Capitolo 1
Mia sorella nacque in una gelida notte d'inverno. Quando mia madre la vide per la prima volta strabuzzò gli occhi e poi li chiuse tenendoli ben serrati per dimenticare ciò che aveva appena visto. Sprofondò la testa intrisa di sudore sul cuscino e perse conoscenza.
Passò un po' di tempo prima che si riprendesse e che chiedesse della bambina. Una volta riottenute un po' di forze si voltò per cercarla e quando la vide dentro la culletta di vimini che mio padre aveva intrecciato appositamente per lei tirò un sospiro, a metà via tra il sollievo e la rassegnazione.
«Cosa succederà...» sospirò mia madre tutto d'un tratto. La sua non era una domanda. Quella era un'affermazione che nascondeva un'insistente ricerca di risposte.
«Signora...» iniziò il dottor McKinsey, prendendo un grande respiro e alzando gli occhi verso il soffitto «ne ho visti di casi peggiori. Vostra figlia ha delle problematiche irrilevanti che non le impediranno un giorno di vivere la sua vita come quella di un altro bambino» detto questo le passò un unguento e si raccomandò di spalmarlo su entrambe gli occhi mattina e sera, per mantenerli idratati.
All'ascoltare le parole di chi aveva sicuramente più esperienza di lei, mia madre riprese forza e si fece coraggio, trattenne quelle lacrime che con insistenza cercavano di esplodere e si voltò verso di me e poi verso mio padre, rivolgendoci un abbozzo di sorriso.
La sorte non era stata fortunata con la nuova arrivata. Era nata con una malformazione all'occhio sinistro e con un accenno - quasi impercettibile - di labbro leporino.
«Questo è capitato perché avete bevuto troppo mosto d'uva sebbene vi avessi detto di non farlo!» tuonò un giorno mio padre a tavola, mentre cercava di mandare giù a forza il boccone di pollo senza strozzarsi.
«Hector, per favore...la bambina!» e si voltò verso di me mordendosi un labbro. La reazione di mio padre non era stata una reazione rabbiosa ma la reazione di un uomo preoccupato che era consapevole di non avere i poteri per cambiare la situazione a suo favore.
Daisy avrebbe dovuto convivere per sempre con quei piccoli difetti che la natura aveva deciso di darle. Io dal canto mio non riuscivo a capire cosa non andasse nella nuova arrivata, per me era perfetta così come era: aveva la pelle molto chiara, i capelli scuri e un profumo inconfondibile. Avevo preso l'abitudine, la mattina appena sveglia, di correre subito da lei per nascondere il mio naso tra le pieghe del suo collo, odorando per l'ennesima volta quella fragranza che solo a lei apparteneva. Durante tutto il corso della mia prima infanzia considerai Daisy come una piccola bambolina che non faceva altro che dormire e che di tanto in tanto si svegliava per mangiare.
Quando ebbe quattro anni e io sei, mia madre iniziò a fidarsi a lasciare me e mia sorella da sole così che lei e mio padre potessero dedicarsi alla cura dell'orto.
Nella nostra famiglia, come nelle altre, l'orto era diventato la priorità poiché era la fonte di sostentamento della maggior parte dei sudditi di Sommerseth. Il nostro terreno era posizionato a ridosso della dimora dei Clareton tanto che quelle volte che scompariva parte del raccolto, o quando mio padre trovava qua e là piante di insalata calpestate, era inevitabile che la colpa ricadesse sui marmocchi del signor Clareton. Da che avevo memoria i rapporti tra la nostra famiglia e la loro non erano mai stati dei migliori, questo solo perché mio padre rimproverava Rob Clareton di non prestare troppa attenzione ai figli e di non rimproverarli quando facevano l'ennesima marachella. Di tutta risposta il signor Clareton affermava che, non essendo mai sul luogo nel momento dello sgarbo, non avrebbe potuto incolpare i suoi figli, i quali obiettivamente non avevano proprio l'aria di essere tipi da marachelle.
