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Capitolo 11 - prima parte

In quei giorni Marfa aveva continuato ad apparire e scomparire, come i raggi del sole tra le nuvole di un giorno che preannuncia tempesta. Dal canto mio preferii non fare domande, consapevole del fatto che la mia eccessiva curiosità sarebbe potuta risultare poco consona e avrebbe potuto finire per renderla nervosa. Per quanto io iniziassi a nutrire per lei affetto, era solo un mese che ci conoscevamo e di certo non mi sarei potuta permettere di prendere confidenze che si addicevano più ad amiche che si conoscevano da anni.
Quella sera mi ero recata di buon grado nella sala da pranzo della servitù, in attesa che servissero il pasto. Sebbene l'orario della cena fosse di gran lunga anticipato rispetto a quello a cui ero abituata a casa mia, quel giorno l'appetito mi aveva impossessato le viscere così che pensai che presentandomi in anticipo avrei goduto del privilegio di essere servita per prima. Da quando ero arrivata a Corte non mi ero mai lamentata del cibo. Mangiavo carne più del dovuto e le patate, a cui ero stata tanto abituata, venivano servite ogni tanto come semplice contorno, ovviamente sempre insaporite con del prezzemolo. Dall'odore che giungeva dalle cucine sembrava che la cuoca stesse preparando del bollito.
Ah come mi sarebbe piaciuto gustare un buon pezzo di carne di manzo accompagnato dalle verdure autunnali!
Ero lì ferma, seduta al lungo tavolo in mezzo alla sala, che sentii entrare Marfa con il fiatone. Mi girai e la vidi poggiata all'uscio, intenta a respirare quanta più aria possibile per riprendersi un poco. Era visibilmente scossa.
«Marfa, cosa succede?»
«Niente Anthea, devi farmi un favore.» rispose, alternando una parola a un respiro.
«Dimmi e vedrò cosa fare.»
«Oh buon Dio per fortuna!»
Si passò le mani sulla fronte sudata, spostando involontariamente la cuffietta e lasciando uscire parte delle sue ciocche corvine.
«Ho bisogno che ti rechi nel giardino botanico in fondo al Canalone centrale, ho dimenticato le chiavi della nostra stanza!»
«Proprio le chiavi dovevi dimenticare!» sbattei con forza la mia mano sulla faccia e scossi la testa «e se qualcuno per sbaglio le fa cadere da qualche parte in cui né io né tu siamo in grado di ritrovarle?»
«Lo so, hai perfettamente ragione.» rispose lei con aria mortificata.
«Luogo migliore in cui dimenticarle non potevi sceglierlo.»
Non ce ne sono copie. Ricordai le parole di Sir Jacques e di certo mi sarebbe piaciuto rientrare nella mia stanza per la notte.
«Hai ragione... per la seconda volta! Sono stata molto sbadata! Mi sono resa conto di averle dimenticate solo una volta rientrata a palazzo.»
Iniziai a squadrarla, perché secondo me c'era qualcosa che non tornava. Non che avessi intenzione di cambiare discorso ma la domanda, ahimè, sorse spontanea.
«Marfa, per quale motivo ti sei recata nel giardino botanico?»
In quella settimana Marfa era di turno nella lavanderia, dunque era molto strano che avesse trovato il tempo di recarsi nella serra. Di tutto contro lei mi rispose con la tranquillità che si addice a chi dice la verità.
«Perché sir Jacques ha voluto che io e la signorina Grenn ci occupassimo dell'annaffiatura delle piante di basilico e insalata. Sarebbe stato compito della signorina Grenn in realtà, ma in due avremmo fatto prima. E poi tu, stai per caso facendo le veci di Théodore?»
Scoppiai a ridere. Non avrei avuto di che controbattere e probabilmente stavo solo viaggiando eccessivamente con la fantasia e con il mio spirito da investigatore.
«Mmh...certo non ci sono problemi. Vado subito allora» le feci l'occhiolino «sebbene avrei preferito che non ti fossi dimenticata nulla.»
