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Il tempo guarisce tutte le ferite.

La temperatura era sempre la stessa. Ne calda ne fredda. La luce ne accecante ne insufficiente. L'aria fresca quanto serviva e bastava.
Camminava da sempre, il ragazzo, camminava da mai. I piedi nudi affondavano nella sabbia, ma non aveva difficoltà a camminare... Era tutto così semplice.

Duemilatrecentosessantaquattro, duemilatrecentosessantacinque... Contava, il ragazzo, da sempre e da mai.
La cosa meravigliosa dei numeri era che erano infiniti, pensò. Ma d'altronde tutto finiva e poi magari iniziava di nuovo, poi se eri fortunato finiva ancora senza riniziare.
...duemilatrecentosessantasei... Camminava. Si guardava i piedi, poi guardava davanti a sé, dove non c'era nulla da notare. Tutto incredibilmente, assolutamente e sistematicamente uguale.
I granelli della sabbia gli solleticavano i piedi, gli si infilavano tra le dita. Allungò il passo, si presentava una delle ennesime dune. Alcune volte aveva addirittura provato a scivolarvi sopra, ma non era stato granché divertente.

...duemilatrecentosessantasette...
C'era silenzio. Un ovattato, assordante e pacifico silenzio. Batté le mani, e il suono si spense subito.
...duemilatrecentosessantotto...
Semplicemente sospeso... Era semplicemente sospeso, da sempre e da mai.
...duemilatrecentosessantanove...
Sentì un tonfo sordo: era andato a sbattere, di nuovo. Sollevò lo sguardo, mentre il dolore alla fronte svaniva in fretta come era arrivato, e guardò il vetro davanti a lui. Non aveva mai capito cosa ci fosse al di là di esso... Nemmeno era sicuro che fosse proprio vetro. Era qualcosa di spesso, duro e trasparente, ma dall'altra parte non riusciva a vederci.
Sospirò, e il suo respiro appannò leggermente la lastra davanti a lui. Vi appoggiò la fronte, prima di passarsi una mano tra i capelli.

Mi passo una mano tra i capelli, voglio scompigliarli ancora un po', proprio come le piacciono. Mi allontano dallo specchio e cerco in giro per la camera una maglietta pulita, mentre la musica esce dallo stereo e mi fa dimenare a ritmo. É un giorno bellissimo, il sole sta splendendo, stranamente.
Trovo una maglietta bianca leggera, non puzza, quindi la infilo e mi siedo sulla sedia girevole per mettermi i calzini. Nello stesso momento, mi lascio scivolare sulle rotelle fino all'altra parte della stanza, vicino al comodino. Mi alzo e mi spruzzo un po' di acqua di colonia, non troppa: so che lei lo detesta.
Controllo di avere tutto, mentre la musica continua a suonare, quando noto un messaggio sul cellulare appoggiato al letto. Mi stravacco su di esso e cincischio un po' sui vari social network a cui sono iscritto, quando lo sguardo mi cade sull'orario scritto in alto sullo schermo.
"Merda" salto su e infilo le Converse, devo sbrigarmi... Ma evidentemente la fortuna non é dalla mia parte, perché mi accorgo di aver dimenticato il portafogli solo dopo aver fatto un passo fuori dal portone di casa mia.

Fece un passo e si riscosse. Dov'era arrivato?
Duemilatrecentosettanta...
I ricordi erano l'unico suo passatempo, eppure li detestava. Non aveva idea da quanto fosse lì. Non esisteva il tempo, per lui, aveva smesso di esistere in un preciso momento della sua vita.
...duemilatrecentosettantuno...
Quante volte aveva perso il conto? Innumerevoli. Le distrazioni erano poche, in quel limbo, così deboli e noiose.
Guardò lontano, al centro... Il vortice che portava la sabbia fino al passato, nella parte inferiore della clessidra. Era sempre lì, i granelli scorrevano lentamente, da sempre e da mai.
Si accovacciò, prese nel pugno una manciata di sabbia e la fece scivolare via, osservandone i granelli che rilucevano dorati, mandandogli dei piccoli fasci di luce.