Passarono gli anni e arrivò il giorno in cui i miei genitori decisero di affidarmi Daisy per tutta la giornata e fu per me un grande piacere come per loro un grande sollievo. Mio padre passando più tempo in campagna, avrebbe avuto modo di constatare se Rob Clareton fosse effettivamente ignaro dei fatti o se stesse solo cercando di coprire i figli.
Una mattina di aprile, notando la noia dipinta sul volto della piccola Gleannes, decisi di portarla allo stagno vicino casa con la speranza di intravedere i piccoli pesciolini rossi che avevo visto io il pomeriggio precedente. Era una bambina molto curiosa e si entusiasmava per ogni piccola cosa che capitava durante la giornata: per il rumore del vento tra le foglie, per gli ultimi raggi del pomeriggio e per il canto del gallo all'alba. Non ero certa che portarla a vedere dei piccoli esserini che invece di camminare sulla terra come le galline che avevamo nel pollaio nuotavano rapidi dentro una pozza d'acqua fosse stata un'idea molto intelligente: se le fossero piaciuti sarebbe stato difficile convincerla a rincasare una volta calata la sera.
Prima di uscire mi assicurai di farle indossare una mantellina che potesse ripararla dal vento; dopodiché procedemmo.
«Anthea!» esclamò lei appena varcato l'uscio di casa.
«Dimmi Daisy.» le risposi io abbozzandole un sorriso.
«E se i pesciolini si spaventassero nel vederci e decidessero di nascondersi?»
«Resteremmo lì nell'attesa che la loro paura scompaia.»
Dopo aver constatato che il velo di preoccupazione fosse scomparso dal suo volto ci incamminammo a passo lento e, poco dopo, raggiungemmo lo stagno.
Era uno stagno non troppo grande ma per due ragazzine di quell'età poteva sembrare un enorme lago. Aveva forma circolare ed era costeggiato da canne di palude e da qualche fiore selvatico. L'acqua non era pulitissima ma trasparente a sufficienza da far intravedere cosa si muovesse in superficie. Una volta accucciate sulla riva del laghetto aspettammo qualche minuto prima che i primi pesci facessero capolino.
«Guarda! Guarda!» urlò Daisy saltellando un po' goffamente. «Te l'avevo detto io!» risposi esaltata «Lo so ma temevo che non ne avremmo visti!»
Rimanemmo un po' in silenzio a osservare i pesci rossi che si muovevano freneticamente in su e in giù, poi in forma circolare e infine, all'udire il belare delle pecore in avvicinamento, scomparvero.
Ad un tratto Daisy si alzò, si sporse verso la superficie dello stagno e iniziò a osservare il suo riflesso. Io la guardai con il timore che potesse perdere l'equilibrio e cadere in acqua.
«È per questo che tutti mi guardano?» chiese all'improvviso.
«Per questo cosa?» risposi un po' ingenuamente.
«Per lo scarabocchio che ho qui?» e si indicò il labbro e poi l'occhio.
Quella domanda mi fece trovare impreparata. Non sapevo che risposta dare e come replicare per evitare di offenderla senza che ne avessi l'intenzione.
«Ti guardano perché sei bella!» fu la cosa più innocente e immediata che mi venne in mente.
«Anthea, non sono più bella di te, eppure chiunque coglie l'occasione per osservarmi più a lungo di quanto venga fatto con te.» Quella risposta, da una bambina così innocente, non me l'aspettavo. Aveva ragione, la guardavano perché era...diversa. Ma nella sua diversità era comunque bella.
«Mi guardano perché sono strana, vero?» sul suo volto lessi il desiderio di chi sperava di essere confutata. «Ti guardano perché sei unica, ognuno di noi è diverso dall'altro, anche io sono diversa da te, da nostra madre e da nostro padre. Immagina che noia se vivessimo in un mondo in cui siamo tutti uguali! Anche le formichine, per quanto piccole, sono l'una diversa dall'altra.»
Quella risposta le bastò. Avevo cercato di trovare le parole più appropriate per confortarla un minimo. Non sapevo se ero riuscita nel mio intento ma almeno avevo evitato il peggio.
