Capitolo 2
Mi svegliai all'improvviso con una sensazione di bagnato nel letto. Scoperchiai le lenzuola e vidi il materasso macchiato di sangue.
«No, dannazione!» mormorai tra me e me. Quel mese le mestruazioni erano tornate in anticipo.
Mi alzai in fretta e furia per evitare di peggiorare il danno e misi un asciugamano tra le gambe ben accostato. Era l'ultimo rimasto. Avrei dovuto lavarne di nuovi per i giorni a venire.
Andai in bagno per lavarmi il viso e rimasi a osservarmi per qualche secondo allo specchio. Notai che mi stavo trasformando in una giovane donna e di piacevole aspetto per giunta. I miei capelli erano cresciuti molto nell'ultimo anno e avevano assunto anche delle sfumature dorate che ben si abbinavano al mio castano chiaro. Erano spuntate ancora più lentiggini e, sebbene le avessi tanto odiate nei primi anni dell'adolescenza, iniziai ben presto ad apprezzarle e a considerarle il mio segno particolare. La cosa che apprezzavo più di me però erano i miei occhi verdi: non avevano il consueto color smeraldo ma erano molto chiari, simili al colore dell'acqua che scorre in un ruscello o a quello delle prime foglie che fanno capolino in primavera .
Feci un sorriso perché gradivo quello che avevo davanti ma durò ben poco poiché una voce di castigo mi costrinse a smorzarlo subito. Mia madre mi aveva insegnato che la vanità storce la ritta via e che l'avanzare dell'età un giorno ci avrebbe resi tutti uguali.
Mi destai da quei pensieri, presi il catino con l'acqua e lo portai giù in cucina per scaldarla. Stava iniziando ad arrivare la stagione autunnale e non provavo più piacere nel lavarmi il viso con l'acqua fredda.
Dopo averla intiepidita, risalii in bagno e iniziai a lavarmi. Strinsi le mani a mo' di cunetta, come quando si beve e non si ha a disposizione un bicchiere.
Rimasi ad osservare il mio riflesso nell'acqua.
Avevo ormai diciassette anni e alla mia età potevo già considerarmi vecchia. A differenza mia le mie coetanee si erano già da tempo sistemate.
Io non avevo ancora figli.
E di certo non conoscevo uomo.
Non mi ero neanche impegnata a cercare qualcuno, non ne sentivo quasi il bisogno. Sapevo che più tempo passava più sarebbe stato difficile sposarmi, eppure non concepivo quel destino obbligato riservato alle donne della periferia: sposarsi, fare figli e accudire i nipoti.
I miei genitori, che si erano sposati perché uniti da un sentimento vero e non imposto, non mi avrebbero di certo obbligata a un futuro che non avevo scelto io. Almeno questo credevo.
Avevo sin da subito pianificato una vita in cui io ero al centro.
Io e nessun altro.
L'indipendenza di una donna era cosa alquanto astratta e impensabile. Le donne che avevo conosciuto erano sempre vissute all'ombra di qualche uomo, marito o padre che fosse.
Non era questo il mio progetto.
Il mio piano era sempre stato quello di vivere dei miei sforzi. Avrei presto lasciato casa dei miei genitori e se fossi riuscita a permettermelo avrei cercato di comprare una piccola fattoria, l'avrei arredata a mio piacimento e avrei acquistato qualche pecora o capra. Avrei avuto il mio piccolo orto e, raggiunta la sera, avrei ringraziato il Signore per ciò che mi aveva concesso.
Credetti per molto tempo che la vita matrimoniale non fosse cosa che mi si addicesse: per quanto fosse impreziosita di momenti gioiosi, era macchiata anche da periodi bui e sofferenti. Questo avevo avuto modo di sperimentarlo in prima persona nella mia famiglia.
Erano passati solo pochi anni, tuttavia avevo pochi ricordi di quello che l'ultima rivoluzione giacobita volle significare per mia madre. E questo solo per colpa di un gruppetto di scapestrati - così li chiamava nonna Rosalie - che voleva riportare sul trono del Regno di Gran Bretagna il casato degli Stuart.
Ricordo che il giorno in cui mio padre venne chiamato alle armi pioveva, scherzo del destino per rappresentare al meglio quello che doveva aver provato mia madre il momento in cui sentì proferire quelle parole dalla bocca di suo marito. Lo strazio per le donne che rimanevano a casa era quello di sapere quando sarebbe stato il giorno della partenza del loro amato, fratello, padre o cugino; ma non il giorno del ritorno. Soprattutto non sapevano se quel giorno sarebbe mai arrivato.
