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Capitolo 2


«Kilie, perché sei ancora qui? Ho finito il mio discorso.»
«No, lei ha detto una frase. "Stai attenta, il male è"...»
«Non ho detto niente, te lo sarai immaginato. Ora vai che tra un po' inizia la prossima ora.» la interruppe la professoressa.
Ancora confusa, la ragazza si diresse all'uscita dell'aula.
Non se lo era immaginato. Quella frase era uscita da quella bocca, ne era sicura. E la voce era chiaramente quella di sua madre. La stessa voce che le augurava la buona notte e che le spiegava i compiti che non capiva. Quella dolce voce che non voleva dimenticare, che voleva portare nel cuore per l'eternità, che voleva tenersi stretta per paura di dimenticarla. Perché sì, lei aveva il timore che un giorno, quando avrebbe pensato a sua madre e a suo padre, nella sua mente si sarebbero materializzati pochi ricordi sfuocati. Non voleva assolutamente che i suoi genitori diventassero per lei solo un misero e minuscolo capitolo della sua vita.
Le scese una piccola lacrima dall'occhio destro quando, ripensando alla dolce voce della sua mamma, si ricordò la filastrocca che le canticchiava sempre prima di andare a dormire.
Le tue bambole devi mettere sugli scaffali,
Nell'armadio, invece, vanno posti
i tuoi stivali.
Ora vai a dormire piccolina,
dolce è la mia bambina.
La sua cameretta era perennemente in disordine e ogni sera, quando ormai il sole era già calato, la rimetteva a posto accompagnata da quelle parole in rima. Giocava molto con le bambole, ma allo stesso tempo le piaceva uscire all'aperto, magari per fare una passeggiata in mezzo al bosco o saltellare nell'acqua piovana dopo un brusco temporale.
Amava i suoi genitori, di questo era sicura, e in quei mesi le mancavano moltissimo. Al solo pensiero lo stomaco le si attorcigliava e smetteva quasi di respirare. Scosse leggermente la testa e ritornò alla realtà.
Suonata la campanella si diresse alla lezione successiva.

Il tragitto che Kilie avrebbe dovuto percorrere per tornare a casa da scuola, non era molto breve. Avrebbe potuto prendere l'autobus, sì, ma stare altri venti minuti tra ragazzi con gli ormoni a mille, non era il massimo per lei. Preferiva camminare e schiarirsi le idee.
Quella scuola le sembrava strana. Aveva avuto un attacco di panico e un'allucinazione. E tutto questo era successo solo il primo giorno. Per non parlare della professoressa Richards. L'aveva inquietata molto. Inoltre, cosa voleva dire esattamente la frase che aveva sentito? E perché la voce le era sembrata quella di sua madre? Non capiva. In realtà non capiva molte cose. La sua vita era sempre stata tranquilla, ma nel giro di poco tempo, come d'incanto, era diventata incasinata, piena di problemi.
Quando arrivò a casa, lasciò subito cadere la cartella per terra e si avviò verso la cucina per bere un bicchiere di tè freddo.
«Kilie, sei tu?»
Una voce arrivò dal piano di sopra. La ragazza si sporse leggermente dalla cucina, che si trovava vicino alle scale, e rispose affermativamente. Sentì dei passi scendere gli scalini e poco dopo entrò nella stanza una signora sulla cinquantina.
«Com'è andata la giornata?» le chiese la donna appoggiandosi con un braccio sull'ampia isola posta al centro della cucina. Si stava nervosamente toccando il bracciale di bigiotteria che teneva sul polso sinistro. Sembrava quasi a disagio a parlare con Kilie.
«Bene.»
«Senti: mi hanno appena contattato gli assistenti sociali dicendomi che, non appena compirai diciotto anni, potrai andare a vivere da sola. Ecco, io e tuo padre...»
«Non è il mio vero padre.»
La donna emise un piccolo sospiro e assunse un'espressione affranta. Sapeva che adottare una ragazza quasi maggiorenne non l'avrebbe automaticamente trasformata in una madre, ma lei ci sperava e avrebbe continuato a sperarci. Non poteva arrendersi subito, sapeva che Kilie doveva essere aiutata e non poteva accettare che tutto quello per cui stava lottando fallisse miseramente.
