dondolassero sugli ultimi pettegolezzi, io però non avrei voluto essere mai al centro delle loro attenzioni e, più di ogni altra cosa, in quella circostanza.

Mi riversai nel giardino posteriore e percorsi la stradina in brecciolino fino alla fine, raggiungendo in pochi minuti l'inizio dell' abetaia. Mi resi conto solo dopo un po' di quanto facesse freddo e di come io fossi vestita solo della mia divisa in cotone e panno. Il cielo era di un colore unico, grigio fumo, ed era impossibile distinguere quando finiva una nuvola e ne iniziava un'altra. Era ancora giorno ma la luce spenta che illuminava la vista non rendeva chiaro in che momento preciso della giornata mi trovassi. Sarebbe potuta essere mattina, pomeriggio o anche sera per quanto mi riguardava.
Il vento di quei giorni inoltre soffiava con molta forza e rendeva ancora più pungente la temperatura invernale che era destinata a scendere ulteriormente con il passare delle ore. Per ripararmi dalla corrente ghiacciata mi nascosi dietro un tronco di abete, poi l'angoscia ritornò a essere la mia padrona. Iniziai a grattare la corteccia dell'albero, non scalfendo minimamente quest'ultima e provocando ferite sui polpastrelli oltre ad azzerare completamente le mie unghie.
Un piccolo lombrico, impaurito dalla foga della nuova presenza, si nascose dentro un foro.
Il risultato del mio gesto furono mani insanguinate e piene di pezzi di legno infilzati nella carne. Oltre al dolore emotivo presi a sentire anche quello fisico. Mi pulii come potei sul grembiule bianco e questo prese le sembianze di un panno da pittura, sporco di resina e macchiato in qua e in là da chiazze rosse. Dopodiché diedi un'occhiata attorno. L'abetaia era molto fitta e man mano che si procedeva verso l'interno man mano la vista si faceva scura.
Mi sentivo completamente sconfitta, come se un proiettile mi avesse perforato la bocca dello stomaco e lentamente da quel punto iniziassero a partire delle crepe. Provai improvvisamente una profonda stanchezza, paragonabile a quella che si doveva provare dopo aver passato una giornata a trasportare tronchi di legno sulla schiena.
Una forza proveniente dal basso fece crollare le ginocchia a terra.
Guardai in alto e vidi di nuovo il cielo grigio. Chiusi gli occhi e poi un'ondata salata mi devastò il viso. Aprii le braccia come se stessi aspettando qualcosa o qualcuno.
Forse, in fin dei conti, aspettavo di udire la voce di mio padre da dove si trovava in quel momento. Avevo bisogno delle sue rassicurazioni, avevo bisogno di un suo abbraccio. Quando lo avevo visto l'ultima volta non credevo che non ce ne sarebbero state altre perché, se lo avessi saputo, forse avrei cercato di passare più tempo insieme a lui.
Tornarono alla mente sprazzi di ricordi infantili in cui io e lui eravamo attorno al fuoco e mi faceva dondolare in su e in giù dalle ginocchia, mentre mia madre lo riprendeva per sottolineargli che quei movimenti sarebbero potuti essere molto pericolosi.
La mente tornò ancora più indietro nel tempo, a quando mi metteva a letto la sera e mi augurava la buonanotte stampandomi un leggero bacio sulla fronte perché credeva che mi fossi finalmente addormentata.
No papà, non dormivo in realtà, sussurrai.
L'ondata si trasformò in una marea e quasi rischiai di soffocare tra le mie stesse lacrime.

