Capitolo 20
La gamba si era gonfiata e aveva raggiunto circa il doppio delle dimensioni di quella sinistra. Era riuscito a risalire sul calesse con molta difficoltà, scortato da due dei suoi compagni che avevano preso il coraggio sufficiente per uscire dalla loro situazione di stallo. Nel frattempo aveva chiesto al cocchiere di procurargli qualche bastone abbastanza lungo così da poter mantenere la gamba in una posizione stabile.
Ormai lo aveva capito, se l'era rotta.
Si sfilò la camicia e rimase con addosso solo la casacca a protezione dal freddo. Prese i due bastoni che gli erano stati consegnati e ne posizionò uno a entrambi i lati della gamba, stracciò quindi la camicia e la legò ben stretta intorno al suo arto, sulla parte della coscia e su quella del polpaccio.
Il dolore che provava non lo avrebbe lasciato fino a quando non avesse trovato un medico che gli avrebbe suggerito una soluzione alternativa a quella che aveva trovato lì per lì. Di questo se ne sarebbe parlato però solo una volta arrivati al campo. Fino ad allora sarebbe quindi rimasto abbandonato alla sua sventura.
Il dolore fisico non impegnò troppo la sua mente quanto fece invece il pensiero di essere momentaneamente inabilitato ad adempiere la mansione per la quale era stato chiamato.
Pensò che molto probabilmente sarebbe stato esonerato dalla battaglia in campo fino al giorno in cui non sarebbe stato in grado di reggersi in piedi sulle sue gambe. Un soldato con una gamba rotta a poco sarebbe servito e di certo il suo sarebbe stato un martirio inutile.
Poteva pertanto riuscire a trovare fortuna in quella situazione cosi debilitante? Avrebbe evitato un futuro quasi certo?
Il viaggio finalmente arrivò a conclusione.
Arrivarono a Rochefort la sera prima del crepuscolo e si sistemarono nel campo che avrebbe dovuto ospitare lui e i suoi commilitoni durante tutta la durata del conflitto.
Aveva studiato un modo per scendere da quel mezzo che non comportasse ulteriore dolore, tuttavia più provava a fare qualche movimento più la sua gamba gli ricordava che era rotta.
«Volete che vi dia una mano?» accennò una voce dietro di lui.
Si voltò e vide un uomo corpulento che non aveva mai visto e che probabilmente si trovava in quel luogo da molto prima di lui.
«Mi fareste davvero un favore.» rispose Hector con sollievo. Non solo c'era qualcuno disposto ad aiutarlo - finalmente - ma forse avrebbe scambiato qualche parola con un'anima viva da dopo la sua partenza, che non fosse stata la solita parola di circostanza.
«Venite, avvicinatevi all'estremità.»
Hector si fece in avanti trascinando il sedere sul legno, aiutandosi con la gamba sinistra e proteggendo l'altra sollevandola come poté da terra.
«Appoggiatevi alla mia spalla.» continuò questo.
Fece come gli aveva suggerito.
«Io sono Maximilian.» esordì l'uomo mentre afferrava il braccio di Hector e se lo avvolgeva attorno al collo.
«Hector. Piacere di conoscervi, Maximilian.»
La sua nuova conoscenza gli fece cenno di allungargli anche la gamba sinistra e così fece. Lo sollevò di peso e fece in modo che riuscisse a rimanere in piedi da solo.
«Adesso avrei bisogno proprio di qualcosa a cui appoggiarmi per poter camminare.» Hector sperò di non risultare troppo esigente, tuttavia Maximilian era l'unico che si era degnato di aiutarlo in un manipolo di migliaia e migliaia di uomini.
«Avevo già pensato a tutto.» affermò con tono soddisfatto.
«Dunque sapevate che ero in queste condizioni da ancor prima di vedermi.» rispose Hector ammiccando una risata. La prima risata del giorno.