«Io e Michael accetteremo ogni tua scelta, qualsiasi essa sarà. Ma volevamo dirti che se vorrai potrai restare anche qui. Ti serviranno molti soldi e non credo proprio che tu li abbia. Ti volevo dire solo questo.»
«Ci penserò, Rachel.»
La donna le accarezzò la spalla e Kilie diede un morso a un biscotto che aveva precedentemente preso da un contenitore. La ragazza non apprezzava tutto l'affetto che riceveva dai suoi genitori adottivi. Dopotutto, aveva appena perso la sua vera madre e il suo vero padre e il suo comportamento, anche secondo gli psicologi, era del tutto normale.
Aveva più volte chiesto quando avrebbe potuto andare a vivere da sola e, nel momento in cui la risposta le era arrivata, non si era più sentita sicura di volerlo fare. Ma comunque avrebbe avuto ancora un anno per pensarci.
«Vado a farmi una doccia.» annunciò Kilie mandando giù l'ultimo pezzo di frolla e lasciando Rachel in cucina, con un piccolo sorriso stampato sul viso.
Forse, tra un po' di tempo, sarebbe stata per lei una madre a tutti gli effetti.

La prima settimana passò abbastanza velocemente. Non successe niente degno di nota. Quello che aveva fatto Kilie in quei giorni, oltre a studiare e a seguire le lezioni, fu accordarsi con Marcus per la ricerca di storia. Quel ragazzo era come assente in quel periodo, probabilmente a causa del comportamento scontroso che aveva avuto Kilie. Ciononostante, riuscirono a mettersi d'accordo per una data. Optarono per trovarsi a casa di Marcus lunedì, alle quattro del pomeriggio. Nient'altro. Si erano detti solo questo.
Quel giorno era arrivato. Dopo essersi fatta una doccia veloce ed essersi vestita per l'appuntamento, cominciò a infilarsi le scarpe quando una voce le fece alzare lo sguardo da terra.
«Dove stai andando?»
L'uomo che l'aveva adottata era proprio davanti a lei. Era alto, molto alto, -contando che lo stava guardando da seduta- e sembrava un signore tutto d'un pezzo. Giacca e cravatta.
«Da un mio compagno di classe. Dobbiamo fare una ricerca.»
«Devi portare qualcosa? Magari una bottiglia di cola.»
L'idea le sembrò ragionevole, dopotutto Marcus l'avrebbe ospitata a casa sua e portare qualcosa da bere era il minimo che potesse fare. Si avviò verso il frigo e prese una bottiglia da un litro, rigorosamente sotto marca. Chi è che voleva spendere quasi il doppio per la stessa cosa, ma con un nome differente?
«Kilie, lo so che hai perso i tuoi genitori e devi ancora riprendere la tua vita in mano.» continuò Michael seguendola in cucina.
La ragazza prese un sacchetto e ci infilò la bottiglia, poi guardò in faccia l'uomo. «Ma io non trovo giusto che tu voglia andartene da qui. Insomma, ti abbiamo aiutata adottandoti e tu vuoi ripagarci così? Fuggendo da casa nostra? Da casa tua?»
«Senti, non ho né voglia di ascoltarti né voglia di litigare. Fammi andare a fare questa benedetta ricerca e lasciami stare. Poi la mia era solo un'idea.»
Kilie fece per andarsene, ma Michael le prese con forza il braccio sinistro e la costrinse a fermarsi e a ruotare verso di lui.
«Forse non hai capito bene. Io e tua madre,» disse lui marcando bene le ultime parole. Kilie rabbrividì, ma non fece vedere di essere in uno stato di ansia. «Quelli che ti hanno adottato, vorremmo che tu restassi qui con noi per più tempo. A diciott'anni sei ancora troppo piccola.»
L'uomo lasciò la presa di colpo, sgomentando un po' Kilie. Lei, dopo essersi ricomposta velocemente, sorrise debolmente e poi uscì dalla casa. Dalla tasca sinistra della sua felpa prese delle chiavi e aprì il garage. Quello stronzo non poteva avere la meglio, non poteva comportarsi così con lei. Accese la luce e prese la sua bici color grigio. Dopo aver richiuso il grande portellone -mettendoci un po' di violenza-, si avviò verso la casa di Marcus.