I suoi capelli dorati rilucono sotto la luce calda del pomeriggio, e io mi sorprendo ogni giorno di quanto lei possa essere bella. Ride di nuovo, e la sua risata é come panacea per le mie orecchie. Com'é possibile che questa ragazza mi sia entrata dentro in così poco tempo? La amo, ne sono certo.
É meravigliosa, e sono felice. Dio, se sono felice. Mi basta guardarla.
Mi prende la mano e io la stringo, mi si fa più vicina e finalmente mi bacia. Un pensiero sdolcinato quanto vero mi attraversa la mente: sono in paradiso, e potrei restare così in eterno.
Si alza dal divano e mi fa alzare con sé, mi conduce verso la camera da letto. Apre la porta e, la sua mano nella mia, mi guida con un sorriso splendente.

La luce diffusa che si trovava lì faceva splendere la sabbia, tuttavia quel bagliore non gli feriva gli occhi. Troppo spesso si era chiesto come sarebbe andata se quel giorno non fosse mai esistito, se quei minuti non fossero mai trascorsi. La verità era che il tempo era pericoloso. L'aveva capito quando era stato troppo tardi, quando per lui il tempo non aveva avuto più alcun valore. Ed ora si ritrovava lì, con una ferita che non smetteva di sanguinare, ad aspettare che il passare dei secondi, delle ore, degli anni forse, la guarisse.

Si alzò di nuovo, e riprese a camminare.
Duemilatrecentosettantadue, duemilatrecentosettantatre... Si fermò.
Tempo, tempo, tempo. Tutta una questione di tempo, di fretta. Alcune volte, gli faceva ancora effetto pensare che lui e solo lui si trovava esattamente nel luogo dove c'era ciò che spaventava tanto gli esseri umani: il mondo aveva un tempo ben preciso, contato, limitato. Un giorno la clessidra si sarebbe svuotata, la sabbia sarebbe finita. Un giorno non ci sarebbero state più ore o minuti o secondi, non ci sarebbero più state persone che morivano o che si dimenticavano di qualcosa, non ci sarebbe stato più nulla. E lui, che fine avrebbe fatto? Avrebbe forse finalmente smesso di esistere?
Quante domande c'erano da fare, quante risposte non sarebbero state date. Lui aveva avuto tante domande, tantissime curiosità sulla vita.
Gli venne da ridere, come capitava così poco spesso. Tutti i problemi che uno si faceva durante la vita erano così ridicoli, così banali e futili. L'aveva capito solo dopo. L'aveva capito solo dopo essere morto. Chiuse gli occhi, e seppe che si era di nuovo spinto troppo in là con i pensieri. Inspirò bruscamente, e le tempie cominciarono a pulsare. Un dolore forte e sordo gli colpì il retro della testa, si sentì aprire in due... Il passato gli saltò di nuovo addosso.

Corro ancora, non ce la faccio più. Mi porto una mano alla milza, che mi manda delle fitte atroci... Lei mi ucciderà: le avevo promesso che questa volta non sarei arrivato in ritardo.
Le mie scarpe sembrano volersi aprire in due da un momento all'altro, mi sembra di poter sentire la gomma delle suole assottigliarsi sempre di più sotto il mio peso e le mie falcate veloci. Tra poco inizierò a sudare, quindi valuto le mie opzioni: fermarmi ora e salvaguardare il mio aspetto solo per poi arrivare ancora più in ritardo, oppure correre come un forsennato sperando che mi perdoni con un sorriso per il mio essere un ritardatario cronico?

«'Fanculo» dico tra i denti, e accelero il passo. Svolto tra le varie viuzze e inciampo su qualche sampietrino, ma continuo a correre. Mi sento il cuore battere nelle orecchie, la gola mi brucia per l'aria che faccio entrare a secchiate nei polmoni. Mi asciugo la fronte e riporto subito la mano sulla milza: sto camminando storto per lo sforzo. Quasi mi viene da ridere, anzi sicuramente riderei se ne avessi il fiato.
Sorpasso dei turisti e mi infilo tra la folla per attraversare la strada, incurante di quanto sia pericoloso questo incrocio. Ho solo tanta voglia di vederla.
Proprio mentre mi butto in mezzo alla strada correndo, sento qualcosa di incredibilmente duro colpirmi il fianco ad una velocità che non avrei mai creduto possibile. Sento qualcuno urlare, qualcun altro gridare "attento!". Sbatto la testa contro qualcosa di appuntito e mi rendo conto di essere a terra e di non riuscire a tenere gli occhi aperti.
Il volto di lei mi appare davanti agli occhi e una consapevolezza macabra mi attraversa la mente, prima che tutto diventi buio.
Questa volta non arriverò in tempo.