Non che mi infastidisse recarmi nella serra, ma eravamo in autunno inoltrato e come se non bastasse si stava facendo sera, non mi elettrizzava di certo uscire. Per di più bramavo il bollito che cuoceva in pentola e l'idea che al mio ritorno sarebbero rimaste solo le cartilagini non mi entusiasmava.
«Sono consapevole di questo, è subentrata un ordine commissionato direttamente dalla principessa, e non riuscirei ad andare e tornare in tempo e a occuparmi anche del resto entro stasera. Ti chiedo solo di darmi una mano e te ne sarò per sempre riconoscente.»
«Sai dirmi almeno la strada per raggiungerla?»
«Sì certo, vieni con me.»
Mi prese per il braccio e mi accompagnò alla finestra. Appoggiò il suo viso al vetro freddo che si appannò per via dei suoi respiri. Con il dito mi indicò il giardino, nel mentre io ero intenta a seguire tutti i suoi movimenti, così da carpire ogni singola informazione.
«Vedi il Canalone?» domandò lei.
«Certo che lo vedo.»
«Bene, non superarlo, ma arrestati prima. Arriva alla fontana Margherita che è quella circolare che puoi vedere da qui, dopodiché gira alla tua destra e addentrati nel vecchio boschetto. Quello che devi fare è solo svoltare a destra della fontana e percorrere un sentiero stretto di una manciata di metri. Giungerai infine al giardino. Sembra difficile da illustrare ma fidati che è molto più semplice di quanto sembri.» nel mentre che spiegava, aveva riprodotto il tragitto che avrei dovuto fare sul lato del vetro appannato dal suo vapore. Era una serie di cerchi, di linee e di altri segni poco comprensibili, che sicuramente non mi avrebbero aiutato gran ché ma che facilitarono a lei la spiegazione.
«Vado subito così cerco di tornare in tempo per la cena.»
«Ti ringrazio Anthea! Ecco tieni! Prendi la mia mantella per ripararti dal freddo!»
Me la porse, poi mi afferrò i gomiti con entrambe le braccia e mi avvicinò a lei. Si alzò in punta di piedi e mi diede un lieve bacio sulla fronte. Al contatto delle sue labbra calde chiusi gli occhi e sorrisi. Una volta ricomposta presi la sua mantella, che era di una lana molto fitta e che mi avrebbe di certo coperta a sufficienza, e la indossai.
«Non voglio perdere altro tempo. Ci vediamo questa sera!»
«Oh sì, certo. Fate presto poiché il tempo non sembra dei migliori.»
Annuii e uscii dalla porta.

L'ingresso della reggia non era distante per fortuna. Percorsi il piccolo corridoio scuro che mi separava dalle scale per salire al primo piano. Le divorai in una manciata di secondi, a volte salendo gradino per gradino, a volte salendone due insieme. Mi ritrovai all'ingresso della Sala dei leoni. Mi fermai all'arco a volta che sanciva l'inizio di quell'imponente scalinata che culminava in un pianerottolo, alle cui estremità c'erano dei marmi felini. Rimasi un po' ferma a fissare quello scorcio, ricordando quanto mi avesse fatto emozionare il primo giorno che vi ero entrata. D'un tratto sentii il rumore di un tuono, mi apprestai così alla porta d'ingresso, stringendo ancora di più la mantella alle mie spalle.
Una volta uscita, con il capo rivolto verso il basso per paura di venir colpita dalle prime gocce di pioggia, percorsi in verticale il giardino all'italiana fino ad arrivare alla fontana Margherita. Guardandola da dietro il vetro della finestra dava l'idea di essere una fontana molto più graziosa, era invece circolare e molto piccola. Non decorata con alcuna statua, era solo perimetrata da un filo di cespugli verdi che arrivavano si e no sotto le mie ginocchia. Al centro c'era solo il foro per far uscire di tanto in tanto qualche spruzzo di acqua, che moriva con il medesimo affanno con cui era nato.
Una volta girato a destra come raccomandato da Marfa, mi incamminai in un sentiero in terra battuta circondato da siepi di sempreverdi, questa volta più alti di me medesima.
