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38. «Di che cosa hai paura?»

Sotto i raggi del sole battente di aprile, da una delle tante stanze del Policlinico, provenivano voci e risate, come se tutto quel casino, fatto di chiamate d'emergenza e suoni di macchinari, non fosse mai esistito.

«E come continua, poi?» Una voce femminile riecheggiava soave nell'aria, nonostante se ne sentisse l'affaticamento, tra le varie parole.

«Ma se uno dicesse: "io sono perfettamente sano e voglio stare sano; io sono ricco e voglio star ricco, cioè mi riscaldo per tutte quelle doti che già ho", non resterebbe a noi che dirgli: "amico, tu che sei già padrone di ricchezza, buona salute, forza, vuoi esserne padrone anche in avvenire, dal momento che già oggi, che tu voglia ammetterlo o no, ne sei possessore.»

La donna scosse la testa con dolcezza, restando comunque a guardare il suo interlocutore piacevolmente stupita. I capelli cortissimi color della cenere le conferivano un aspetto ordinato, nonostante avesse una mascherina sul viso che l'aiutasse a respirare meglio. '

«Il fatto che Platone abbia detto cose vere è innegabile. Cioè, chi è che non vorrebbe restare nella propria condizione, se già agiata, o comunque buona, in partenza?»

«Eh, mia cara compagna di stanza» rispose l'uomo, coperto anch'esso dalla maschera, ritornando sulle pagine del Simposio. «Dunque il nostro uomo, può essere chiunque, che brucia di desiderio, brucia per qualcosa che non ha in pugno, che non è attuale; o meglio, ciò che non possiede, ciò che lui non è, di cui sente il vuoto, tutto questo è oggetto del caldo desiderio suo, del suo eros?»

«Per forza» rispose la donna.

«Ecco, tu e Agatone, se foste stati insieme, avreste risposto così.»

Una piacevole conversazione si era instaurata tra i due compagni di stanza, tralasciando quali fossero le loro condizioni. Anzi, quel piccolo spezzone di cultura stava rinfrancando loro lo spirito e li stava curando, in un certo senso, più di ogni altro medicinale.

«Nonno Andrea! Ancora con questa storia del ricco e del sano di Socrate?» Vittoria interruppe quel momento di lettura così intenso con un paio di frasi quasi esasperate, ma con un tono abbastanza divertito. Sì, la dottoressa sorrideva eccome, ma le mascherine annullavano quasi tutto il bello che il suo volto poteva e voleva mostrare.

«Ma è bella! Dovresti leggerla anche tu, sai?»

«Me l'hai già raccontata tante volte, quasi la conosco a memoria!» continuò a stare al gioco, mentre controllava i suoi parametri vitali e quelli della paziente accanto, la quale non riusciva a staccarsi da lui. Era rimasta totalmente ammaliata dall'anziano professore, tanto da non dare neanche così tanto ascolto al personale sanitario.

«È molto intelligente, lo sa?» asserì la donna, guardando in faccia Vittoria.

E come poteva non darle ragione?

«Lo so, ma non urliamolo ai quattro venti, perché poi... chi lo sente più!»

Tutti e tre, in quella stanza piccola, ma confortevole, risero di cuore.

Anche se Nonno Andrea, dopo qualche secondo, fu costretto a fermarsi per i violenti colpi di tosse che lo stavano cogliendo alla sprovvista.

«Va tutto bene. Adesso, cerchiamo di parlare meno e respirare di più, d'accordo?» Nonostante il bene dell'anima che gli volesse, Vittoria non si fece problemi nel riprendere e riportare sulla strada maestra il professore Chinnici.

«Tesoro, so badare a me stesso! Pensa prima agli altri, io sto bene» la rassicurò lui, tenendosi la mascherina con una mano e voltandosi alla propria destra, in direzione della finestra che dava sul complesso ospedaliero e sulla via Santa Sofia quasi deserta, se non per le volanti delle forze dell'ordine e per le ambulanze.

«You don't fool me, you don't fool me

You don't fool me!»