Non ci impiegò molto ad arrivare dinnanzi alla modesta abitazione del ragazzo: una piccola villetta dalle pareti azzurrine e dalle tegole del tetto marroni. Percorse il vialetto circondato da un giardino molto curato, con l'erba tagliata corta e delle aiuole variopinte, che collegava la strada alla porta di ingresso. Appoggiò la bici di fianco a un cespuglio, la mise in piedi grazie al cavalletto, e prese dal cestino la bottiglia di cola.
Suonò il campanello e dopo qualche secondo la porta, di legno marrone chiaro, si aprì, rivelando la figura del ragazzo.
«Entra pure.» disse quest'ultimo con un sorriso forzato.
L'ingresso era di medie dimensioni e comunicava direttamente con un ampio salotto. Una piccola credenza sul lato sinistro aveva al di sopra delle vecchie foto raffiguranti un bambino. Kilie si mise a osservarle attentamente. Marcus era bello anche quando aveva cinque anni.
«Tieni, questa è per dopo.» annunciò rendendosi conto di essersi imbambolata davanti a quelle cornici. Porse la bottiglia verso il proprietario di casa. Sorrise mentre lui la guardò male.
«La plastica inquina.»
Prese dalla sue mani la bevanda e se ne andò a riporla nel frigorifero in cucina, lasciando di stucco la ragazza. Quest'ultima andò a sedersi sul divano di pelle nero. Davanti a esso c'era un piccolo tavolino di vetro, con al di sopra un centrotavola bianco ricamato.
«Senti, forse prima di iniziare il lavoro è meglio risolvere quello che è successo.» disse Marcus che nel frattempo era tornato dalla cucina. Un'espressione seria adornava il suo viso. Stava sfregando le dita delle sue mani tra di loro, come se fosse estremamente stressato. Non riusciva nemmeno a guardarla in faccia, anche se avrebbe voluto farlo. Dannazione, l'avrebbe fatto se solo il suo ego glielo avesse permesso. Gli piaceva tutto di quella ragazza, ma lei sembrava non provare le stesse cose che provava lui, o almeno, non gli pareva che l'attrazione fosse ricambiata.
«Inizio io: ti devo chiedere scusa. Sono stata troppo scontrosa con te e non dovevo. Mi stavi solo aiutando.»
Kilie si fermò per fare un risatina che, invece di alleggerire la tensione che si era creata, la aumentò. «Ok, sono seria ora. È colpa mia. Mi puoi perdonare?»
«Sì.» rispose Marcus cercando di mantenere un'espressione che non lasciasse trapelare alcuna emozione, ma fallì miseramente, perché sul suo viso fece capolino un piccolo sorriso.
«Ora, però, mettiamoci al lavoro.» disse infine lui sollevato.

Marcus Ward era un ragazzo di aspetto mediocre, castano e con gli occhi marroni. Visto dall'esterno poteva sembrare il classico adolescente pieno di ragazze e amici, che organizza feste e gioca a Football nella squadra della scuola. Invece era l'esatto contrario. Almeno, lui voleva essere uno popolare, ma il suo carattere non glielo permetteva. Era troppo gentile e tutte le persone lo ignoravano. Sì, era strano che non avesse amici, ma era la triste verità: le persone preferiscono avere amici popolari, perché conviene non avere nessun rapporto dal lato emotivo con una persona, così, quando l'hai usata abbastanza, è più facile abbandonarla. Almeno questa era l'impressione che si era fatto sui suoi coetanei.
Ogni sera si guardava allo specchio. Si osservava attentamente, cogliendo ogni minimo particolare del suo viso. Dai capelli, alla forma delle labbra. Poi chiudeva gli occhi, faceva lunghi respiri, riapriva gli occhi di colpo, correva in bagno e ci si chiudeva a chiave dentro. Si sedeva sulla vasca che si trovava nella stanza e richiudeva gli occhi. Cercava di controllarsi, di darsi delle risposte, ma non le trovava mai. Si faceva del male psicologicamente, si convinceva di essere brutto, di avere un carattere brutto, di non piacere a nessuno.