Quando il cielo si fece scuro e minaccioso capii che era arrivato il momento di rincasare. Non fu difficile convincere Daisy a rientrare, la giornata infatti aveva preso una piega strana. Era iniziata con le migliori intenzioni e stava volgendo al termine in un modo e con degli interrogativi che non mi sarei aspettata.
Quando arrivammo a casa trovai i miei genitori che erano da poco rientrati da lavoro e facemmo giusto in tempo a varcare la porta perché subito dopo iniziò a piovere.
Mia madre era ancora giovane e di media bellezza ma la stanchezza che si dipingeva sul suo volto quando rientrava dai campi la faceva apparire più avanti con l'età che effettivamente aveva. Sul volto di mio padre notai invece un velo di preoccupazione. Spostò la sedia da sotto al tavolo, vi si sedette e, con la testa poggiata sulla sua mano destra, iniziò a fissare il pavimento.
Avevamo sicuramente interrotto un discorso importante. Generalmente i nostri genitori evitavano di renderci partecipi delle problematiche della famiglia. Tutte le questioni familiari che potessero crearci preoccupazione venivano affrontate quando noi non c'eravamo. Di quello ne ero pressoché certa.
Dall'aria che si respirava nella stanza e dalle espressioni sul loro volto intuii che la questione era seria, così presi Daisy e con la scusa di andare a giocare con le bambole, la portai in camera. Aprii il piccolo baule che conteneva i nostri quattro giochi: due bambole di pezza, un peluche imbottito in lana e una casetta di legno che mio padre aveva intagliato appositamente per le farfalle che noi, una volta, ci divertivamo a catturare.
Non appena presi la mia bambola notai che le mancava il suo solito cappellino. Come per magia, mi ricordai di averlo dato a mia madre per farglielo lavare.
«Scendo a vedere se mamma ha lavato il cappello a Bea.»
«Va bene, Anthea. Ti aspetto qui. Fai subito che voglio giocare!»
Annuii. Mi alzai e mentre mi dirigevo verso le scale iniziai a pensare alla storia che avrei ideato quel giorno per le nostre pupazze. Non appena misi piede sul primo gradino fui travolta dalla discussione accesa tra mia madre e mio padre. In quel momento avrei dovuto rigirarmi e ritornare da Daisy perché i bambini non si immischiavano nei discorsi da adulti, ma la curiosità e la voglia di sentirmi partecipe degli affari di famiglia mi fecero restare. Scesi un altro gradino e poi un altro ancora, mi appoggiai con la guancia al muro che dava sulla cucina facendo attenzione a non esser vista e iniziai ad ascoltare.
«Hector, perché non chiedi aiuto ai tuoi genitori?» domandò mia madre con tono preoccupato.
«Claire, ti ho già ripetuto che i miei genitori stanno affrontando una situazione simile alla nostra e per di più sai che io non sono il tipo da andare a chiedere. Non mi hanno insegnato questo!»
«Si tratta delle tue figlie, vuoi capire?» aggiunse lei portandosi una mano alla bocca per soffocare il gridolino che le stava per uscire.
«Lo so! Lo so! Pensi non abbia capito? Io non comprendo, ci dovrà pur essere qualcuno che si trovi nella nostra stessa situazione. Possibile che solo noi siamo ridotti in questo stato?»
«Dobbiamo cercare di andare avanti in qualche maniera, il nostro raccolto non basta, le piogge prolungate di quest'anno non hanno di certo giovato al terreno. A malapena riusciamo a ricavare qualcosa da portare sulla nostra tavola, figuriamoci se riusciamo a mettere da parte gli ortaggi da vendere al mercato del venerdì.»
Non mi piacque affatto ascoltare quelle cose. Era evidente che non ce la stessimo passando bene. Non si trattava di quale vestito acquistare per la prossima occasione, ma di cosa mangiare una volta finiti i soldi. Di quelle cose ormai ero entrata a conoscenza, ma avrei preferito cancellarle come le onde del mare cancellano una scritta sulla sabbia. Mi sentii immediatamente in colpa per aver vanificato i tentativi dei miei genitori di mantenere nascoste le problematiche che attanagliavano la mia famiglia.
Feci attenzione a non venir scoperta, mi voltai e tornai in camera da Daisy.