Vittoria scosse la testa, pensando a quanto cocciuto fosse quell'uomo, cambiando poi le bombole d'ossigeno a entrambi i letti.

«A proposito, tu lo sai che non dovresti essere in mezzo a questo casino, vero?»

La dottoressa Conte alzò la testa lentamente, mentre finiva di agganciare il tubo al supporto d'ossigeno. Non era la prima volta che qualcuno glielo facesse notare e ciò le stava infondendo solo altra insicurezza, quasi come se nessuno non la conoscesse abbastanza da sapere che non era così sprovveduta e impacciata. Perché continuavano a non fidarsi di lei e del suo senso di responsabilità, a distanza di anni?

«So benissimo quello che faccio» rispose quasi secca. «E inoltre, ho già programmato tutto per gli studenti, così come le varie videolezioni che dovrò fare online.»

Nonno Andrea continuò a guardarla con sguardo serio, lasciandosi andare poi a un tenero sorriso. «So bene quanto tu sia impeccabile nell'organizzazione. Ma lo stai vedendo anche tu: questo virus è pericoloso e subdolo. Mi raccomando, fa' molta attenzione, Vittoria.»

La dottoressa sospirò, poi si voltò a guardarlo, annuendo con lentezza, ma mostrando rispetto e riconoscenza.

«You don't rule me, you're no surprise

You're telling lies, hey, you don't fool me.»

Doveva veramente tutto a quell'uomo, per tutte quelle volte che le era stato accanto, che le aveva offerto una spalla su cui piangere e in cui le aveva dato tante di quelle lezioni di vita che mai avrebbe dimenticato.

Nonno Andrea, per lei, così come per tutti gli studenti di Odontoiatria, era una roccia incrollabile, l'unica persona su cui si poteva contare. Onesto e corretto dall'inizio alla fine, severo, ma anche buono, come il pane caldo.

Vittoria fece qualche ultima raccomandazione ai due pazienti, poi uscì dalla stanza, ritornando in quella trincea piena di barelle occupate e personale sanitario al lavoro.

Come tutti coloro che erano in prima linea, sapeva di stare rischiando, ma ce l'avrebbe messa tutta, per quello che poteva dare. Camminò a passo lento lungo uno dei corridoi, dove le pareti color panna del reparto delle degenze sembravano un po' provate da tutto quel casino, dato il tono lievemente ingiallito che le caratterizzava.

Anche lei, a guardarle, si sentiva allo stesso e identico modo: corrosa, stanca, custode di tante vicissitudini, belle e brutte. Avrebbe solo voluto trovare un modo per svuotarsi da cima a fondo, come una botte di vino.

Un vino di cui era già ubriaca e stufa da anni, da tanto tempo.

Ma ci stava pensando già Edoardo a svuotarla e ridargliene uno nuovo, più saporito... più vero.

Si vedevano poco, in quel periodo, ma la cosa che più la rallegrava – e anche lui, notando da come ogni volta le sorrideva – era uscire all'aria aperta e parlargli, anche se delle più grandi stupidaggini.

Non avrebbe mai smesso di ripeterlo, né a lui, né a se stessa: bastava che ci fosse Edoardo e lei si sentiva già a casa. Non le serviva nient'altro.

«Sai, ai tempi del mio tirocinio, stavo così, come te, a reggere i muri in reparto!»

«Ciao, zia!» esclamò Vittoria, abbastanza sorpresa di essere riuscita a beccarla. Sapeva che fosse stata impegnata nell'emergenza sin dall'inizio, ma non aveva mai avuto l'occasione di vederla sul campo, in quelle poche volte in cui veniva a dare una mano.

«Qui ci pensiamo noi, puoi andare in pausa, se vuoi» rassicurò la dottoressa, poggiando una mano sulla spalla della nipote. Un suono plastico si ripercosse su Vittoria: non era lo stesso di un abbraccio, ma avrebbe dovuto accontentarsi, almeno per quel momento.

