21.1. La Prova del Nove - Parte I
«Sei sicuro?»
La voce di Davide gli arrivò dritta nelle orecchie come un dardo scoccato dalla balestra più precisa mai costruita. Sentiva l'adrenalina scorrergli dentro, rifocillando continuamente ogni singola cellula del proprio corpo.
«Credo... di sì» rispose Edoardo con una nota d'incertezza nella voce, facendo aggrottare le sopracciglia all'altro.
«Credi?»
«No, ne sono convinto, ti basta?» ribatté l'amico con stizza. Quelle ultime parole lo fecero riflettere un attimo: valeva ancora la pena mantenersi distante da Davide, soprattutto utilizzando quei toni acidi?
Secondo lui, ancora un po', tanto quanto bastava per capire se fosse arrivato il momento del perdono. Gli voleva ancora bene – e gliene avrebbe sempre voluto, a prescindere da quell'episodio -, ma non si sarebbe bruciato una volta ancora: voleva capire se le parole di quel pomeriggio al parcheggio Santa Sofia fossero vere.
Edoardo era stanco delle bugie, stanco di soffrire per colpa degli altri.
Voleva solo godersi quelle ultime settimane da universitario prima della seduta di laurea del ventitré luglio, con spensieratezza e in compagnia delle persone più care.
Di due in particolare.
La prima, con cui condivideva le sue stesse ansie da studente, le sue bravate e i suoi timori, la stessa con cui stava cercando di risolvere un problema non di poco conto.
La seconda, invece, era lì, da qualche parte nella Clinica, a lavorare e operare come aveva sempre fatto; la persona con la quale avrebbe voluto condividere il suo cuore e la sua vita intera.
Edoardo, in cuor suo, si chiese se sarebbe mai riuscito a parlarle di nuovo ma, a mente lucida, convenne che anche il Primario doveva porgergli delle scuse per il modo con cui l'aveva trattato.
Ma in quegli istanti, fece ritorno alla realtà, richiamato da Davide.
«Scusami tanto» alzò le mani il giovane Campofiorito in segno di resa, mentre stanziavano nei corridoi del Policlinico illuminati dai raggi del sole mattutino, caldo e avvolgente. Le ampie vetrate donavano un'ottima visuale dell'intero complesso ospedaliero, con lo spiazzo centrale gremito di studenti dei vari corsi di laurea, da Medicina a Odontoiatria, alle varie Professioni Sanitarie.
I due ragazzi si appropinquarono verso quella barriera invisibile, osservando come quel cuore pulsante della sanità siciliana prendeva vita e metteva in moto i propri componenti: medici che si spostavano, ambulanze che entravano e uscivano e un leggero venticello che animava le fronde degli alberi adiacenti.
Davide avvertì un nodo all'altezza dello stomaco, quando scorse il tetto dell'edificio sul quale aveva tentato quel gesto disperato e che, inconsapevolmente, era diventato lo scalpello che aveva quasi distrutto il rapporto tra lui e il suo migliore amico.
«I have sinned, dear Father
Father, I have sinned... »
Come poteva essere arrivato a tanto?
Mai avrebbe potuto immaginare le conseguenze che ne sarebbero derivate.
Mai avrebbe pensato che qualcuno avesse potuto approfittare della sua fragilità mentale. O meglio, questo è quello che sospettavano i due laureandi.
A onore del vero, erano lì, al reparto di Psichiatria del Policlinico di Catania, per scoprire se quanto ipotizzavano fosse confermato o rappresentava solo un mero insieme di paranoie.
«Non sei costretto a farlo, se ti dà così fastidio... » proferì Davide, cercando di sentirsi meno in colpa. Doveva molto a Edoardo e, con quel che aveva fatto, avrebbe dovuto rendergli cento volte di più.
«Davide, è più complicato di quanto pensi» rispose l'amico, voltandosi verso di lui. Il volto era contratto in un'espressione a metà tra il rilassato e il preoccupato, la barbetta incolta e i suoi riccioli erano tendenti all'ondulato, più che a una struttura fissa.
Il giovane Campofiorito lo guardò negli occhi, in quei pozzi scuri in cui aveva sempre trovato una certezza, una spalla su cui piangere, un amico con cui ridere. Ah, quanto voleva non aver detto ciò che gli aveva rivolto quel fatidico giorno!
