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34. Confessori e confessati.

* Piccole note prima della lettura: questa canzone ha un significato molto particolare, non vi obbligo ad ascoltarla - la parte diabolica che è in me vi ordina di sì, invece, LOL -, ma sappiate che la ritroveremo più in avanti... anche se fuori dal repertorio Queen, forse sarà una delle canzoni più importanti della storia, assieme a quelle di Innuendo. Enjoy! ^^ *


C'era un solo posto in cui Vittoria Conte, più di ogni altra cosa, desiderava essere sempre e comunque.

E quel posto era proprio la Clinica Odontoiatrica Universitaria, con i suoi colori, le sue stanze, il suo odore di betadine e disinfettante e il suono degli strumenti della faretra*.

In quel momento, invece, preferiva ritrovarsi ovunque, fuorché tra quelle quattro mura i cui colori non erano più simbolo di un mare quieto, bensì in tumulto.

La dottoressa iniziò a sentire freddo, ma non c'erano porte aperte, né spifferi di vento che disturbassero quel silenzio. Probabilmente erano le forti scariche di adrenalina che le intimavano di scappare.

Combatti o fuggi.

Era bloccata al centro del corridoio principale, con i pugni serrati e le labbra leggermente schiuse. Il suo volto aveva la stessa espressione di Dafne nel momento in cui veniva trattenuta da Apollo, mentre si stava trasformando in alloro.

Tutto ciò che stava attorno a lei non emetteva alcun suono, né si muoveva di un millimetro.

Combatti o fuggi.

Provò a muovere qualche passo in avanti, per capire se ci fosse qualcuno all'interno delle sale. Si voltava a destra e a sinistra, ma ogni sguardo che gettava si trasformava solo in un buco nell'acqua.

Combatti o fuggi.

Un suono sempre più prepotente si propagava nell'aria: era quello del suo cuore pompato da quel neurotrasmettitore così potente da stordirla.

Cosa doveva fare? A chi poteva chiedere aiuto?

Sembrava tutto così surreale, lì dentro...

«C'è qualcuno?» provò a chiedere, lasciando che l'aria aleggiante nei corridoi della Clinica s'impregnasse della leggera eco della sua voce. Fu allora che riuscì a muovere dei passi, scorgendo solo le porte aperte delle sale ambulatoriali, misteriosamente in ordine.

E allora che cosa l'aveva portata lì, in mezzo al nulla? Non era nemmeno di turno, sarebbe dovuta essere già a casa. Sotto le coperte, a riposare, staccare la spina e dimenticare per un po' quel mondo fatto di odontoiatria e carte da firmare che tanto amava, ma che l'assorbiva totalmente allo stesso tempo.

Si voltò alle sue spalle, con la porta automatica in vetro trasparente della Clinica immobile, che donava un immagine del cielo all'esterno fin troppo strano.

Scuro, come i suoi presentimenti.

Forse era solo nuvoloso.

S'incamminò verso quella direzione, lasciandosi alle spalle quegli interni che non facevano altro che metterla a disagio.

Per la prima volta in vita sua, non era mai accaduto che la Clinica iniziasse a starle stretta, fin quasi a spingerla a sfuggirvi.

Uscì fuori, dove un cielo senza stelle la accolse con poco calore.

Le uniche luci presenti erano quelle del Policlinico in sé, dei lampioni del complesso e quelli stradali, ma era come se non ci fossero, per lei.

Tanto iniziò a sentirsi in ansia che il sudore andò ad abbracciarle le mani e il corpo, vestito della divisa blu notte che ormai la contraddistingueva e del camice bianco con le tasche un po' cadenti, provate dal tempo e dal quantitativo di penne e mascherine che spesso v'infilava. Il cuore non smetteva di battere forte da un bel po' e il suo unico pensiero era collegato a quell'istinto che tante volte l'aveva aiutata e che, altrettante, l'aveva portata a sbagliare.

A chi doveva dare ascolto?

Alla mente, che le poteva solo dire di mantenere la calma e prendere una buona fetta di coraggio?

Al cuore, che era tutt'altro che quieto e in procinto di urlare insieme a lei?

Vittoria salì verso il Policlinico, attraversando la carreggiata e passando anche il cortile della Scuola di Medicina, arrivando a quello centrale, a quel punto nevralgico più volte calpestato da lei e da tanti altri prima.

In quel momento, regnava la desolazione più totale.

Non c'era neanche un medico in giro, un infermiere. Un vigilantes della sicurezza.