Quanto le sarebbe piaciuto scambiare qualche parola anche con lei, a voler recuperare tutto il tempo perduto!

Anche se i modi con cui si erano ritrovate non erano stati dei migliori, Vittoria si era ammorbidita parecchio nei confronti della zia; forse, nel giorno in cui si erano riviste, nel suo ufficio, l'aveva attaccata troppo presto, addossandole quasi tutte le colpe di quell'abbandono subito anni prima.

Questo, però, non giustificava minimamente il padre. Anzi, lui era il primo a stare al banco degli imputati.

E voleva proprio capire cosa l'avesse portato lì.

«Senti, zia» iniziò lei, a piccoli passi. «So che questo non è esattamente il momento giusto per parlarne, ma...»

«Qualunque cosa sia, usciamo da qui, così ci abbassiamo pure le mascherine per un po'» la bloccò Simona, facendole segno di seguirla all'esterno del reparto.

Facendo slalom tra i vari colleghi, le due donne uscirono all'aria aperta, sulle scalinate esterne attaccate alla struttura. Da lì, si poteva godere di una visuale panoramica su tutta la zona universitaria di via Santa Sofia, con il Policlinico, la Torre Biologica poco più giù e la Cittadella Universitaria, ancora più in fondo, ma sulla stessa linea dell'ospedale.

Per provare a tranquillizzarsi, Vittoria immaginò, per un momento, di avere i piedi sulla sabbia e l'acqua salata del mare a solleticarla fino alle gambe. Fare lunghe passeggiate lungo la riva era l'unico desiderio che albergava in lei, lontano dai reparti e da quell'atmosfera così surreale.

«Bene, dicevi, cara?» Simona s'intromise nel suo rimuginare e costruire immagini al momento irraggiungibili.

Vittoria si voltò alla propria destra, osservandola mentre si abbassava le mascherine e dava una sistemata ai propri capelli, spezzati e scombinati: una massa color cacao di fili e filini senza un orientamento.

«In questo periodo, abbiamo parlato poco, soprattutto a causa dell'emergenza pandemica, ma sento la necessità di chiederti una cosa.»

«Riguarda papà, vero?»

La giovane dottoressa Conte annuì lentamente, stringendosi un po' nelle spalle. Aveva capito che sua zia avesse già previsto quella domanda: probabilmente, era stato proprio il motivo per cui l'ha portata fuori dai letti d'ospedale.

«Perché te ne sei andata, quel giorno? Che cos'era successo tra te e lui?»

Simona sospirò, puntando poi lo sguardo impassibile negli occhi della nipote.

«Niente che tu non sappia già, in realtà. Io e tuo padre, quando eravamo piccoli, avevamo un buon rapporto, nonostante fossimo entrambi molto vivaci... »

«Mettere su una testa pensante era difficile, immagino!»

Le due donne risero, poi la zia riprese il racconto. Vittoria notò con quanta velocità si spense il leggero sorriso dell'altra; sapeva che non sarebbe stato facile per lei parlarne e, per questo, si sentiva in colpa. Ma aveva bisogno di risposte.

«Prima di tornare a Roma e tentare di ricucire i rapporti con lui, ho vissuto per molto tempo a Milano, dove mi sono laureata in Medicina e specializzata in Chirurgia Generale e Oncologica» continuò, apparentemente tranquilla. «Poi, ho ricevuto un'offerta al Policlinico Gemelli di Roma e quindi, diciamo, ho colto l'occasione per trovare un dialogo con lui. All'inizio, devo ammetterlo, è stata più dura del previsto: al mio arrivo, non ho ritrovato tuo padre, ma un'altra persona, come se non l'avessi mai vista, né mi ci fossi mai rapportata.»

Vittoria ritrasse la testa, sorpresa da quelle parole. Se era vero, cosa poteva averlo cambiato, negli anni?

Lei stessa?

La mamma di cui non aveva più notizie?

«Com'era papà, prima?»