Urlò, portandosi le mani dietro il capo. Il respiro affannoso svanì, ma lui giurava di poter ancora sentire la sua testa sanguinare. Era sempre così, il passato lo tormentava.
Aveva ricevuto in dono tutto il tempo che aveva perso in vita, ma ad un prezzo troppo alto. Imprigionato, costretto a rivivere la propria morte solo pensandoci, ancora e ancora, avere la consapevolezza di ciò che era accaduto per filo e per segno senza poterlo cambiare. Poter solo contare e pensare, camminare e aspettare.
Perché il dolore non passava? Il tempo non avrebbe forse dovuto guarire le ferite? Era da sempre che aspettava, aspettava da mai. Quanto ci sarebbe voluto ancora?

Sbuffò: aveva perso il conto, di nuovo. In ogni caso, sapeva che c'era un modo, l'aveva sempre saputo. Avrebbe dovuto fidarsi di sé stesso e di qualsiasi cosa l'avrebbe graziato.
Il suo sguardo cadde di nuovo sul vortice di sabbia. Sarebbe stato così semplice, in apparenza. Così facile. Scivolare nel vortice, andare a finire nel Passato. Finalmente sarebbe finito tutto?
Si avvicinò pericolosamente al limite, non contò più i passi... C'era qualcosa che lo bloccava.

«Andiamo, non avrai mica paura!» la guardo sorridermi da laggiù, i capelli bagnati e le gambe a muoversi sott'acqua per tenersi a galla. Questa scogliera é davvero alta, non so come diamine abbia fatto lei a tuffarsi per prima.
«Non ho paura!» ribatto, ma dentro di me so che non appena distoglierò lo sguardo da lei comincerò ad essere spaventato.
«Avanti, non vuoi venire qui giù da me?» mi dice, il suo sorriso seducente che brilla quanto l'acqua cristallina del mare.
«Certo che giochi sporco!» le dico, ma so che sono già in acqua: quando mi sorride così non so resisterle.
Faccio un passo indietro e chiudo gli occhi dopo averla guardata un'ultima volta, poi mi butto dallo scoglio. Mentre cado sento lo stomaco salirmi in gola, ma subito dopo sono in acqua e lei mi sta venendo incontro, raggiante. La abbraccio e le stampo un bacio sulle labbra.
«Hai visto? Non era difficile» mi sussurra, ed io le sorrido.

Non era difficile, lo sapeva. Prese la rincorsa, e si buttò. I granelli di sabbia gli entrarono nei vestiti e tra i capelli, tutti secondi che pian piano andavano persi.
Il senso di vuoto alla bocca dello stomaco si fece vivo, si sentì in caduta libera e provò ad immaginare che sul fondo ci fosse lei a rassicurarlo. Guardò giù, e venne assalito dal panico mentre un sospetto terrificante si faceva largo nella sua mente. Raggiunse l'occhio del ciclone: stava per finire tutto... Quando si fermò.
Semplicemente si fermò, e notò con orrore che il passaggio che l'avrebbe dovuto condurre verso la libertà in realtà era troppo piccolo per lui: non ci passava.
Urlò di frustrazione e dolore: non poteva crederci, non poteva essere vero, nessuno sarebbe stato così crudele. E proprio mentre si rendeva conto che la vita era crudele quanto la morte e l'eternità, finalmente capì che non era vero.
Il tempo non guariva tutte le ferite, il tempo le causava.
Così come causava la morte, il pensare troppo, l'essere prudenti anche quando non serviva: il tempo era l'unica cosa con cui erano costantemente, indissolubilmente in guerra, l'unica cosa contro cui avrebbero sempre dovuto combattere. Capì che una vita vissuta nel terrore dello scorrere dei secondi, dei minuti, degli anni, non era degna di essere chiamata vita. E così come lui adesso avrebbe dovuto aspettare che qualcuno girasse la clessidra e facesse riniziare il suo supplizio, ogni persona doveva aspettare che nella sua vita accadesse qualcosa di abbastanza importante da cambiarla.
Qualcuno avrebbe dovuto girare la clessidra. E lui sarebbe tornato a non vivere, contando, pensando, aspettando che la sua ferita guarisse... Da sempre e da mai.

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