«Ma perché tutto questo tempo...dov'é il cappello di Bea?»
«Daisy non...non l'ho trovato. La mamma era impegnata con la cena di stasera e non l'ho voluta disturbare.»
Mi sedetti e iniziai a giocare con lei. Il mio umore era completamente diverso dal suo. Si vedeva lontano un miglio che in quel momento tutto avrei voluto fare fuorché giocare. Daisy per fortuna non si accorse di nulla altrimenti avrebbe iniziato a fare domande a non finire.
Mi chiesi che cosa avrei potuto fare io dal canto mio, come avrei potuto contribuire alla normale gestione della casa. Ero però solo una ragazzina alla quale non si sarebbero mai potute avanzare eccessive richieste per la sua età. Mi trovavo dunque al punto di partenza. Ero a conoscenza di una situazione sulla quale non avevo il controllo e che non avrei potuto cambiare.
Arrivò l'ora di cena. Mi sedetti a tavola cercando di evitare il minimo rumore. Mio padre era già seduto e aspettava che mia madre lo servisse. Arrivò anche Daisy e prese posto.
«Uffa perché di nuovo patate! Sono giorni che ne mangiamo!» brontolò mia sorella, facendo il broncio e portando le braccia al petto.
«Perché cosa vorresti mangiare? Dove pensi di abitare? A Livingstone Palace?» rispose mio padre in maniera sbrigativa.
Quella risposta non mi avrebbe sorpreso in altre situazioni. Rispose con tono pacato e in altri momenti mi sarei anche messa a ridere. Non era quella però la circostanza giusta. Non dopo quello che avevo scoperto. Provai un forte senso di colpa e cercai di farmi piccola piccola come se gli altri membri della mia famiglia fossero venuti a conoscenza, in chissà quale maniera, della mia colpa.
Terminai il mio piatto di patate che quel giorno gustai con più voracità del solito, aspettai che gli altri terminassero di mangiare e salii in camera.
La mattina seguente fui svegliata dal parlottare di alcune persone al piano di sotto. Sebbene fossi ancora assonnata - dovevano essere circa le sette - cercai di concentrarmi per capire chi potesse essere. Erano due voci maschili ben distinte e insieme alle loro captai anche quelle dei miei genitori. Dal tono della discussione non doveva essere un confronto voluto e tanto meno atteso, per di più a quell'ora. Mi alzai in punta di piedi, mi voltai verso Daisy - e sì, stava ancora dormendo - camminai e, senza far rumore, mi appoggiai alla soglia della porta.
Lo stai facendo di nuovo, pensai. Stai zitta, aggiunsi.
Ebbene sì, stavo intrattenendo un dialogo con me stessa e mi giudicai pazza per un momento. Inevitabilmente stavo origliando per la seconda volta il discorso di altri ma come avrei potuto fare altrimenti, la curiosità mista alla preoccupazione aveva preso il sopravvento.
«Signor Gleannes, è già il secondo richiamo che vi facciamo. Voi sapete quanto è importante per il principe Kynaston e per il Consiglio che vengano rispettate le scadenze. Comprendiamo la grande difficoltà che ahimè, quasi tutti ci troviamo ad affrontare, ma il vostro ritardo è ingiustificabile. Il tributo di residenza costituisce la maggior entrata per il Principato e dunque è inaccettabile la vostra mancanza di interesse.»
«Voi sapete» controbatté mio padre «che non è affatto nostra intenzione mancare di onorare i nostri doveri in quanto fieri cittadini di Sommerseth e sapete anche che non c'è mai stata circostanza simile in passato, ma siete anche a conoscenza della difficile situazione che ci troviamo ad affrontare. Con la promessa che ciò non avrà a ripetersi in futuro, vi scongiuro di invocare la clemenza di Sua Maestà e vi imploro di concederci ulteriore tempo!»
Ascoltai con attenzione il responso.
«Signor Gleannes, voi mi mettete in una situazione alquanto scomoda. La pazienza di Sua Maestà è stata fin qui anche troppa. Tutto ciò avrà delle conseguenze!»
Sentii sbattere la porta e in seguito, il pianto di mia madre.