«Se le mie ipotesi dovessero rivelarsi corrette, Rapisarda potrebbe rischiare la radiazione dall'albo, con tanto di processo per tentato omicidio. E assieme a lui, tutti quelli coinvolti nel tuo caso» sentenziò Edoardo, sospirando e scrutando le iridi color cioccolato fondente di Davide.
«Mio Dio... » fu capace di rispondere l'altro, voltandosi verso la vetrata e riprendendo a contemplare l'esterno del complesso ospedaliero. La sua barbetta risaltava un po' più luminosa per effetto dei raggi solari in arrivo e la sua divisa turchese appariva più sbiadita, così come quella di Edoardo.
«Già» lo seguì a catena l'amico. «E chissà cos'altro c'è dietro... »
Davide si voltò a guardarlo preoccupato: per lui, l'unica cosa che contava era riprendere il rapporto con il suo migliore amico e chiudere tutta quella faccenda quanto prima.
E cosa più importante, capire se valeva effettivamente la pena proseguire con quella terapia che non aveva fatto altro che peggiorare la sua condizione.
«Try and help me, Father
Won't you let me in?»
«Temo che ci sia ben più di questo, Davì» concluse Edoardo, incrociando le braccia al petto e cercando di regolarizzare il respiro, inutilmente. «Andiamo, Rapisarda dovrebbe essere libero, a quest'ora.»
I due laureandi si voltarono alla loro destra e si addentrarono nel corridoio del reparto, i cui toni predominanti andavano dall'azzurro delle pareti al blu dei corrimano attaccati. Non c'era molto movimento lì intorno, solo qualche infermiere con cartelle pesanti da catalogare in archivio.
"Mi domando perché non mettano tutto su un tablet... " pensò Edoardo, contando quante volte l'operatore sanitario avesse cercato di sistemare quei grossi faldoni senza farli cadere. Nonostante la cara e vecchia carta fosse utile, alle volte, il digitale poteva risolvere dei problemi.
E velocizzare le procedure burocratiche, spesso e volentieri.
Dopo pochi passi, i ragazzi si ritrovarono alla fine del corridoio, davanti alla porta blu scuro dell'ambulatorio del dottor Rapisarda. Si guardarono negli occhi per alcuni istanti, cercando di farsi forza l'un l'altro. Non era una questione semplice, sia perché il medico non avrebbe mai parlato, per rispetto del segreto professionale, sia perché c'era in gioco ben più della loro amicizia.
Edoardo prese un bel respiro e bussò alla porta per tre volte, abbassando poi lo sguardo in attesa di risposta.
A responso positivo dall'altro lato, i due entrarono nella stanza.
«Oh, ragazzi! Davide!» li accolse con un sorriso tranquillo lo psicoterapeuta. «Oggi non avevamo una seduta in programma, o mi sbaglio?»
Laureato in Medicina e Chirurgia e in Scienze e Tecniche Psicologiche a pieni voti, specializzato in Psichiatria e pieno di master fino all'orlo, Giuseppe Rapisarda sapeva come trattare i suoi pazienti e risolvere i loro problemi. Chiunque andasse in terapia con lui, ne usciva sempre soddisfatto... o comunque, molto migliorato.
Non amava adottare le formalità, bensì stabilire un rapporto basato sulla fiducia reciproca e su quanto più agio possibile. Per lui, chiacchierare con i pazienti aveva la stessa importanza – ovviamente a livello discorsivo, per non far sentire a disagio i pazienti - di " un caffè al bar tra amici" o "una birra in tarda serata".
Il dottore si mostrò tranquillo, con le mani poggiate sul piano in legno nero della scrivania e il camice bianco che copriva il suo completo jeans e camicia cravattata, come lui lo chiamava spesso.
«No, infatti» rispose Davide, cercando di mantenere quanto più alto possibile il livello di serietà. Nonostante non avesse problemi a parlare con lui, sentiva di dover alzare un po' le barriere per imporsi, proprio perché si trattava della sua persona e di tutto ciò che gli stava capitando attorno. «Ma devo parlarle di una cosa importante.»