«Quando siete qui da settimane e non sapete come impiegare il tempo iniziate a prestare attenzione anche alle api che succhiano il nettare.»
Maximilian allungò a Hector due pertiche in legno, questi le prese e le mise sotto le ascelle. A quel punto poteva quasi ritenersi autosufficiente.
Cominciò a fare qualche passo per prendere dimestichezza con i suoi nuovi deambulatori e poi, una volta sentitosi fiducioso, pensò di scambiare qualche chiacchiera con la sua nuova conoscenza.
«Ditemi Maximilian, di dove siete? Il vostro accento non mi è familiare.»
«Sono della contea di Norfolk, di Norwich per la precisione.»
«Dunque siete inglese.»
«Nel sangue e nello spirito.»
«E voi invece?»
«Io sono del Principato di Sommerseth.»
«E siete un tipo di campagna immagino.»
I due avevano già iniziato a incamminarsi verso l'accampamento con andatura lenta affinché Hector potesse stare al passo.
«Esattamente, non vivo a Sommerseth Town. Quel posto non fa per me.»
«Antimonarchico?» Maximilian strappò un pezzo di pane secco che aveva cacciato dalla sua bisaccia e ne offrì una parte anche a Hector, che però rifiutò.
«No assolutamente, però preferisco il rumore della campagna a quello dei politici in Assemblea.»
«Siete un tipo tranquillo dunque. Al contrario, io preferisco quello delle baionette e delle canne mozze.»
«Date l'impressione di essere contento di essere qui, al contrario del sottoscritto!» con la loro andatura claudicante erano quasi arrivati all'accampamento. Era un campo molto grande e avrà ospitato all'incirca un centinaio di padiglioni, o anche di più. Si osservava da lontano un via vai continuo di uomini che si spostavano da una tenda all'altra, altri che invece intonavano canti intorno al fuoco, altri ancora che invece, inebriati dai fumi dell'alcol, pisciavano davanti a tutti senza pudore.
«Sì, a essere onesto mi sono offerto volontario.»
«Perbacco! Avessi potuto io sarei rimasto in campagna.»
«Il vostro principe, dalle voci che girano, non è stato molto clemente devo dire.»
«Eppure c'è chi dice che se sono qui devo anche ritenermi fortunato. Voi lo pensate? Avrà avuto fiducia nelle mie capacità.» si guardò la gamba e sussurrò tra sé «capacità che se comprovate ora non mi sarebbero di grande aiuto.»
«Più che lui credo i suoi burocrati avranno cercato in voi delle capacità.» sottolineò Maximilian.
«E ditemi, avete lasciato qualcuno ad aspettarvi a Norwich?» Hector sperò di non aver esagerato nel prendersi tutta quella confidenza.
«Io? No, nessuno.» scrollò la testa in qua e in là, come a ricordarsi della sua solitudine.
Hector si sentì così in imbarazzo.
«Perdonate la mia domanda, Maximilian.»
«Scherzate! Avevo in realtà qualche anno fa una moglie ma è morta di parto e il bambino insieme a lei. La guerra almeno mi distrae.»
«Vi manca?»
«Mia moglie intendete?» Hector annuì.
«Mi piacerebbe, ma non abbiamo passato sufficiente tempo assieme tale da stringere un siffatto legame da provare tristezza in sua assenza. La guerra indurisce il cuore e inaridisce l'anima» seguì un attimo di silenzio «e voi invece? Parlatemi di voi.»
«Io ho lasciato una moglie e due figlie.» Maximilian notò l'espressione corrucciata che il volto di Hector assunse.
«E sperate di rivederle?»
«Sono la mia famiglia.»
«Non sperateci tanto invece. È bene che vi metta in guardia.»
«So perfettamente come funziona la guerra e non è la prima volta che vi prendo parte.»
«Difendersi è già difficile in condizioni normali, immaginate ora con quella gamba.»
«Quando sarò guarito sarà tutto più facile, vedrete.»