«Anthea!» udii da lontano.
Mi girai dalla mia posizione e vidi una figura correre verso di me a più non posso. Mi alzai, mi scrollai l'erba di dosso e mi asciugai gli occhi per mettere la visuale più a fuoco.
Feci il gesto istintivo di ripararmi la fronte con le mani perché la luce biancastra della giornata ancora non mi aveva lasciato intendere chi mi stesse chiamando.
Quando capii di chi si trattava sentii ribollire il sangue e un ruggito dal fondo dello stomaco salì incontrollato. Cambiai direzione e ripresi a correre, rabbiosa e volenterosa di fuggire da un assassino.
«Fermatevi! Dove andate!» gridò questi mentre continuava il mio inseguimento senza sosta.
«Allontanatevi da me!» risposi con tutto il fiato che avevo in corpo tanto che uno stormo di uccelli appollaiati su uno degli alberi a me circostanti, volò via.
«Vi ordino di fermarvi!» il tono supplichevole che aveva usato qualche secondo prima si era trasformato in uno più autorevole e imperativo.
«E io vi chiedo di lasciarmi in pace!» ribattei con un'intonazione più controllata rispetto a quella che avevo usato poco prima.
Solo un centinaio di metri ci separavano e io continuavo la mia andatura, meno veloce rispetto a prima essendo il mio fiato divenuto corto mentre, dietro di me, un uomo muscoloso e forzuto continuava a correre per raggiungermi e chissà per quanto ancora avrebbe seguitato.
Una zebra, per quanto agile e veloce, soccomberà sempre all'impetuosità di un leone.
L'inseguimento terminò poco dopo a causa della mia impossibilità nel proseguire. Non ero mai stata abituata a correre per lunghe distanze e le uniche volte che andavo di fretta era per soddisfare qualche esigenza della principessa.
«Finalmente...» sospirò Carlyle, poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
«Finalmente? Finalmente cosa?» la mia voce era spezzata dai respiri.
«Che vi siete fermata! Per quanto ancora pensavate di seguitare?»
«Nessuno vi ha chiesto di rincorrermi, tantomeno io!» la mia collera era irrefrenabile.
«E io invece ho voluto! Posso comportarmi come voglio nella mia tenuta o devo chiedere il permesso?» si rimise in posizione eretta e tornò lo stesso uomo a cui ero stata abituata fino ad allora.
«Certamente che potete, eppure commetto peccato se vi chiedo di concedermi del tempo da sola?»
«Certo che no, ma voglio assicurarmi che non mi affibbiate alcuna colpa per la disgrazia che è crollata sulla vostra famiglia.» dalle sue parole si percepiva del personale coinvolgimento eppure era evidente quanto cercasse di mantenerlo nascosto.
All'udire quell'affermazione il sangue prese a ribollirmi nelle vene. Irrigidii i muscoli e digrignai i denti.
«Se mio padre è morto alla sua ancora giovane età di certo non è perché ha deciso di impiegare il suo tempo nell'andare a combattere su un territorio straniero e per una causa che non era la sua!»
Carlyle fu quasi intimorito dalla mia affermazione, ma non vacillò.
«Credete che io fossi a conoscenza che quell'uomo era vostro padre? Credete che io lo abbia fatto con intenzione? Cristo, non l'ho neanche mai visto!» aprì le braccia e si guardò intorno per manifestare il suo sgomento.
«Certo che non l'avete mai visto, per caso sono vostra moglie o una vostra amica?»
Non era pronto a quella risposta e notai sul suo volto una smorfia di incredulità.
«Non intendevo dire quello, intendevo dire che...oh lasciate stare» scrollò la testa in qua e in là. Stava per aggiungere qualcosa ma si interruppe.
«Non posso che dare la colpa a voi per quello che è successo a me e alla mia famiglia.» dovevo aggiungere un carico, era ovvio.
Strabuzzò gli occhi e divenne rosso in faccia.
«Mi state dando dell'omicida per caso?»
«Vi sto dando del codardo!»
Non so quale forza lo mantenne saldo quel momento. Successivamente mi resi conto di aver letteralmente offeso il mio sovrano.
«Ringraziate che siete una donna altrimenti io...»
«Altrimenti cosa? Mi avreste picchiato o mi avreste fatto uccidere come avete fatto con mio padre?»
«Non osate mai più rivolgervi al vostro sovrano in questo modo! Qualcuno al posto vostro avrebbe già perso la lingua!»
Mi gelò con gli occhi.