"Che cosa sto facendo?" Era una delle domande che le ronzava in testa, peggio delle api attorno ai fiori. Si sentiva totalmente non responsabile delle sue azioni, ne stava perdendo il controllo.

Lei, che aveva sempre fatto della lucidità e della capacità di giudizio il proprio credo.

Lei, che aveva sempre mantenuto i nervi saldi anche nelle situazioni meno agevoli.

Lei, che stava vedendo il lume della propria ragione affievolirsi, fino a ridursi a un cerino.

Sfidando la sorte, Vittoria corse verso l'uscita del Policlinico, scendendo prima le scale che separavano il cortile dal piano terra, poi ritrovandosi sull'asfalto che la portava verso il cancello, alla cui destra vi era una portineria, con dentro una guardia intenta a dare istruzioni sul walkie-talkie.

Per la via Santa Sofia, costellata di alberi, risaliva solo qualche macchina, sfrecciando avanti via, verso i paesi etnei, scappando via proprio da Catania.

Vittoria avvertì un brivido gelido risalire lungo la spina dorsale, a ogni passo che faceva fuori dal Policlinico e verso la strada. Si voltò alla sua destra, con il Pronto Soccorso deserto, ma comunque attivo.

O meglio, quella era la prima impressione, dato che le luci accese, dietro la saracinesca con i teloni semi trasparenti, lasciavano qualche indizio.

"Che cosa sto facendo?"

Se lo ripeteva come una cantilena senza senso.

E una risposta non l'aveva mica.

Istintivamente, si avvicinò a quel telone, facendo sì che questo si aprisse, come attivato da una fotocellula - quando nella realtà non era vero.

Aveva appena avuto l'impressione che qualcuno la stesse aspettando.

Entrò in quella stanza simile a un garage, dove due porte scorrevoli separate da una fetta generosa di muro grigio sbarravano l'accesso al Pronto Soccorso. Avvertì un vento freddissimo spostarle i capelli scuri raccolti con una matita: fu tanto forte da scioglierli e rivelare la sua chioma ondulata.

C'era qualcosa che non andava.

Aveva decisamente voglia di scappare.

Ma mosse un passo in avanti, facendo sì che la porta a destra si aprisse e che il vento freddo le arrivasse addosso, assieme a dei lamenti confusi.

Il pianto di un uomo, l'avrebbe riconosciuto tra mille. Così strano, ma tanto strappalacrime e straziante al livello del dolore che provava il Laocoonte, stretto nelle spire del serpente.

Vittoria corse all'interno del corridoio che si stagliava di fronte a lei come il sentiero di un labirinto senza uscita. I suoi toni giallo-arancio contrastavano nettamente con i corrimano blu scuro: le ricordavano i reparti di Pediatria, a cui spesso faceva visita per supportare quelle piccole anime tanto buone quanto fragili.

Continuava a sentire quel suono così triste, ma con cui aveva a che fare molto spesso, proprio perché lo viveva tutti i giorni.

Il dolore: colui che non l'aveva mai abbandonata.

All'improvviso, vide una porta aprirsi sulla sinistra, alla fine del corridoio e un fascio di luce provenire da una stanza.

E fu lì che la dottoressa capì che era la fonte di quel lamento, di quel pianto, tanto che si fece più forte.

Provò a correre verso quella direzione, ma le gambe si fecero pesanti, come restie a proseguire. Che non dovesse entrare? Era un segno?

Poggiò la mano sul muro alla sua destra, proseguendo a piccoli step, senza sforzarsi. Si sentiva così dolorante, come se i propri muscoli fossero pieni di acido lattico.

Nonostante tutto, proseguì il suo cammino verso quella meta sconosciuta e misteriosa.

Ogni passo che faceva le procurava dolore. Una fitta di qua, un'altra di là.

Una al cuore, un'altra allo stomaco.

Una alla testa, un'altra all'anima.

Arrivò davanti alla porta, non con poca fatica, ma ci riuscì.

E uno spettacolo a dir poco struggente si palesò davanti ai suoi occhi.

L'uomo che piangeva era seduto sul letto, mentre stringeva in braccio una bambina.

La sua testa era completamente immersa nell'incavo della spalla della piccola, la quale non si muoveva, né parlava.

"Ti prego, fa' che non sia morta... " Vittoria si affidò a delle preghiere, affinché ciò che pensava non si realizzasse, che fosse tutto un crudele scherzo, che non fosse così... vero.