Tutto questo, però, non succedeva più da quando aveva incrociato lo sguardo di Kilie ed era stato colpito da una sensazione che non aveva mai provato prima. Quindi si chiudeva in bagno, si sedeva sulla vasca e chiudeva gli occhi. E non appena lo faceva la sua mente vagava in un mondo in cui a lui sarebbe piaciuto molto vivere, dove lui e Kilie erano fidanzati, dove mangiavano insieme a scuola, dove facevano passeggiate in centro città, dove uscivano insieme la sera e dove si trovano in camera sua, sul suo letto. E tutto questo pensare gli dava le risposte che cercava da tempo.

«Tieni.» Kilie porse a Marcus un bicchiere di plastica contenente della cola. Poi ne prese un altro per lei.
«Grazie.» rispose debolmente lui avvicinando alla bocca la bevanda. Appena ebbe finito di bere prese il portatile dalla sua camera e lo portò in salotto dove Kilie lo stava aspettando.
«Su cosa pensavi di fare la ricerca?» le domandò il ragazzo aprendo il pc e appoggiandolo sul tavolino da caffè.
«Non sono un'esperta dell' antica Roma, ma mi ricordo alcune cose che mi hanno detto durante una lezione di storia nella mia vecchia scuola.»
Marcus la stava ascoltando molto attentamente. Gli piaceva la voce della ragazza. Intanto, con il piccolo mouse che aveva attaccato al portatile, stava aprendo le schede di Google e di Word.
«Mi avevano spiegato alcuni dei lavori, diciamo, più bizzarri. Quello che mi è rimasto più impresso è quello della prefica. La prefica era una donna che veniva pagata per andare ai funerali e piangere per il defunto. Talvolta, per dimostrare il dolore, oltre a versare lacrime, si graffiava la faccia con le mani, si strappava i capelli.»
«Ok, credo che la descrizione possa bastare.» la interruppe il proprietario di casa accennando un sorriso. «Facciamo questo. Perlomeno è originale.»
Il ragazzo si mise a schiacciare velocemente i tasti del pc e a digitare parole sulla barra di ricerca. Aprì il primo sito che parlava di prefiche, saltando Wikipedia.
Kilie si avvicinò a lui per guardare meglio lo schermo. La ragazza era ormai attaccata a Marcus, ma la sua attenzione era completamente sullo schermo. Marcus invece la perse. Stava continuando a scorrere quelle informazioni come se le stesse leggendo, ma la sua mente era altrove e di certo non voleva tornare su quelle stupide parole. Sentiva il suo fiato della giovane sul collo. Il braccio che sfiorava il suo. I capelli lunghi che gli stavano pizzicando la guancia. Il suo cuore stava accelerando pian piano, come se fosse un roller coaster che stava prendendo velocità. Le dita, ormai, si muovevano a ritmo con il respiro della ragazza. A Marcus tutto il mondo sembrava incentrato su di loro in quel preciso momento, sembrava ruotare attorno a quella stanza. Girò leggermente la sua testa e si ritrovò davanti al viso di lei. Era sicuro di un'altra cosa: gli piacevano anche i suoi occhi.

L'esposizione della ricerca sulle prefiche andò bene. Tutti gli altri studenti che partecipavano al corso avevano scelto lavori a dir poco banali, e questo rese il compito di Kilie e Marcus più interessante. Lo diceva anche la A che era stata assegnata loro. Alla fine della lezione, contenti del risultato, i due ragazzi si avviarono in mensa per pranzare.
Quello era il luogo perfetto per farsi venire il mal di testa: orde di studenti seduti ai tavoli che, invece di mangiare, parlavano, urlavano e a volte si picchiavano. Quello era il momento della giornata più desiderato dai liceali, ma di certo non da Kilie. Quando lei e il suo compagno di classe si addentrarono dentro quella giungla, si guardarono intorno alla ricerca di un posto, ma l'unico libero era in mezzo all'enorme stanza; in mezzo alla folla.
La ragazza indietreggiò di qualche passo. Qualcosa la bloccò, anzi, qualcuno. Marcus le prese la mano sinistra e la invitò dolcemente ad avvicinarsi a lui. Kilie, titubante, avanzò di qualche centimetro, fino a trovarsi fianco a fianco a lui. Passarono in mezzo ai tavoli circolari blu e arrivarono al buffet, dove due uomini e una donna anziana stavano servendo panini, primi piatti e bevande agli studenti.