Maximilian scoppiò a ridere e si portò una mano agli occhi, incredulo delle parole che aveva appena ascoltato.
Arrivarono al campo e si congedarono. Maximilian gli spiegò prima di andarsene che le tende bianche ospitavano soldati inglesi mentre quelle rosse erano riservate ai soldati di Sommerseth.
«Confido che nei prossimi giorni avremo modo di passare del tempo assieme. Siete l'unica persona che conosco fino a ora...»
«Nei vostri momenti vuoti potete venire nella mia tenda» si girò verso l'orizzonte «è quella lì in fondo» ne indicò una con una bandierina gialla fissata sulla punta «quella dalla quale è uscito da poco il vostro comandante.» Hector fece cenno di averla individuata.
«Allora a domani, Maximilian.»
«A domani, Hector. E che sia un giorno migliore di questo.» Lo salutò con un cenno di mani e poi si voltò, diretto al suo alloggio. Hector rimase a fissarlo fino a quando la sua figura non fu offuscata in lontananza dai bagliori del crepuscolo. Decise allora che era arrivato il momento di coricarsi.
Quello che in quel momento doveva cercare di capire era in che tendone si sarebbe accampato. Probabilmente era sufficiente entrare e chiedere se ci fosse un posto libero, pensò. E così fece.
Entrò proprio nel tendone di fronte a lui ed ebbe fortuna perché, come gli disse un soldato che era all'interno, si era liberato un posto proprio quella mattina. Poi che cosa intendesse dire per liberato, Hector non lo volle sapere.
Si sedette sulla barella che nei giorni successivi lo avrebbe accolto e iniziò a spogliarsi, stanco per la giornata e per la gamba che aveva sforzato fino a quel momento. Nel tendone si respirava un'aria mite, alcuni dei suoi commilitoni dormivano già, altri invece mormoravano con il compagno della barella di fianco, ma nessuno parlava con tono abbastanza forte da disturbare gli altri.
Quella calma fu però interrotta d'un tratto dall'ingresso del comandante Ferguson.
Era un uomo sulla cinquantina, non eccessivamente alto ma dallo sguardo fiero e forte, capace di intimorire qualsiasi soldato in battaglia.
«Soldati, un momento di attenzione!»
Tutti si alzarono in piedi facendo il tipico saluto da soldato, solo Hector ci mise più tempo degli altri.
«Con il comandante Mordaunt abbiamo deciso di tendere un'imboscata ai francesi nel loro accampamento a qualche miglio da qui.»
Un vociare sommesso si levò. La notizia aveva destato abbastanza scalpore.
«Ma un attacco all'accampamento nemico è contro la legge della guerra!» esclamò un soldato nella mischia.
«Soldato Jones ditemi, non è la stessa guerra la più grande violazione della legge?»
Questi, seppur non convinto della risposta ricevuta, abbassò il capo in segno di rispetto.
«Se l'uomo si permette di violare la legge divina del non uccidere non esistono allora leggi più in basso che non possano essere infrante.» si guardò intorno per trovare il soldato che aveva preso la parola e dopo averlo individuato riprese «Ritenete pertanto che la legge dell'uomo sia più meritevole di rispetto della legge divina?»
Questi, in evidente imbarazzo, provò ad articolare qualche parola per riemergere dal gioco di parole in cui era caduto vittima. Non trovando alcuna risposta si limitò a dissentire e a dire, non credendoci poi del tutto, che non esisteva legge umana che non potesse essere violata.
«Voi siete qui» riprese il comandante «per servire la vostra corona. Grande rispetto si riserva a quegli uomini che cadono in battaglia per difendere la propria patria. Molti di voi non torneranno a casa, molti altri invece preferiranno perdere la vita sul campo di battaglia piuttosto che essere condannati a un destino di ricordi e di dolore per mano del nemico.»
Un strepito si sollevò tra i camerati.