Simona fissò di nuovo l'altra negli occhi, più seria e dispiaciuta che mai. «Era la persona più scalmanata, ma gioiosa che potessi aver mai conosciuto in vita mia. Credimi, quando ci siamo rivisti, per la prima volta dopo tanto tempo, non era l'Eugenio Conte che conoscevo. Non era il mio fratellone.»

Vittoria poté leggerle negli occhi il dolore di una sorella che, a distanza di anni, aveva ritrovato un fratello completamente diverso dal modo in cui era sempre stata abituata a conoscerlo.

«Era l'unico in grado di sollevarmi il morale, soprattutto quando nonno Ettore ci alzava le mani e io... » s'interruppe Simona, poggiando la fronte sul corrimano metallico della ringhiera, con il vuoto che si apriva quasi sotto di lei. Si fece scappare un paio di lacrime, mentre quei dolorosi ricordi del passato riemergevano in superficie.

Vittoria le passò una mano sulla spalla, non potendola abbracciare a causa dei protocolli di sicurezza anti-Covid.

«Non volevo che parlare di papà ti portasse a questo... scusami» seppe solo dire Vittoria, con un profondo senso di colpa che la stava iniziando a distruggere dall'interno.

«Non hai motivo di rimproverati. Anzi, è giusto che tu sappia.» Simona lasciò che le ultime lacrime cadessero dal viso, solcando per sempre quelle distese rosee e delicate, ma lavando via anche un po' il nero che quei momenti bui avevano portato.

«Hai idea del perché sia cambiato? Pensi che sia stato per via della malattia?»

La dottoressa Conte, quella più grande, chinò il capo, scuotendolo lentamente.

«Questo proprio non lo so. Abbiamo recuperato tante cose, in quegli anni, ma non ha mai parlato di come si sentisse realmente. E non ha mai parlato di tua madre, a pensarci bene.»

A Vittoria mancò un battito. Sentire la parola mamma, per lei, era una mazzata bella forte, dato che la cercava da anni, senza averne notizie.

«Immagino che, al solo sentirlo, la sua reazione non sia stata una delle più pacate... »

Simona, rassegnata, fece di no con la testa, testimoni i suoi occhi un po' vacui.

«Dimmi la verità, Vì: la stai cercando, non è così?»

Vittoria non poté che annuire, alzando poi la testa al cielo e divaricando leggermente le gambe, per distendere meglio la schiena e sistemare la postura.

Il problema era che, oltre al suo corpo, c'era un macigno che stava sorreggendo, quello di non avere mai saputo la verità, né su suo padre, né sulla madre.

«Dato che ho vissuto quasi sempre con papà, la vedevo molto poco, da piccolina... e, a volte, ho come la sensazione che più il tempo passi, meno ricordi mi restino di lei. Tu non ne sai proprio nulla, vero?»

«Te l'ho detto, tuo padre non è mai stato di tante parole, almeno su questo. Però credo di poterti dare una pista da cui partire.»

«Cioè?» domandò super curiosa, sperando che non si trattasse di una balla.

«Un giorno, mentre ero impegnata a sistemare casa, ho notato una cosa strana, nel suo armadio. Stavo posando dei vestiti e, in alcuni cassetti, ho trovato dei diari con tanti foglietti in mezzo e altri un po' più vuoti» rivelò la donna. «Pensavo si trattasse di materiale militare e, in un primo momento, ho lasciato perdere.»

«E invece, li hai aperti... »

«Erano diari personali, dei suoi pensieri. C'era di tutto, tranne qualsiasi appunto sul suo lavoro. Parlavano di lui, di te, di me... e anche di un'altra persona, ma le aveva dato un nome strano.»

«Del tipo?»

«Ora non ricordo bene, dato che, quell'unica volta in cui ho trovato i diari, ho sfogliato tutto molto velocemente... ma credo fosse qualcosa in dialetto siciliano, altro non so dirti.»

Vittoria stentava a credere al fatto che suo padre, che era sempre stato freddo nei suoi confronti e quasi sempre distaccato, fosse un tipo da diari e sfoghi in segreto. Anche se, a pensarci bene, poteva essere l'unica via di fuga da quella realtà fatta di piani strategici e leggi da rispettare.