Il suo cuore iniziò ad accelerare le proprie corse, mentre sentiva le pareti bianco latte della stanza... scurirsi e venirle addosso. Iniziò a respirare sempre più velocemente, per rifornirsi d'ossigeno, ma quello scenario non faceva che peggiorare le cose.

Finché non arrivò il colpo di grazia.

L'uomo alzò la testa e fissò Vittoria negli occhi.

«Papà?!»

Gli occhi scuri del Primario iniziarono a caricarsi di lacrime, come se stesse continuando il rito di disperazione del padre, condividendo con lui un peso a lei sconosciuto.

Mica poteva sapere per cosa stesse soffrendo.

O forse sì?

Quell'Eugenio, vestito nella sua divisa militare verde oliva, con il suo basco da generale e il medagliere sempre impeccabile, era uno straccio fatto uomo. Il viso deperito, lo stesso che l'aveva caratterizzato durante la malattia, non fece altro che riportare in Vittoria ricordi ancora più tristi.

L'uomo singhiozzò, guardando quella bambina esanime tra le sue braccia, vestita di bianco, come un angioletto. Le accarezzò il viso, poi tornò a guardare la dottoressa.

«Verrà a prendere anche te.»

Cinque parole e il mondo le crollò addosso, facendola urlare fino allo sfinimento.



«Vittoria, Vittoria!» Edoardo l'aveva salvata, ancora una volta. «Ehi, guardami! Sono io, Edo!»

Le bastò quella semplice frase a farle sciogliere i muscoli del corpo e permetterle di scoppiare in un pianto liberatorio.

«Grazie a Dio!»

«Mi hai fatto preoccupare, sei sicura di stare bene?»

Edoardo provò a respirare in maniera regolare, ma vedere la sua donna in quello stato lo preoccupava fin troppo. Un suo urlo l'aveva ridestato dal mondo dei sogni, trascinandolo rudemente alla realtà.

Osservò Vittoria seduta sul letto, con il lenzuolo stropicciato che le copriva parte delle gambe, mentre si copriva il volto grondante di lacrime.

Il ragazzo prese la donna con sé e la strinse in un forte abbraccio, passandole una mano sul viso. Ogni suo singulto equivaleva a una mazzata sul cuore: vederla stare male era l'ultima cosa che avrebbe mai voluto nella sua vita.

Lui voleva solo la sua felicità, la sua serenità. Nient'altro.

Avrebbe preferito farsi carico di quel dolore che l'affliggeva, piuttosto che vederla soffrire peggio delle anime dannate delineate dal Sommo Poeta.

«Sono qui, va tutto bene.» Lei non smetteva di piangere, ma Edoardo percepiva l'aumentare della presa delle mani di Vittoria sulla maglietta del suo pigiama bordeaux.

Le prese il mento con due dita, per portare il suo viso all'altezza dei propri occhi.

«Ehi... mi devo preoccupare?» sussurrò lui, mentre le accarezzava gli zigomi rigati da quel liquido caldo che non smetteva di dare segnale del dolore della donna. Si stava trattenendo dal piangere anche lui, quel dolore gli stava spezzando l'anima, ancora una volta.

Ma doveva resistere. Doveva farlo per lei.

«È... è stato terribile, Edo» provò a dire Vittoria, singhiozzando ancora un po'. «Ho sognato di nuovo mio padre... non ho idea di cosa volesse dirmi, so solo che mi ha distrutta, soprattutto ciò che ho visto.»

«Vuoi parlarne?»

Vittoria sospirò, poi si rannicchiò accanto al petto del ragazzo, cercando di rasserenarsi con il battito del suo cuore, l'unico per cui avrebbe lottato per sempre, pur di sentirlo.

Come colpito da un fulmine, Edoardo drizzò la schiena e si rivolse nuovamente alla donna.

«Ti va un bagno caldo?»

Lei non riuscì a trattenere un sorrisino. «Con due bicchieri di Nero d'Avola?»

«Amen!» concluse lui divertito, alzandosi dal letto e spogliandosi del pigiama, restando solo in mutande. Lasciò un bacio sulla fronte a Vittoria e si recò verso il bagno, giusto alla destra della sua stanza. «Ci vediamo fra poco.»

La donna lasciò che la dolcezza di quel bacio stampatole poco prima permeasse la sua pelle, poi il suo corpo per intero, fino ad arrivare alla sua anima nuovamente distrutta, per iniziare a rimettere insieme i pezzi.