«È facile parlare e discolparsi quando si è circondati dallo sfarzo, quando si vive nell'agiatezza economica e quando si è benvoluti dalla propria famiglia.»
«Famiglia?» il suo volto assunse un'espressione incredula «Famiglia?» ripeté di nuovo e con maggiore intensità «Cosa ne sapete voi della mia famiglia?» i suoi occhi divennero rossi per il dolore e il suo labbro inferiore tremolante.
In quel momento compresi di aver toccato un tasto dolente e una ferita che ancora stentava a rimarginarsi.
Lo guardai con occhi diversi e, per quanto le conseguenze delle sue azioni mi avessero causato una profonda afflizione, provai pena per quell'uomo. L'agitazione che era dilagata tra le mie fibre muscolari mi abbandonò e finalmente mi rilassai. La rabbia si attutì e da ultimo ripresi a respirare a un ritmo regolare.
«Perdonatemi Vostra Maestà, non era affatto mia intenzione.» constatai finalmente che anche lui aveva cambiato espressione e che la sua stizza aveva lasciato il posto a una ben gradita distensione.
Solo in quel momento ci rendemmo conto che stava nevicando e che aveva iniziato già da tempo considerato il tappeto bianco che si era formato in terra.
Sentii freddo all'istante e rabbrividì. Mi cinsi le braccia al torace per tentare un minimo di riscaldarmi ma fu quasi del tutto inefficace.
«Sono molto affranto per quello che vi è successo. Le mie parole sono oneste e il mio rammarico sincero.»
«Ne sono consapevole Vostra Maestà, e perdonatemi per le cattive parole che vi ho rivolto. Il dolore ha annebbiato la mia vista.» mi sentivo un cucciolo abbandonato e indifeso.
Non che io avessi dimenticato tutto di un botto la collera e la bile amara che mi aveva provocato il suo gesto, ma era niente di meno che il mio sovrano e non avrei potuto continuare a cavalcare l'onda della scontrosità troppo a lungo.
«La rabbia a volte può fare brutti scherzi.» aggiunse e io annuii in segno di condivisione.
«Penso che ora sia meglio...»
Stavo per terminare la frase quando inaspettatamente Carlyle si avvicinò con impeto, puntandomi con i suoi occhi cerulei e all'apparenza ubriachi.
Mi prese la testa tra le mani e, con una velocità che non mi sarei mai aspettata, poggiò la sua bocca sulla mia.
Sentii il tenue tepore delle sue labbra diffondersi sul mio corpo e il respiro affannoso rimbalzare sul mio viso.
Il dolore, la sofferenza e l'oblio scomparvero in un attimo. Al loro posto percepii un forte calore avvolgermi tutte le membra, un leggero formicolio partirmi dalle dita e lacrime sgorgarmi dagli angoli degli occhi. Lacrime di incredulità, di appagamento e di libertà.
Il suo sapore, lavanda e biancospino, infilatosi nelle narici raggiunse la mia mente e vi si impresse.
Il suo ardore non terminò immediatamente. Spostò le mani dietro la nuca, le infilò tra i miei capelli e attirò ancora di più la mia testa verso la sua.
Dal canto mio non sapevo cosa fare.
Quasi mi avesse letto nella mente si staccò e mi fissò per poi avvicinarsi e baciarmi di nuovo, questa volta con maggior vigore e desiderio.
Quello che provai nel mentre fu dolore psichico, un dolore piacevole che più mi veniva inflitto più ne apprezzavo la presenza.

All'improvviso, tornato in sé, mi spinse e si allontanò di qualche passo con espressione incredula.
«Cosa vi prende?» reagii intimorita.
«Io...Io...scusate...davvero. Non so cosa mi sia preso...» si guardò nei paraggi per assicurarsi che nessuno ci avesse visto, poi si portò la mano alla bocca a dimostrazione che aveva preso coscienza di quello che aveva appena fatto.
Aveva la faccia spaventata, incredula e timorosa.
«Per favore non agitatevi.» in realtà io ero molto più preoccupata di lui.
«Vi prego, fate finta che...» balbettò.
«...che non sia successo niente.» aggiunsi io.
Mi guardò con occhi sbarrati e mi puntò l'indice contro.
Esatto, fu ciò che mi rispose.
L'uomo vulnerabile, come si era mostrato per la prima volta, mi salutò in maniera sbrigativa e se ne andò a passi veloci.

Ero rimasta sola.
Io, la neve che continuava a poggiarsi copiosa e una figura nera che presto perse le sue sembianze umane in lontananza.

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