Quanto ancora avrei potuto far finta di niente? Decisi che era arrivato il momento di confessare. Presi coraggio e scesi le scale.
Quando mia madre mi vide si voltò per nascondere il volto arrossato e contratto.
Li fissai negli occhi, poi dissi «Io so! Io so tutto! E mi sento tremendamente in colpa per questo! Ma devo confessarvelo, altrimenti questo macigno non mi lascerà più riposare di notte!»
Avevo confessato ormai e mi sentii subito più leggera.
«Cosa sai Anthea?» domandò mio padre un po' titubante.
«Io so che oggi abbiamo da mangiare ma forse tra un mese saremo a bocca asciutta, so anche che gli affari al mercato non vanno come sono sempre andati negli anni passati e che siamo in ritardo con i pagamenti verso Sua Maestà. E so, infine, che non dovrò più lamentarmi se in futuro indosserò vestiti meno graziosi di quelli delle mie coetanee!»
Terminata la confessione feci un lungo respiro e poi buttai tutta l'aria che avevo in corpo al di fuori, come se quel gesto fosse un ultimo atto liberatorio.
In quel momento non sapevo cosa aspettarmi. Avrebbero potuto arrabbiarsi perché avevo spiato i loro discorsi oppure avrebbero potuto semplicemente trovarsi delusi perché non erano riusciti nel loro intento di tenerci all'oscuro di tutto.
Mia madre tremò, mio padre girò intorno freneticamente sbattendo le braccia ai fianchi.
«Va bene! La verità è questa! Non so da quanto tu la sappia e mi dispiace anche che tu ti sia fatta carico di questa preoccupazione, per quanto siano questioni da adulti e tu poco più che una bambina!» esclamò mia madre. Fu quella una risposta che non mi aspettavo. Non mi rimproverarono. Non mi urlarono contro ne tanto meno si arrabbiarono con me.
«Deve pur esserci qualcosa da fare per cercare di mettere a posto un po' le cose!»
«E cosa? Il terreno produce poco frutto e non abbiamo altre attività fuorché quella.»
«Padre, potresti farti prestare del denaro dai nonni!» consigliai io, sebbene conoscessi già la risposta.
«Giammai!» tuonò lui.
«Capisco la tua posizione, ma siamo giunti ad un punto in cui non abbiamo alternative, Hector.» la voce di mia madre sussultava come una corda di violino.
«Claire, mi sono sposato con la promessa che non avrei mai chiesto alla mia famiglia neanche uno scudo e non ho intenzione di infrangerla ora!»
«Papà, ma perché dovresti vergognarti dei nonni, loro.. » non feci in tempo a terminare la mia osservazione che fui immediatamente interrotta.
«Anthea, smettila di fare ragionamenti che non si addicono alla tua età! Cosa ne vuoi sapere tu del mio passato e del perché delle mie azioni?» forse avevo fatto il passo più lungo della gamba, forse non era il caso che mi immischiassi ulteriormente in quelle faccende.
Vidi nel frattempo mia madre assorta nei sui pensieri, con la mano sulla bocca e con gli occhi fissi in un punto. D'un tratto mormorò «Hector!»
Si fermò, attese che mio padre le rivolgesse l'attenzione, poi proseguì «perché non ci rivolgiamo al signor Patel, potrebbe prestarci del denaro e lo farebbe con molta discrezione. È il suo mestiere, lo sai! Salderemmo il debito nel tempo dovuto e magari potrebbe rivelarsi anche abbastanza clemente da non chiederci interessi troppo elevati. Questo riguarderebbe solo noi e lui!»
Dall'espressione che fece mio padre notai che quell'opzione non l'aveva considerata. Stette qualche minuto in silenzio, si passò le mani tra i capelli. Si stropicciò la faccia come se si fosse appena svegliato e poi, dopo aver fatto un grande respiro, disse laconico «Va bene.» Dopodiché si alzò dalla sedia e in fretta e furia - quasi a voler evitare un ripensamento - uscì di casa.
Avremmo chiesto un prestito sì, ma a una persona che lo faceva di mestiere. Dunque, un compromesso era stato raggiunto.
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