Parlare con Edoardo, restare avvinghiata alle sue braccia, le avrebbe sicuramente fatto del bene.

«Come ci organizziamo per entrare?» chiese lei, con le mani sui fianchi, la voce un po' impastata dal sonno e i capelli un po' arruffati.

Il bagno non era molto grande, ma lo era abbastanza per ospitare loro due senza problemi.

Edoardo sorrise sotto i baffi, stringendosi nelle spalle. «Vuoi un costume?»

«Nah, non intendevo quello!» ribatté lei. «Prima entri tu e poi io?»

«Va bene!»

«Ma, Edo... stai veramente entrando in mutande?» Vittoria non poté fare a meno di chiedersi del perché non avesse messo qualcos'altro, piuttosto che il capo di biancheria intima. Il dottor Rinaldi sorrise di nuovo, quasi ignorando quelle parole ed entrando nella vasca, lasciandosi poi adagiare sulla parte più ripida, per avere maggior comfort per la schiena.

«È un costume quello che ho indosso, non so se ci hai fatto caso!»

«Certo, se non fosse per il fatto che qui la luce non c'è!» alzò le braccia al cielo la donna. «Ti sembro così attenta ai dettagli, alle tre di notte?»

Edoardo si voltò alle sue spalle, azionando un interruttore che diede vita a una delicatissima danza di luci dalle lampade soffuse sul soffitto. Gli piaceva azionarle quando voleva avere un'atmosfera quanto più tranquilla possibile, a differenza dei faretti a LED che spezzavano un po' la magia.

«Ora va molto meglio» constatò Vittoria. «Beh, ora tocca a me!» Iniziò a spogliarsi piano piano: prima la maglietta, poi i pantaloni, entrambi bianchi. Restò solo con l'intimo, total black.

Un contrasto che non disdegnava di certo.

«Quella a non avere il costume sei tu, mia cara!» puntualizzò lui, poggiando le braccia sui bordi della vasca e prendendo quanta più aria possibile dai polmoni: vedere quel suo corpo così bello, con le forme definite da quei leggeri capi d'abbigliamento, lo stava ammaliando.

«E chi l'ha detto che avrei messo un costume?»

Edoardo ritrasse la testa, in palese disorientamento. Che intendeva dire?

Bastò poi qualche secondo in più per capire cosa Vittoria intendesse.

Lei lasciò cadere via anche gli ultimi due capi, mostrandosi per come mamma l'aveva fatta.

«Minchia, ora capisco perché sei la più intelligente tra noi due!» commentò lui, non potendo fare a meno di ridere e bearsi di quella visione, di quella sua dea che stava entrando in vasca assieme a lui.

Vittoria si calò lentamente nell'acqua, dando poi le spalle al suo amato e poggiandosi sul suo petto, lasciando che rimanesse sommersa fino alla metà del seno.

«La Maja desnuda ti fa le scarpe, sei così bella... »

«Da quando sei diventato un esperto d'arte?»

«Da... tipo sempre? Oddio, direi più un amante, un osservatore, un sognatore» spiegò lui. «Sai, l'arte ha quel sorprendente potere di portarti fuori dalla realtà: che sia un libro, un quadro, una scultura o una canzone, ti dona occhi nuovi, capaci di farti vedere il mondo con quella parte del tuo essere con cui hai più confidenza, quella parte che ti rende ciò che sei.»

Vittoria si voltò alle sue spalle, per osservare Edoardo negli occhi. Si poggiò sul petto di nuovo, questa volta premendovi contro il seno. In quegli istanti, il dottor Rinaldi era diventato il suo lasciapassare per l'immaginazione e l'esplorazione del proprio io, tanto era rapita da quei discorsi.

"Però, quando ci si mette, mi sorprende..." Non faceva altro che pensare a quanto i pensieri profondi del ragazzo fossero stati così forti da catturarla e cancellare tutto il resto.

«Non smettere mai di parlare così, ti prego.»

Lui, di tutta risposta, le diede un bacio, prendendola dal fianco e portandosela un po' più in alto. Il sapore delle sue labbra bagnate era così delicato, il suo calore così dolce. Sentiva le punte bagnate dei capelli di lei accarezzargli le braccia, il petto. Il suono della sua voce così tenero e penetrante, tanto da stordirlo.

Certo, non si aspettava mica di coccolarsela nel pieno della notte, ma non desiderava altro, quello stava diventando il suo posto nel mondo.

Anzi, il loro posto nel mondo.