Ma che ne poteva sapere lei?

Se lo ripeteva spesso, come una cantilena asfissiante. Che ne poteva sapere di ciò che provava davvero quell'uomo, se neanche le aveva dato la possibilità di comprenderlo?

Che ne poteva sapere di cosa lo uccideva, al punto da spingerlo a essere ostile con chiunque, persino con la propria figlia?

Tutte quelle informazioni, seppur non fossero tante, la stavano devastando al punto da procurarle un fortissimo mal di testa.

«Il solo pensiero di ritornare a casa mi distrugge... » pensò lei a voce alta, con un tono di voce diventato flebile per il dolore e il peso del passato che si faceva sentire a ogni istante che passava. Non avrebbe voluto mai più rimettere piede in quell'appartamento immerso nelle palazzine vicino Piazza Barberini, a Roma, ma forse era l'unico modo per chiudere definitivamente quella storia.

«Lo so, tesoro, lo so» si avvicinò Simona per confortarla.

L'altra, invece, alzò lo sguardo verso quello della zia, guardandola dritto negli occhi per qualche secondo. Si sentiva oppressa e spaventata, in un vicolo cieco, senza possibilità di fuga, ma quello che fece subito dopo sconvolse entrambe.

Simona si sentì cingere il corpo in una stretta mai sentita prima, con Vittoria che poggiava la testa all'altezza del suo seno. Tra la mente sua e il cuore della zia, il Primario trovò il modo di alleviare quella sensazione di malessere, nonostante l'altra non fosse la persona a cui avrebbe dato un abbraccio di spontanea volontà.

Invece, aveva appena cambiato le carte in tavola, sperando che Simona le reggesse il gioco o quella partita sarebbe stata solo inutile.

Una partita tra lei e il suo passato.

Una partita tra le sue domande e il coraggio di rispondervi.

«Ho paura, zia.» Il panico stava conquistando ogni centimetro dell'anima di Vittoria, perdendo continuamente facoltà di autocontrollo e raziocinio. Si staccò dall'abbraccio, con i palmi delle mani madidi di sudore, la fronte anch'essa imperlata e il respiro in affanno. «Non ci voglio tornare, ma devo farlo. Rivedo spesso papà nei sogni e, ogni volta che succede, il mio cuore si consuma sempre di più. Come potrò mai rimettere piede a casa? Come potrò mai capire cos'è successo, se non riesco neanche a controllare le mie emozioni? Come potrò-»

A quel punto, fu Simona a prendere iniziativa, stringendo la nipote tra le proprie braccia. Questa si lasciò andare a un pianto forte, ma liberatorio.

«Ricordi cosa ti dicevo per calmarti, quand'eri più piccola?» Fu questa una prima frase che riuscì a uscire dalle corde vocali della zia, mentre accarezzava la testa dell'altra, la quale diede responso negativo.

«La paura è come una foglia secca, brutta e cattiva... »

«... ma puoi staccarla, farla a pezzi e lasciarla libera nel vento» completò Vittoria, rievocando i momenti in cui la zia l'aiutava a far ritornare il buonumore, dopo le litigate con il padre.


I palmi delle mani verso l'alto, gli uni di fronte agli altri. Simona di fronte a Vittoria, con solo un ospite da scacciare.

«Prendi la paura, pensaci per un attimo e poi... soffia forte sulle mani!»

Vittoria chiuse gli occhi, immaginando quel mostro che la stava spaventando tanto. Immaginava di prenderlo e risucchiarlo forte, per poi ributtarlo sulle sue mani, con un soffio potente, e schiacciarlo.

«Wow, sei più brava del lupo dei tre porcellini!» scherzò Simona, tirando fuori uno dei più bei sorrisi della piccola Vittoria, la quale continuava a fissare i propri palmi delle mani. «Ora, battile forte e fai sparire la paura!»


