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4.

Aggirai l'oggetto inquietante. Del perché fosse lì, chi ce lo avesse portato, della mancanza delle tracce nella polvere di passi e ruote, che rendevano ancora più inspiegabile la sua presenza, in quel momento non mi interessava. Ero esausta.

Esplorai il mio rifugio. La casa era malandata, forse abbandonata da alcuni mesi, mancavano i segni di chi conta di tornare. Individuai la cucina dal tanfo che emanava un frigo spento e semiaperto, non ebbi neanche il coraggio di sbirciarci dentro. Mi avventai invece speranzosa sui pensili, stavo morendo di fame e di sete. Trovai quanto sperato. Dopo un pasto a base di acqua e scatolette la mia percezione del mondo si allargò, i bisogni primari soddisfatti mi concedevano di prestare più attenzione a quanto mi circondava.

Aprii le altre stanze della casa, l'appartamento era spazioso, quasi completamente privo di mobili, se si fa eccezione per la cucina e un divano scassato all'ingresso, accanto alla valigia che evitavo accuratamente di considerare. Vagai ancora un po' per quegli spazi vuoti, finché, stremata, non mi raggomitolai sul divano, stretta per occupare meno spazio possibile, quasi che quella casa potesse accorgersi della mia presenza e inglobarla nella sua dimensione polverosa.

Con la fronte che sfiorava le ginocchia, sperai in un riposo simile a quello di cui avevo goduto sul treno la notte precedente. Sembrava però che l'insonnia, disorientata per un momento dal mio cambiamento repentino, mi avesse riacciuffato subito, riportandomi a una consuetudine che mi veniva imposta da anni: una veglia nervosa, tormentata e zeppa di pensieri. Mi ci abbandonai rassegnata.

Chissà come mai, cominciai a ripensare a Enea, alla prima volta che l'avevo visto.

Era passato un secolo.

Me lo rividi davanti, seduto composto sui banchi della chiesa sconsacrata, con le braccia conserte e lo sguardo assorto, mentre il complesso jazz inondava le navate di calore. Eravamo immersi nella stessa sostanza inconsistente nello stesso flusso impalpabile che lambiva i miei orecchi e accarezzava i suoi. La musica. Speravo che questa continuità di energie lo rendesse in qualche modo consapevole della mia presenza, niente da fare. Osservavo il suo profilo immobile, sorprendendomi a escogitare un modo per diventare l'obbiettivo di quello sguardo lontano.

L'avevo notato appena entrato nella sala, distratto nel leggere il programma della serata aveva urtato una signora anziana, si era scusato imbarazzatissimo e seduto nel posto libero più vicino, per far dimenticare quanto prima la sua presenza. Io, dal canto mio, avevo benedetto la vecchina, quel posto era esattamente accanto al mio.

Avevo così lasciato che il concertino facesse da colonna sonora alle mie osservazioni malcelate, scrutavo di sottecchi gli occhi neri, riccioli e barba corvini, e le mani, a tratti nascoste a tratti appoggiate sulle ginocchia. La sinistra era percorsa da una cicatrice che partiva dall'ultima falange dell'indice, per diramarsi sul dorso e risalire fino a chissà dove, potevo scorgerne i contorni sfrangiati che si insinuavano sotto i polsini della camicia. Morivo dalla voglia di conoscere la sua storia.

Avevo atteso anche l'ultimo bis fosse sfumato, per decidermi.

- Ciao.

Chissà dov'era adesso, Enea.

Chissà dov'ero ora, io.

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Tags: #insonnia