Arrivai fino in fondo e per fortuna trovare la serra non fu difficile. Si ergeva proprio alla fine del sentiero e man mano che lo percorrevo, maggiormente la figura dell'edificio si faceva chiara.
La serra al contrario della fontana, era una costruzione molto graziosa. Si sviluppava su un solo piano ma era alta molto probabilmente quanto la metà dell'intero Palazzo Livingstone. Sul lato corto aveva quattro colonne, che raddoppiavano sul lato lungo. Tra una colonna e l'altra vi era un arco in vetro, sorretto da un reticolato di inferriate. Il tetto consisteva in due cupole di vetro rettangolari, una sopra l'altra. La prima era dotata di un sistema di grondaie, la più piccola e più alta invece sembrava fosse dotata di una serie di finestre a cresta, che venivano chiuse e aperte dall'interno.
La porticina d'ingresso quasi non si notava rispetto alla grandezza dell'intero edificio. Mi avvicinai e anche essa era una porta di vetro con una piccola maniglia in avorio. Pensai che quella costruzione fosse stata progettata per permettere il passaggio di quanta più luce possibile. Del resto si trattava pur sempre di una serra.
Una volta entrata fui invasa dalla più graziosa delle visioni. In quel momento pensai di esser stata catapultata in una di quelle foreste del Nuovo Mondo di cui ultimamente avevo sentito molto parlare. Di basilico e insalata neanche la minima traccia.
Marfa li avrà sognati, pensai.
L'ambiente era stato costruito in maniera tale che al centro era stata predisposta una vasca piena d'acqua, perimetrata da una ringhiera di ottone battuto, in cui galleggiavano spensierati gruppi di ninfee bianche. Dalla vasca partivano quattro strade perpendicolari tra loro. Ai lati della porta d'ingresso si ergevano invece due palme, a sinistra di una delle quali era stato adibito uno spazio esclusivamente per le piante grasse che in quel momento erano in fioritura con dei deliziosi boccioli rosa e bianchi. Iniziai a camminare davanti a me, alzando lo sguardo e girando la testa in tutte le direzioni per fare mio ogni singolo angolo di quel delizioso quadretto. Una volta arrivata alla vasca notai che sotto le ninfee nuotavano in qua e là gruppetti di pesci rossi abbastanza grandi, tanto da dare l'impressione che si trattasse di carpe. Cercai lì intorno un po' di mangime da gettargli ma con mio dispiacere non ne trovai.
Sebbene mi trovassi lì, con lo scopo di recuperare le chiavi, mi resi conto solo allora che Marfa non mi aveva dato specifiche indicazioni sul posto in cui le aveva lasciate l'ultima volta.
Il mio pensiero fu però immediatamente interrotto dal profumo floreale che giungeva alle mie narici. Mi girai e notai un bellissimo cespuglio di fiori arancioni dal gambo lungo. Mi avvicinai e accostai la testa per ingurgitare quanto più profumo possibile, fino a quando non sentii i polmoni incapaci di incamerare ulteriore aria.
Non saper leggere mi dispiacque in quel momento ancora di più rispetto alle altre volte. Ogni fiore e pianta nel giardino era stato infatti etichettato con un cartellino legato a un piolo al suolo, ma purtroppo oltre alle poche lettere che conoscevo, non ero in grado di comporre un nome di senso compiuto per quei fiori che mi avevano di certo addolcito l'animo.
Continuai la mia passeggiata fino a quando il mio proseguire non fu interrotto dal rumore di uno sgabello che cade a terra, con annesso rumore metallico, mentre un gatto fuggiva via impaurito. Abbassai lo sguardo e mi resi conto che sì, era uno sgabello, e che quello che era caduto erano proprio le mie chiavi!
«Che fortuna!»
Esclamai tra me e me, avendo trovato quello che cercavo senza essermi impegnata troppo nella sua ricerca.