Lei si staccò dal bacio, poi si mise a sedere all'altro capo della vasca e prese qualcosa dallo sgabello dietro di lei.

«Ah, ma allora ce l'avevi un costume!» constatò lui, imbronciandosi. «Dai, non te lo mettere!» supplicò al pari di un bimbo piccolo desideroso di giocare.

«Per ora sì, poi dopo valuterò se lasciarlo o no. Comunque, ecco il mio, di racconto.»

Edoardo tornò subito serio e si raddrizzò subito sul bordo vasca, passandosi una mano su quei capelli ondulati un po' bagnati dall'acqua. Passò la mano sul viso, poi sul mento, con delicatezza, mentre osservava Vittoria allacciarsi il costume e indossare la mutanda abbinata, dello stesso colore della cenere dell'Etna.

La vide legarsi i capelli in uno chignon alto, rendendola ancora più bella ai suoi occhi.

Sospirò, lasciando che lei si sfogasse per tutto il tempo che le occorreva, raccontando ogni singolo dettaglio di quei minuti di puro terrore.

Le ci vollero non più di dieci minuti, se non si fosse interrotta a più riprese per i flash tristi e struggenti che la bloccavano, testimoni i suoi occhi scuri diventati vacui.

Difficilmente si sarebbe tolta quella scena dalla mente.

«È ancora più complesso di quello che pensassi... » meditò Edoardo, ad alta voce.

«Che cosa?»

«Ciò che ti lega a tuo padre. E quanto forte ti trascini giù il solo pensare a lui.»

Vittoria non poté dargli torto. Qualsiasi pensiero che facesse capo a Eugenio era come una palla al piede che, ogni qualvolta che gli veniva in mente, diventava sempre più pesante e difficile da portare con sé.

Forse era proprio per quello che aveva deciso di tornare a scavare nel passato: trovare la chiave che le permettesse di liberarsi.

«È ben più di questo» riprese lei. «Sai, non è solo quello che è accaduto tra di noi ad avermi cambiata. La sua malattia, il divenire delle cose, mia zia scappata via... è arrivato tutto insieme. E, a pensarci bene, non posso biasimarla se ci ha lasciati.»

Vittoria chinò il capo, perdendosi con lo sguardo nello specchio d'acqua della vasca, che lasciava trasparire le sue gambe incrociate.

Si sentiva quasi responsabile di quella fuga. Non aveva fatto nulla per evitarlo.

No, non poteva adottare la scusa dell'ero troppo piccola per fare qualcosa.

Era più che maggiorenne e consapevole delle proprie azioni e dei propri pensieri.

Ma era rimasta lì, inerme, lasciando che la sua unica ancora di salvezza, in quella famiglia ormai in pezzi, si issasse e andasse via, assieme a tutta la nave.

«Ma è tornata. Ti ha teso la mano. Lei non ti ha abbandonata. E penso che, in questi anni in cui non vi siete viste, né sentite, non abbia mai smesso di pensarti.»

Quelle parole di Edoardo scaldarono il cuore del Primario, facendo scendere qualche lacrima. Sorrise, poi tornò a guardare il suo uomo negli occhi, cercando un appiglio di conforto.

Poi fu lui a incupirsi all'improvviso.

«Sai, devo confessarti una cosa.»

«Ti ascolto» rispose Vittoria, mettendosi composta e pronta a quel nuovo racconto.

Edoardo ingoiò un po' di saliva e si schiarì la voce, mentre si passava una mano sulle ginocchia sommerse dall'acqua.

Sapeva che gli si sarebbe incrinata la voce di lì a poco, pensando alla persona di cui stava per parlare.

«Per una parte della mia vita, ho condiviso tutto con una persona. Giochi, risate, pianti, compiti. Questo fino a quand'avevo poco più di cinque anni, ma ricordo tutto come fosse ieri.»

Vittoria inclinò la testa di lato, aspettando altri dettagli. Notò lo sguardo di Edoardo farsi ancora più triste e spento: doveva tenerci davvero tanto. I suoi baffetti tentavano di camuffare le labbra incurvate verso l'alto, ma così non fu. 

«E adesso vi siete persi di vista?»

"Magari fosse solo quello" pensò Edoardo.

«Non proprio... o meglio, non è stata colpa nostra, ma del destino infame. È rimasta coinvolta in un incidente stradale, assieme a mio zio. Sono morti entrambi sul colpo, per loro non c'è stato nulla da fare... »

«Mio Dio, Edoardo... mi dispiace... » provò a consolarlo lei, accarezzandogli la spalla. «Immagino che sia stato un duro colpo per te... »

Lui chinò il capo verso il basso, spostando un po' l'acqua con la mano destra, come a voler scacciare via quel dolore. Poi, tornò a guardare Vittoria.