Un colpo secco si propagò nella scalinata in acciaio del Policlinico, ripercorrendo quel momento d'infanzia che non sapeva di dolore e frasi spregevoli, ma di tenerezza e amore familiare.

«Ora, sfrega le mani per fare la paura in tanti piccoli pezzi, giusto?»

«Questo perché non te lo ricordavi più!» Simona poggiò i propri palmi sui dorsi dell'altra, per aiutarla a calmarsi, mentre questa faceva avanti e indietro con dolcezza, poi con violenza, a momenti alterni. «E adesso, ti ricordi come finivamo?»

«Paura brutta, paura cattiva, vola via e non tornare più!»

E i palmi si rischiusero, su cui poi si adagiò un altro soffio, come a voler mandare via i pezzi di quel mostro.


Nonostante fosse solo un gioco per bambini, Vittoria sentì una sensazione di sollievo immediato. Non sapeva se fosse per quei gesti e per quelle frasi, oppure perché aveva risvegliato una parte bella della sua infanzia, dandole un po' di sicurezza in più per affrontare quel passo – forse – più lungo della sua gamba.

«Andrà tutto bene» la rassicurò Simona. «So che è difficile, ma è l'unico modo per saperne di più su papà e, forse, anche su tua madre.»

Vittoria annuì convinta, poi tornò ad abbracciare la zia, ringraziandola di cuore. Non era di certo felice al cento percento, ma aveva conquistato quel pizzico di coraggio che le serviva per andare avanti.

«You don't fool me, she'll take you (you don't fool me) break you (you don't fool me) and break you

Sooner or later you'll be playing by her rules!»

Da lontano, nel bel mezzo del corridoio centrale, Edoardo osservava da lontano lo svolgersi di quella scena, così strana e surreale, ma tenera ai suoi occhi. Si sentì meglio a pensare che Vittoria stesse recuperando il rapporto con la zia, nonostante ci fossero tanti ricordi infelici che la frenassero.

A onore del vero, lei gli aveva spesso chiesto consiglio, ma lui mai si sarebbe intromesso più di tanto, dato che non gli competeva minimamente. A meno che Vittoria non l'avesse tirato dentro di sua spontanea volontà, avrebbe sempre cercato di vivere quella situazione da esterno, nulla più. Forse per paura di darle un parere fin troppo influenzato da tutta la situazione: in quel caso, l'unica arma da imbracciare e adoperare era l'imparzialità.

Il dottor Rinaldi, osservando le stanze piene di pazienti Covid attorno a sé, decise di avviarsi verso il polo opposto a quello in cui si trovava Vittoria, verso gli atrii interni del reparto di Malattie Infettive del Policlinico.

Trovò Davide in procinto di sistemare alcuni carrelli per le emergenze, andando poi a dargli una mano.

«Serve aiuto?»

«Cercavo le garze sterili, non le trovo da nessuna parte» sbuffò Davide, grattandosi il capo coperto dalla tuta protettiva. A primo impatto, sembrava un po' confuso.

Edoardo, meravigliato, allungò la mano sul ripiano più alto del carrello, prendendone due confezioni e sbandierandole agli occhi dell'altro. «Erano qui, davanti a te.»

«Ah, sì... giusto» sospirò l'altro, a tratti balbettando e poi stringendosi nelle spalle.

"Qui c'è qualcosa che non va" convenne Edoardo, tra sé e sé. Ritornò a guardare il suo migliore amico, che fissava il carrello, quasi bloccato. Braccia conserte, testa inclinata verso destra: lo conosceva fin troppo bene per capire che fosse fin troppo in sovrappensiero. Non era da lui non notare dettagli palesi, per di più, ai propri occhi. Allora, gli fece cenno di seguirlo, con la scusa di dover recuperare un po' di materiale dai depositi, percorrendo quasi tutto il lungo corridoio del reparto.

Alla porta, entrarono entrambi e il dottor Rinaldi chiuse a chiave, poggiandosi poi sull'anta stessa, con le mani dietro la schiena. L'unico elemento che lo distingueva da un soldato dell'esercito di Star Wars era l'assenza di un'arma; per il resto, era praticamente identico.