«Tra due giorni daremo il via alla nostra spedizione. Godetevi il vostro ultimo giorno di riposo e trascorretelo facendo ciò che più vi piace. Il dio Marte vi chiama!» il comandante Ferguson stava per uscire dal tendone, accompagnato dagli applausi e dal frastuono dei soldati che quasi non vedevano l'ora di scendere in campo, quando la voce di Hector riecheggiò sopra tutti gli altri rumori.
«Comandante Ferguson!» questi si girò, cercando la voce di colui che l'aveva chiamato. «Perdonate, io quando sarò in grado di accompagnare i miei compagni?»
Il comandante guardò la condizione dell'uomo e poi rispose impassibile «Come ho già detto, tra due giorni.» Non era proprio quella la risposta che Hector si sarebbe aspettato. Aveva posto la domanda in modo tale da veicolare un suo falso interessamento nella questione il quale tuttavia non avrebbe potuto realizzarsi considerando la sua momentanea condizione fisica.
«Perdonatemi comandante, come pretendete che io possa essere d'aiuto in queste condizioni?»
«Lo sarete più sul campo di battaglia che a poltrire sulla barella.»
«Vi prego, sarebbe una morte preannunciata!» Hector tratteneva a stento le lacrime.
«E ditemi, è per caso in salvo la vita di qualsiasi altro uomo presente qui insieme a voi?»
«Comandante ve lo chiedo per favore, datemi almeno un po' di tempo per rimettermi in sesto. Il tempo necessario almeno per riprendere a camminare senza supporto!» Non sapeva che cosa avrebbe ottenuto lamentandosi così. I suoi compagni lo guardarono con disprezzo, non concependo come potesse lamentarsi per rimanere a riposo mentre gli altri perdevano la vita su suolo straniero.
«Sua Maestà il principe ha pagato affinché voi siate dopodomani in battaglia e non per farvi fare una vacanza tra le montagne francesi.» Detto questo si voltò e uscì.
Trascorse l'indomani insieme a Maximilian. Passarono l'intera giornata a chiacchierare e, per quanto si fossero conosciuti solo la sera prima, già si consideravano amici di lunga data. Se quello fosse stato il suo ultimo giorno sulla terra, allora ne avrebbe avuto un buon ricordo.
Si alzò quando il sole non era ancora sorto. Non dovette perdere tempo a rivestirsi perché aveva dormito senza neanche togliersi le scarpe. Aveva un brutto presentimento per quella giornata, una sorta di presagio. Recitò una preghiera con fare scaramantico, cosa che non faceva da molto tempo, con la speranza che quella brutta sensazione che gli aveva impadronito la testa potesse andare via.
Uscito dalla tenda notò che l'accampamento versava in una calma che non si sarebbe aspettato. Soprattutto notò una cosa: degli inglesi neanche l'ombra. Dormivano ancora.
Quello di cui si rese conto fu che pronti per la spedizione erano solo i suoi connazionali.
Capì una cosa allora. I miliziani di Sommerseth avrebbero teso un'imboscata alle truppe francesi solo per decimarne un po' il numero. Erano, in fin dei conti, pronti al martirio.
La sensazione con il quale si era svegliato in fondo non era così sbagliata.
La disperazione lo avvolse. Senti il petto diventare estremamente pesante e il respiro farsi affannoso. La faccia gli avvampò e tutto iniziò a girargli attorno. Si buttò per terra a pancia in su per trovare un po' di quiete ma anche il cielo prese a girare.
Iniziò a piangere e per poco pensò di morire soffocato dall'incapacità, in quel momento, di alternare i respiri a lamenti di sofferenza.
«Alzatevi! Alzatevi ho detto!» sentì una gamba colpirlo ripetutamente al busto.
Prese quel poco di forza che gli era rimasto, accartocciò i suoi pensieri e le sue paure e si incamminò insieme agli altri verso il destino che lo aspettava.
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