Lasciare a casa le donne era normale. Loro si sarebbero occupate della semina, del raccolto e della prole soprattutto. Avrebbero accettato di crescere dei figli anche senza una figura paterna, sebbene fossi sicura che mia madre non pensava che quella fosse una cosa naturale. Gli uomini avrebbero combattuto sul campo di battaglia e i più sfortunati vi avrebbero perso la vita. Stava alle donne poi subirne le conseguenze: anche qui si sarebbero rivelate succubi di una decisione piombata loro addosso, senza possibilità di scampo.
L'acqua si stava raffreddando così mi lavai in fretta il viso. Mi sbottonai la camicia da notte e mi bagnai anche il collo. Presi l'unguento di lavanda che mia madre aveva preparato qualche giorno prima e lo passai delicatamente con movimenti circolari sul viso, sul collo e sul petto. Aveva un buon profumo e avrebbe sicuramente idratato a fondo la pelle.
Andai in camera e mi vestii. Indossai la camicia bianca che nonna Rosalie aveva cucito per me qualche anno prima e che di fatti mi andava un po' stretta, un corpetto di pelle marrone e una gonna lunga.
«Anthea, ne hai impiegato di tempo per prepararti!» puntualizzò mia madre una volta scesa in cucina «Lo so, mi sono fermata un poco a... riflettere.»
«Pensiamo ora alle cose serie. Il signor Patel ci ha commissionato un po' di formaggio e necessito che sia tu a portarglielo. Io e tuo padre saremo impegnati tutto il giorno quindi non possiamo recarci di persona. Sono sicura non arrecherai alcun disturbo.»
Da quando i Patel ci avevano concesso il prestito, i miei genitori avevano iniziato ad adottare nei confronti della loro famiglia un comportamento di eccessiva riconoscenza. Il prestito ci era stato comunque concesso ad un costo, prestito che i miei genitori avevano ancora difficoltà a ripagare.
Ero sicura che la forma di formaggio non era stata appositamente richiesta, ma che si trattava semplicemente di un dono, una preghiera implicita di elargire più tempo.
Presi la forma di cacio. Come profumava! Era di latte di capra e mia madre aveva avuto cura di aggiungere coriandolo ed erba cipollina. Avrei sinceramente preferito mangiarlo io piuttosto che doverlo regalare!
«Sarò di ritorno il prima possibile.» comunicai. Infilai il fagotto in una bisaccia e uscii.
Sebbene fosse una giornata leggermente fredda, in cielo brillava il sole e di nuvole neanche la minima traccia.
Avevo piacere a trascorrere del tempo da sola. Nessuno avrebbe potuto mettermi fretta e così ne approfittai. Per quanto fosse una strada che percorrevo quasi tutti i giorni da anni, quella volta me la presi con calma. Arrivata ad un punto tale che casa mia appariva solo come un piccolo puntino in lontananza, chiusi gli occhi e rimasi ad ascoltare.
Il cinguettio degli ultimi uccelli sui rami e non ancora migrati, il vento fresco tra le foglie degli abeti, lo scrosciare dell'acqua del torrente non tanto distante. E poi un tenue profumo di fiori di campo portato dal vento.
Respirai. Respirai a fondo.
Aprii gli occhi e continuai il tragitto.
Raggiunsi il torrente e mi fermai a bere un po' d'acqua. La mia attenzione fu catturata dal lento movimento delle piante acquatiche, trasportate in qua e in là dalla corrente.
Mi sentivo come quelle piante, lentamente curvate dall'acqua. Fino ad allora non avevo ancora preso una decisione tutta mia ma avevo sempre assecondato quelle che gli altri avevano preso per me. Decisioni naturalmente di poco conto che non avevano comportato chissà quali stravolgimenti alla mia quotidianità.
A un tratto fui distolta dal nitrire di cavalli in lontananza. Alzai lo sguardo e vidi due uomini a galoppo. Scostai la ciocca di capelli che era scivolata sul mio volto e la portai dietro l'orecchio. Uno di loro catturò la mia attenzione.
Era un uomo indubbiamente alto, a galoppo di un cavallo marrone dalle zampe bianche. Che cavallo particolare, pensai.