Una volta raccolte le chiavi sollevai anche lo sgabello. Quello che però mi lasciò interdetta furono diversi rivoli di sangue che notai incrostati al seggiolo. Provai a toccare l'estremità del rivolo in cui si era fermata la goccia e, con mia sorpresa, mi resi conto che una semplice pressione del dito aveva fatto fuoriuscire quel poco sangue che era rimasto ancora fresco.
Capii che si trattava di sangue che era stato versato da poco, probabilmente nell'arco della stessa giornata. A meno che qualcuno non si fosse occupato della serra in quel giorno stesso, le uniche persone che ivi erano entrate erano state Marfa e la signorina Grenn.
Non mi parve di aver visto sulla mia amica qualche segno di ferita o ematoma, quindi o si trattava di una ferita non esposta oppure il sangue apparteneva alla signorina Grenn. Le mie erano solo congetture, di certo sarei andata più a fondo.
Mi guardai intorno per trovare un roseto nei paraggi o qualche altra pianta dalle spine lunghe e appuntite, ma non ne trovai. Pensai dunque, in prima battuta, che quel sangue non necessariamente dovesse venire da una ferita ma che poteva essere stato causato da uno sbalzo di pressione e dunque fuoriuscito dal naso. Ipotesi che tuttavia scartai subito.
I miei pensieri investigativi furono però interrotti dalla raffica di gocce che battevano impetuose sul tetto vetrato.
Infilai le chiavi nel taschino del grembiule e mi diressi verso la porta, sperando di arrivare in tempo a palazzo e di evitarmi così un raffreddore.
Una volta uscita iniziai a correre quanto più veloce potevo, cercando di ricordare a memoria la strada che avevo già percorso.
D'un tratto la pioggia iniziò a scendere sempre più copiosa. Si stava trasformando in un vero temporale.
La visibilità stessa iniziò a scarseggiare e probabilmente avrei dovuto rassegnarmi all'idea che non sarei rientrata a palazzo prima che non fosse tornato il sereno. Per quanto mi fossi coperta come potevo con la mantella di Marfa, gli indumenti che vestivo si erano tutti bagnati e le mie scarpe si erano sporcate di fango.
Arrestai per qualche secondo la corsa affannata per cercare di capire dove mi trovassi, ma non riconobbi il posto.
Ero nel bel mezzo di una serie di alberi imponenti, che per mia sfortuna non erano abbastanza ravvicinati da ripararmi durante la corsa. Guardai in tutte le direzioni per trovare un posto provvisorio dove ripararmi, nell'attesa che tornasse il sereno.
Vidi non troppo distante un tempietto. Affrettai il passo e lo raggiunsi.
Il complesso aveva pianta circolare, con una cupola rotonda che si sorreggeva su una dozzina di colonne, aventi il fusto con migliaia di scanalature. Al centro del tempietto si levava un piedistallo con una scultura maschile in cima. Osservandolo meglio vidi che era un giovane alato, seduto su una testa di leone e avente un elmo poggiato sulla caviglia destra. Il giovane aveva tra le mani una specie di arco incastrato però a un ciocco di legno, il che mi sembrò alquanto bizzarro ma al contempo intrigante.
La mia perlustrazione attorno a quella statua venne interrotta da un rumore di zoccoli in lontananza. Pensai che probabilmente qualcuno stesse cercando riparo come avevo fatto io. Mi appoggiai a una delle colonne nell'attesa di capire chi stesse per arrivare.
I rumori degli zoccoli si fecero sempre più rumorosi fino a quando, dal mezzo degli alberi, uscì fuori un cavallo con a bordo un cavallerizzo di cui non fui in grado di identificare l'identità, avente quest'ultimo un mantello che gli copriva anche il capo.
L'uomo scese e legò le briglie saldamente a un tronco, con un nodo e poi due. Accarezzò il muso dell'animale e gli sussurrò qualcosa, dopodiché si apprestò a salire i gradini del tempietto per ripararsi. 
Il cavallerizzo si posizionò a qualche metro distante da me e sbatté i piedi in terra, con l'intento di eliminare il fogliame bagnato che si era attaccato ai suoi stivali. Infine si tolse il cappuccio.

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