«Prendiamo da mangiare e usciamo.» le sussurrò Marcus all'orecchio. Ancora stretta al busto di lui, Kilie si stava concentrando a respirare normalmente e a non pensare di essere in mezzo a tanta gente. D'altra parte, però, si sentiva come protetta tra le braccia di quel ragazzo, come se fungessero da barriera. Una barriera che divideva lei dal resto del mondo.
«Ti va bene un sandwich con tonno e maionese?»
«Non c'è qualcos'altro? Il tonno non lo mangio, sono vegetariana.» rispose lei un po' spaesata.
«Vediamo... Un panino al formaggio può andare?»
«Sì, va benissimo.»
Presi tutti gli alimenti si diressero nel giardino della scuola e si sedettero sopra a un muretto. Per alcuni minuti l'unico rumore che si sentì fu il movimento delle mascelle e dei denti che masticavano il cibo, l'apertura delle confezioni di plastica, il riversarsi dell'acqua nei bicchieri. Tutto questo aumentava il silenzio imbarazzante, amplificandone l'effetto. Si udiva anche il mormorio delle persone all'interno della mensa, le uniche parole che circolavano in quell'attimo.
«La plastica inquina.» disse Kilie prendendo in mano una confezione che pochi secondi prima conteneva due biscotti al cioccolato. Marcus sorrise.
«Mi dispiace per i tuoi genitori. Te lo volevo dire prima.»
«Non ti devi preoccupare, ormai è passato. Quello che mi spaventa è il non riuscire a liberarmi di quegli attacchi di panico. Non so se mi capisci.»
«Non ti potrò mai capire, ma stai certa che prima o poi passerà tutto.»
Sorrise anche lei. Forse era vero, forse no. Fatto sta che quelle parole, lettera per lettera, le sembrarono autentiche e ricche di speranza. Il mondo le era crollato addosso già una volta, perché avrebbe dovuto rifarlo? E perché quello che era successo un anno fa doveva per forza influenzare il suo presente? La risposta, per quanto difficile potesse essere da trovare, c'era. E lei l'avrebbe trovata. Avrebbe trovato il modo di liberarsi di tutto quello che la appesantiva.
«Senti. Ti volevo chiedere una cosa.»
L'attenzione della ragazza ritornò a Marcus che, non appena incrociò il suo sguardo, continuò il discorso. «Ad Halloween un ragazzo organizza una festa. Un party, credo. Ecco, mi domandavo se ti piacerebbe andarci con me. So che non ti va a genio stare in mezzo a tanta gente, ma credo che sia un passo avanti per superare le tue difficoltà.»
«Non sono mai stata a un festa, neanche quando non avevo gli attacchi di panico. Non lo so. Non sono riuscita a stare neanche dentro la mensa, figuriamoci in mezzo a tante persone in uno spazio ancora più stretto.»
«Va bene, non voglio costringerti.»
Si guardarono tutti e due, analizzandosi come per studiare ogni minimo particolare delle proprie facce. I lineamenti del viso, il colore degli occhi, il sorriso.
«Perché c'è Lexi dietro di te?»
Kilie non ebbe il tempo di girarsi che la voce di quella ragazza che tanto odiava le invase le orecchie. Stava ridendo. Ridendo e correndo. Kilie non ne capì subito il motivo, ma quando la vide sventolare il suo cellulare in aria si alzò di scatto. Quella stronza, quasi sussurrò. Cominciò a rincorrerla e si vedeva che lei era molto più veloce di Lexi. Ormai la stava per raggiungere. L'unica cosa che le separavano erano le gradinate dell'ingresso e la porta di vetro. Appena varcata quest'ultima, qualcosa le fece perdere l'equilibrio. Il tempo si fermò. Sotto di lei c'era il pavimento grezzo della scuola, sporco, dato che era percorso quasi ogni giorno da centinaia di studenti. La risata acuta era ancora nelle sue orecchie, martellava nella sua testa. Si interruppe solo dopo un tonfo sordo. Un tonfo che le fece perdere la cognizione di qualsiasi cosa, sé stessa compresa. 

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