Strizzai gli occhi ma non fu semplice capire cosa indossasse. Da quel che riuscii a intuire era un uomo riccioluto, vestito con abiti scuri e con un lungo mantello nero che oltrepassava il ventre del destriero.
Notai che anche lui mi stava guardando.
Arrossii perché mi sentii scoperta. Forse si era reso conto che lo stavo osservando. Doveva sicuramente essere qualcuno importante dal momento che il suo accompagnatore indossava un'armatura così spessa da riflettere la luce del sole.
Con molta fretta mi alzai, scrollai l'erba dalla mia gonna e continuai il mio tragitto verso la casa dei Patel.
Raggiunta la dimora bussai al portone, in attesa che qualcuno mi aprisse.
Aspettai qualche secondo prima che venisse ad accogliermi la loro domestica.
«Salve, sono la maggiore dei Gleannes, sono venuta per consegnare questo presente a Andrew Patel.»
«Signorina, il signor Patel non è in casa al momento. Se volete c'è suo figlio.» e mi fece cenno di entrare.
Entrai per educazione, anche se il padrone di casa in quel momento era assente, e mi accomodai al tavolo del soggiorno dove la domestica mi aveva indicato.
Diedi uno sguardo intorno. Non avevo mai visto una casa così ben arredata.
Indubbiamente la famiglia Patel se la passava bene e ne erano a testimonianza i quadri appesi alle pareti, sicuramente fatti a pittura a olio - benché non me ne intendessi molto - l'argenteria nella credenza di fronte a me e il servizio di piatti di porcellana che forse i Patel avevano anche il coraggio di usare per le cene importanti.
Avessi avuto un servizio di porcellana di tale portata l'avrei maneggiato con i guanti per paura di romperlo, ma ai Patel non mancava di certo la ricchezza per comprane a bizzeffe.
«Buongiorno signorina Gleannes.» esordì un ragazzotto appena entrato nella stanza, presenza che mi distolse dal mio curiosare.
«Buongiorno, signor... » troncai la frase dal momento in cui non conoscevo il suo nome e non volevo di certo chiamarlo come avrei fatto con il padrone di casa.
«Orville, Orville Patel. Sono il figlio dei padrone di casa.» disse lui con tono soddisfatto mentre si accomodava sulla sedia di fronte la mia.
Orville avrà avuto una decina di anni in più a me. Lo osservai attentamente.
Era un ragazzo molto alto, un po' grassoccio. Aveva pochi capelli in testa, occhi grandi e scuri, guance paffute e labbra molto carnose e rosse. La prima impressione che ebbi fu quella di un ragazzo che non aveva problemi a scegliere cosa mangiare, che anzi, si permetteva il lusso di lasciare avanzi nel piatto. Il suo stomaco rigonfio ne era testimone.
«Piacere di conoscervi...Orv...Orville. Posso chiamarvi per nome vero?» chiesi io un po' titubante e con la paura di avergli mancato di rispetto.
Scoppiò in una fragorosa risata.
«Certo Anthea, anche per me non sarai mai Miss Gleannes.» aggiunse.
Rimasi un poco allibita da quella sua affermazione.
Almeno io avevo mostrato la mia difficoltà nel rivolgermi a lui con il suo nome, lui invece mi avrebbe chiamato senza titoli a prescindere. Non la reputai cosa molto appropriata, soprattutto per due persone che si erano conosciute da poco.
«Bene, Orville, sono venuta a portare a vostro padre la forma di formaggio che ci aveva commissionato. Spero apprezzerete, è fatto con il latte delle nostre capre.»
«Non sapevo avremmo avuto formaggio per cena. Mio padre non mi aveva detto nulla.» rispose lui, corrucciando gli occhi.
Lo sapevo. Quel formaggio era solo un dono, non era stato ordinato.
Srotolai la forma dal panno in cui mia madre lo aveva avvolto e glielo porsi con cura. Lui lo guardò inespressivo, poi lo annusò e lo poggiò sul tagliere vicino al lavello, pronto per essere affettato. Non ero riuscita a capire se quel presente era stato gradito o no.
Dopo aver ripiegato il fazzoletto e averlo riposto nella bisaccia mi rivolsi ad Orville e con un sorriso dissi «Vi ringrazio per la vostra ospitalità. Tolgo il disturbo così che voi possiate tornare al vostro lavoro. E per favore, porgete i saluti a vostro padre da parte nostra!»
Feci per alzarmi ma lui mi bloccò con la mano.