«Un pugno sullo stomaco avrebbe fatto meno male, credimi.»

Vittoria sospirò, incapace di dire o fare altro. Ma aveva capito una cosa: anche Edoardo stava convivendo con un dolore più grande di lui, ma che stava lottando per andare avanti e vivere la propria vita nel modo più normale possibile.

E solo per quello e la sua forza d'animo lo ammirava tantissimo.

«Come si chiamava?»

«Elisa.» Ripetere quel nome gli fece male, ma sapeva che, da qualche parte, era su un tappeto di stelle a vegliare su di lui.

Vittoria si sporse in avanti per abbracciarlo: era l'unica cosa che l'istinto le stava suggerendo di fare, tra le migliori opzioni. Nonostante ciò, avvertì un dolore nuovo, strano, iniziare ad avvolgerla.

Forse sapere di quella piccolina andata via l'aveva incupita ancora di più.

Odiava quando la morte portava con sé quelle piccole anime gentili. Che cosa potevano aver fatto di così brutto da meritarsi di essere strappate alla vita?

"Niente, è solo la vita che è una grandissima stronza" concluse Vittoria, confabulando con se stessa.

«Sappi che sarà sempre orgogliosa di te, ovunque lei si trovi» lo consolò con dolci toni e baci sulle tempie, per donargli quanto più sostegno e amore possibile.

Anche se era certa che, per un bel po' di tempo, quella storia l'avrebbe segnata nel profondo, come se non l'avesse fatto già.

Ma evitò di mostrare qualsiasi segno a Edoardo: preferiva tenersi tutto per sé, per ora.

Edoardo sorrise e ricambiò la stretta, poi le diede un bacio sulle labbra molto veloce.

«Voglio mostrarti un'altra cosa.»

«C'è dell'altro?»

Il dottor Rinaldi rise, poi si voltò alla sua destra, per accendere la cassa Bluetooth che teneva sempre con sé nei momenti di relax in vasca.

«No, no. Voglio farti ascoltare una canzone, me l'ha fatta conoscere mio padre un po' di tempo fa.»

Vittoria osservava Edoardo mentre connetteva il cellulare alla cassa e apriva Spotify.

«Vinco qualche bonus se dico che si tratta di una canzone dei Queen?»

Edoardo incurvò le labbra in una smorfia divertita. «Vedo che mi conosci bene, cara mia, ma no. Questa volta, andiamo fuori repertorio.» Lui lasciò tutto sul tavolino e fece partire una melodia che, a onore del vero, non faceva proprio parte dello stile della band inglese.

«Sweet little words made for silence not talk

Young heart for love not heartache

Dark hair for catching the wind

Not to veil the sight of a cold world... »

Un pianoforte e le sue note danzavano nell'aria, tessendo una trama complessa e struggente.

Le parole, lente, scandite, cariche di sentimento.

Ognuna aveva un peso non indifferente.

Vittoria ne fu totalmente rapita, cosa per lei estremamente rara, soprattutto al primo ascolto.

Si poggiò al petto di Edoardo, lasciando che quelle note malinconiche la trascinassero via dal mondo.

«Kiss while your lips are still red

While he's still silent

Rest while bosom is still untouched, unveiled.»

La donna si alzò per guardare Edoardo negli occhi, ordinandogli poi di baciarla.

Lui non se lo fece ripetere due volte, andando ad adagiare le proprie labbra su quelle della sua ragazza, lasciando che la musica li avvolgesse nella più totale armonia.

«Ti amo, Edoardo.»

«Anch'io, Vittoria. E ti bacerò, finché le tue labbra sono ancora rosse




The etnabooks' Corner!

Ma salve, amici!

Eccoci con un nuovo capitolo! Che ne pensate? Domandeh?

In tutto questo, fino a una settimana fa, pensavo che, con questo, fossimo a venti capitoli dall'epilogo (parti di diario escluse), ma ho dovuto rivedere un po' il plot e si sono aggiunti altri tre capitoli, quindi ne avremo ancora per un po'!

Baci a tutti, vi anticipo che il prossimo sarà l'ultimo prima della tempesta, perché poi, dal 36, ci sposteremo cronologicamente a Marzo 2020!

Un abbraccio, vi voglio bene assai!

Claudia.

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