«Che devi prendere, di preciso?» Davide si diede un'occhiata intorno, giusto per provare a capire di che cosa avesse bisogno il suo migliore amico. Questi non rispose, solo sospirò e iniziò a fissarlo con uno sguardo a metà tra l'inquisitorio e l'esasperato.

Davide continuò la sua perlustrazione, in attesa di una risposta da parte di Edoardo. Questi stette in silenzio, non dicendo nulla, solo riflettendo a quanto il suo migliore amico fosse da tutt'altra parte fuorché lì, insieme a lui. Lo sentiva, c'era qualcosa che lo stava turbando nel profondo: riconobbe quella scintilla di richiesta d'aiuto nel suo sguardo, la stessa che gli brillava dentro quando era sotto il gioco di Marika.

Che fosse ritornata nella sua vita? Ormai, era pronto a tutto.

«Allora?»

«Il bisogno di capire cos'hai, solo questo.»

Davide rise da sotto le mascherine, come incapace di comprendere.

«Io sono a posto.»

«Bene, allora perché hai ricontrollato i carrelli mille volte e cercato delle garze che erano davanti ai tuoi occhi?» lo colse in fragrante Edoardo. «Non sono stupido, sai?»

«Nessuno ha mai detto questo.» Davide alzò le mani all'altezza della testa, poi si tolse i dispositivi di protezione dal viso. Non capiva perché l'altro fosse così strano nei suoi confronti.

«Hai troppo pensieri per la testa e questo non ti fa lavorare bene» continuò l'altro, abbassandosi le mascherine e alzandosi gli occhiali protettivi, rivelando i segni rossi sul viso dovuti ai dispositivi di protezione. Sentiva un po' di fastidio, ma era tranquillamente sopportabile. «Davide, che sta succedendo?»

«Niente.»

«Devo ricordarti com'è andata a finire l'ultima volta in cui ti sei rinchiuso in te stesso?» Sapeva di aver toccato un tasto dolente, ma era l'unico modo vincente per farlo parlare.

«Non c'è bisogno di infierire ulteriormente, Edoardo» commentò l'altro secco, facendo per andarsene. «E so badare benissimo a me stesso.»

«You don't fool me, you don't have to say 'don't mind'

You don't have to teach me things I know!»

L'altro, di tutta risposta, lo bloccò con una mano all'altezza del petto.

«Posso tornare in reparto o mi tratterrai qui per il resto del turno?»

«Non ti lascio stare finché non parli.»

«Bene, allora avremo un bel po' di tempo da passare qui dentro.»

Edoardo, stufo, ritornò all'attacco. «Non sono stupido e non pensare che io non abbia notato che te la fai spesso con Federico. C'è qualcosa che devo sapere?»

«Che c'è, hai paura che ti rimpiazzi come migliore amico?» Davide incrociò le braccia al petto, ancora più nervoso di prima. «E comunque, non c'è niente di cui parlare.»

«Nessuno ha mai detto questo» replicò Edoardo, con le stesse parole usate prima dall'altro. Rise di cuore, poi notò quanto stessero tremando le braccia all'amico, soprattutto perché cercava di stringerle fortissimo per camuffare quell'effetto, ma senza risultato. «Invece di fare il finto tranquillo, parla e la finiamo qui.»

Davide si voltò dall'altra parte, fissando i vari scaffali pieni di dispositivi medici e medicinali destinati ai pazienti Covid. Scosse la testa piano piano, non pronunciando altre parole. Poi, si sentì una mano sulla spalla stringerlo a più riprese.

Aveva un peso sul cuore non indifferente, ma Edoardo, ancora una volta, gli stava dimostrando che l'avrebbe aiutato a sorreggerlo, insieme.

«Ho paura, ma davvero tanta. Sembra così stupido, ma adesso ho solo voglia di piangere. Il mio cuore sta soffocando, io sto soffocando.»