«Dove vai Anthea, sei appena arrivata. Viviamo a due passi eppure ti ho vista così poche volte!» si risedette sulla sedia e incrociò le braccia, a segno che aveva intenzione di dare il via a una lunga conversazione.
«Signore, sono lusingata dalla vostra cordialità ma purtroppo mi trovo a dover declinare il vostro invito. Temo che i miei genitori possano iniziare a preoccuparsi se non mi vedessero rientrare.» il tono della mia voce si fece tremolante. Temevo di mancare di rispetto al padrone di casa ma purtroppo quella permanenza non era stata preventivata.
«Anthea, insisto affinché tu rimanga! Ecco!» e mi porse un bicchiere di vino rosso, dal colore scuro e dall'odore pungente. Sarà sicuramente stato vino di loro produzione.
«Oh no, no vi prego. Non bevo vino e non sono stata abituata a farlo.» sperai di non esser risultata sgarbata ma non sapevo che effetto avrebbe avuto il vino su di me, che non ero abituata a farne uso.
«Questa cosa non mi fa piacere. Devo in qualche modo sdebitarmi per la tua...piacevole... visita. C'è qualcosa di tuo gradimento che posso offrirti?» si girò per perlustrare la credenza.
Puntò l'idromele.
No, l'idromele no. Lo avevo assaggiato una volta a casa di nonna Rosalie e non mi era piaciuto affatto.
«Orville, ditemi» feci io per chiamarlo a me e per distogliergli l'attenzione dall'idromele «presumo che in questi anni voi siate stato via di casa, dal momento in cui abitiamo a poche miglia di distanza e non ero neanche a conoscenza della vostra esistenza.»
«Io lo ero della tua però» disse facendosi una risata. Quella frase mi creò un lieve malessere.
«Hai ragione comunque» continuò «ho fatto il marinaio per circa dieci anni sulla Maryland e questo non mi ha permesso di constatare che bei fiori stavano sbocciando qui a Sommerseth .» si leccò il labbro.
Mi resi conto che stava spostando lo sguardo sul mio seno. Come gesto istintivo lo coprii come potei con i capelli. Ringraziai che erano lunghi abbastanza.
«E ditemi... che tragitto percorre la Maryland?»
«Le Indie» rispose lui con tono secco. Era evidente che non era quello il genere di discorsi che gli interessavano.
A quel punto avevo esaurito gli argomenti. Non sapevo più cosa domandare. D'un tratto si alzò.
Iniziò a girare per la stanza in maniera frenetica, massaggiandosi il collo e le mani. Si avvicinò al vetro della finestra che dava sul cortile e perlustrò per bene l'esterno, come se volesse sincerarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi. Chiamò la domestica una, due e tre volte e dopo che questa non rispose neanche dopo la quarta volta si rese conto che non poteva essere nei dintorni.
«Mi farebbe piacere conoscerti meglio, sai?»
«Orville, avremo sicuramente modo in futuro e senz'altro potrete raccontarmi in maniera più approfondita delle vostre avventure sulla Maryland.» risposi con un accenno di sorriso. Forzato, senza dubbio.
Mi convinsi che Orville non aveva ascoltato mezza parola di quelle che avevo detto poiché troppo occupato a dare retta alle sue fantasie. Aveva in mente qualcosa di oscuro e il mio sesto senso mi fece presagire che non fosse nulla di buono.
Si avvicinò verso il tavolo della stanza e iniziò ad accarezzarlo con la mano, in movimenti circolari.
«Sei promessa a qualcuno, mia cara?»
«No. Per ora non è questo il genere di pensieri che mi occupano la mente.» risposi secca e agitata.
«Mi chiedo come mai qualcuno come te non abbia ancora trovato uomo, forse nessuno ti nota e su questo ho i miei dubbi» sorrise accentuando il grigiore dei suoi denti «o forse vuoi apparire agli occhi della società come una donna tanto pura e ingenua così da poter accalappiare i migliori scapoli di Sommerseth.»
«Ciò che state dicendo, signor Patel» dissi io rimarcando il signor Patel con tono grave, per sottolineare ancora di più la distanza che c'era tra me e quello sconosciuto «è alquanto inopportuno e privo di sostanza. Come vi ho già detto, la mia famiglia mi starà di certo aspettando e non è affatto mia intenzione far stare in pensiero i miei genitori. Con permesso.»
Non appena feci per alzarmi dalla sedia, Orville si scaraventò sulla porta per chiuderla.
A chiave.
Quel gesto fece scattare in me campanelli d'allarme. Mi sentii pesante come una pietra. Incapace di alzarmi o di proferir parola.
Si avvicinò e appoggiò la sua mano sulla mia spalla.
Con l'altra spostò i miei capelli per rendere visibile il collo e si accostò con il viso.
Inspirò per cercare di carpirne il profumo.
Espirò soddisfatto.
Il mio collo si era irrigidito tanto da non riuscire al deglutire la saliva. Digrignavo i denti e i miei respiri si erano fatti corti.
Improvvisamente la mano che aveva appoggiato sulla mia spalla scivolò lentamente in basso. Verso il mio seno.
Abbassai lo sguardo in maniera quasi meccanica per accertarmi che quello che i miei sensi avevano percepito fosse veramente reale. Quando constatai che sì, stava oltrepassando il limite del consentito, presi una forza che non sapevo di avere. I muscoli delle braccia divennero rocce e feci per alzarmi ma quell'uomo mi strinse per il collo e mi riportò sulla sedia.
«Cosa pensavi di fare? Non essere maleducata! Sei appena arrivata e già vuoi andartene? Sei graziosa, attraente. Come te ne ho avute tante e nessuna mi ha mai rifiutato. Non sarai di certo la prima. E lo dico per te, non oppormi resistenza se non vuoi che ti faccia male.»
«Ve ne prego, lasciatemi andare. Non voglio, non voglio!»
«Lasciarvi andare? Siete matta? Quando mi ricapita un bocciolo come voi tra le mani?» e nel proferire queste parole agghiaccianti spostò la sua mano lungo la mia coscia.
Un gatto rosso sbucò da sotto la credenza, probabilmente svegliato dal ruggire del mio cuore nello sterno. Non appena Orville venne distratto dal rumore dei cocci in terra, mi alzai di scatto e mi fiondai verso la porta. Dopo aver fatto fare uno scatto alla chiave e poi anche un altro, con un tono educato che mal si sposava con quell'uomo, esclamai ancora con le lacrime agli occhi «Signor Patel credo che voi abbiate frainteso, interpretando qualcosa che non era mia intenzione trasmettervi. Non credo che i vostri vicini vogliano essere disturbati dalle grida di una povera ragazza, che si trova nel posto giusto al momento sbagliato. Con permesso, mi dirigo verso casa!» abbassai lo sguardo in segno di saluto e feci per congedarmi.
Notai che sul volto di Orville comparve un miscuglio di rabbia e impreparatezza. Fu la prima volta da quando ero entrata in casa sua. Ero sicura che non avesse preventivato che la situazione potesse finire a mio favore e che soprattutto potessi reagire se le cose si fossero spinte troppo oltre. L'aver gettato un'occhiata fugace alla finestra sarebbe potuto non bastare ad evitare di venir scoperto.
«Signorina credo che tu mi stai accusando di qualcosa che non è successo. Sono sicuro che non avrai il ben che minimo interesse a raccontare a quei pezzenti dei Gleannes ciò che non è accaduto. D'altronde nessuno ti crederebbe.»
Lo guardai con il volto ingrigito dalla rabbia, girai la chiave nell'uscio.
«E per favore comunica ai tuoi genitori che non sarà una forma di formaggio a compensare tutto il debito che la tua famiglia porta avanti con i rispettabili Patel.»
«Con permesso!»
Era la terza volta che lo ripetevo. Uscii e sbattei la porta, con la speranza di non incontrarlo più.
Aveva iniziato a piovere. In quel momento le mie lacrime si mischiarono con le gocce d'acqua che scendevano copiose dal cielo.
Volevo raggiungere casa mia il prima possibile. Temevo che Orville mi avrebbe raggiunta così iniziai a correre il più veloce possibile.
Inciampai nelle radici di un albero ma mi rialzai subito perché la mia corsa non era finita.
Sebbene il fiato si fosse fatto corto le mie gambe continuarono ad alternarsi alla stessa frequenza fino a quando, in lontananza, scorsi casa mia.
In quel momento quella piccola casa nella radura era il faro in un mare in tempesta, mentre io ero la barca senza remi che rischiava di affondare.
Aprii la porta di casa con impeto e mi precipitai sul mio letto, il mio porto sicuro.
Lì diedi sfogo alla mia disperazione.
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