Edoardo, con fare delicato, si portò dal lato opposto e strinse le braccia attorno a quella persona che, in quei momenti, stava disperatamente annegando nel suo animo disilluso e disperato.

«Cos'è che ti spaventa, esattamente?»

«Che i miei sentimenti vengano uccisi, com'è successo non molto tempo fa.» Davide si lasciò andare a un pianto leggero, ma tanto potente da buttare via quelle montagne d'ansia di dosso.

Edoardo sorrise e si commosse anche lui, perché aveva appena avuto la conferma di quanto il suo migliore amico fosse forte, come le ginestre alle pendici dell'Etna: capaci di rinascere a vita nuova, dopo essere state travolte dal dolore portato dalla lava.

«Che cosa provi?»

«So solo che, grazie a Federico, mi sento più vivo che mai. Lui mi fa sentire tale, mai mi sono dovuto sentire in difetto» confessò Davide, sciogliendosi dall'abbraccio e mettendosi le mani dietro la nuca, lasciando che le ultime lacrime abbandonassero quel viso provato da un'emergenza pandemica in corso e tanto dolore incassato nel corso della vita. «Ma ho paura di starci troppo male, non voglio dirgli niente, non voglio soffrire ancora, basta!»

«Intanto calmati e fa' un bel respiro, ok?» gli consigliò Edoardo, mimandogli le pratiche di inspirazione ed espirazione, con gesti lenti e pacati. L'altro lo seguì a ruota, tranquillizzandosi un po'. «Federico non mi sembra così cattiva persona, anzi... vi ho visto molto affiatati, se devo essere sincero, soprattutto in questi ultimi mesi.»

Davide alzò gli occhi al cielo, un po' imbarazzato, ma sentire quel nome lo faceva sorridere. Edoardo non poté fare a meno di notarlo e gli mollò due pacche sulla spalla. «Sai che a me non sfugge niente, fratello.»

«Lo so, lo so. Edo, non so che cazzo fare.»

Il dottor Rinaldi rise ancora, poi puntò il suo sguardo dritto negli occhi dell'altro, come un leone verso la propria preda. «Piedi di piombo, Davì. Vai con i piedi di piombo. Ma se pensi che sia la persona giusta, allora lascia che il tuo cuore prenda le redini della situazione. In ogni caso, se dovesse finire male, ti aiuto io a mollare cazzotti a destra e a manca, va bene?»

Un'altra risata si propagò in quello stanzino piccolo, ma carico di speranza. I due ragazzi sapevano quanto pesasse il dolore dovuto a sentimenti non corrisposti o distrutti, sapevano anche cosa avrebbe potuto conseguirne dopo. Ma se c'era una cosa che avevano imparato è che nessuno avrebbe potuto abbatterli, non di nuovo.

«Dici che dovrei dirglielo?»

«Dico che dovresti smetterla di complessarti, in primo luogo. E poi... » Edoardo si avvicinò un po' di più, prendendogli la mano e stringendola a braccio di ferro.

L'altro afferrò al volo e si mise in posizione. Quel piccolo rito che aveva accompagnato entrambi per tanto tempo era quel pizzico di sale in più che ci voleva. «Another one bites the dust, in memoria dei vecchi tempi?»

«Sì... ma aggiungici un tocco di You Don't Fool Me, non si sa mai!» Entrambi risero, poi abbracciandosi. «Piedi di piombo, Davì. Ma ricordarti di essere felice, sempre.»

«You don't fool me, you don't fool me.»




The etnabooks' Corner!

Amen, ci siamo! Direi che qui abbiamo un bel po' di carne al fuoco! Sto accelerando i ritmi di scrittura, comunque, perché necessito di andare avanti e finire quanto prima!

E poi, mi sono rotta di farvi aspettare tempi eterni, non è giusto nei vostri confronti, anche se non lo faccio per cattiveria, ma per mancanza di tempo materiale!


Vi voglio bene, vi aggiorno su Instagram con il prossimo!

Claudia.

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