«Se vuoi, ho una mezz'ora libera fino alle undici... » propose il medico, venendo poi interrotto da un gesto alquanto insolito di Davide che lo fece preoccupare un po'. Il ragazzo aveva poggiato il flacone di Xeristar - prescritto l'ultima volta - sulla scrivania, incrociando poi le braccia al petto.
«C'è qualcosa che non va?»
«Dottore, guardi... » cominciò Davide, un po' preso dalla paura. Avvertì le fauci seccarsi e il respiro affievolirsi. In suo soccorso, arrivò il suo amico, che gli poggiò una mano sulla spalla per rassicurarlo. Gli venne in mente il primo intervento con la dottoressa Conte, quando Edoardo aveva collezionato una figuraccia colossale davanti al Primario e, a seguito dell'intervento a sorpresa, aveva iniziato ad avere paura.
«Sta' tranquillo, andrà tutto bene!»
«Falle mangiare la polvere, compà!»
Ripeté in mente le parole che aveva rivolto al suo migliore amico, assieme al gran bene che gli voleva. La sua mano sulla spalla gli fece riacquisire la sicurezza perduta e, traendo un bel respiro, continuò il suo discorso.
Se lo doveva.
Lo doveva a Edoardo.
«Negli ultimi tempi, ho avuto qualche incidente di percorso con queste pillole. Ho avuto l'impressione di precipitare ancora di più, piuttosto che riemergere dai miei problemi.»
«Hai assunto una dose maggiore di quella prescritta?» gli domandò Rapisarda, puntando gli occhi color dell'ambra verso il suo paziente.
«No, anzi... non ero io a tenere d'occhio la posologia, solo la signorina Bellavia» rispose Davide, mentre un conato di vomito iniziava a risalire dallo stomaco. Avrebbe giurato a se stesso che se Marika fosse stata davvero responsabile del suo stato alterato e di tutto il casino successo con Edoardo, l'avrebbe punita a dovere, senza nessuna remora, né qualunque tipo di freno.
Il dottore giunse le mani e si mise a riflettere qualche istante, incapace di rispondere. Qualche goccia di sudore iniziò a scendergli lungo il volto, le mani iniziarono a tremare leggermente. Edoardo non poté fare a meno di notare quel dettaglio, il che lo fece fortemente insospettire.
«Dottore, lei sa qualcosa in merito?» gli chiese il laureando con tono fermo, chiudendo gli occhi in una fessura. Qualcosa gli stava suggerendo che stavano per trovare una pista da cui partire.
«Strano» convenne il medico, «lo Xeristar non dovrebbe creare problemi di questo tipo» formulò ad alta voce.
Davide sbuffò dal naso altamente contrariato. Quel flacone era la loro – sua e di Edoardo - prova del nove ed era palese che il dottor Rapisarda fosse in difficoltà. Allora, il ragazzo diede il colpo di grazia.
«Guardi, è inutile che cerca di guadagnare tempo. Nel flacone, ho trovato delle pillole non contenenti la duloxetina, bensì fluoxetina. È stato questo ad avermi stordito come una campana» sentenziò Davide tutto d'un fiato.
«Liar!
Oh, nobody believes me!
Liar!»
Rapisarda scattò in piedi, facendo indietreggiare i ragazzi. Poggiò i pugni sul piano della scrivania dove, assieme ad alcuni documenti, capeggiavano il suo portatile, un portapenne in pelle scura e qualche foto di famiglia incorniciata.
L'aria della stanza iniziò a caricarsi di tensione, ogni secondo che passava era potente quanto la caduta di un mattone all'altezza dell'addome. Il dottore diede una rapida occhiata all'ambiente circostante, con le pareti color delle arance illuminate dalla finestra alla sua sinistra. Saltava subito all'occhio quanto quei colori contrastassero con i toni castagna del resto del mobilio, come l'armadio alla sua destra e un piccolo blocchetto di mensole quadrate pieno di libri di psicologia, vasi in ceramica e piante ornamentali.
«Dottore, ho bisogno di una spiegazione, adesso» lo incalzò Davide, abbastanza stufo del teatrino al quale aveva preso parte per troppo tempo e di cui era una semplice marionetta.
«Non pensavo l'avesse fatto davvero... » fu capace di dire il medico.
«Chi? Che cosa?» intervenne Edoardo spazientito.
Lo psichiatra si schiarì la voce, ingoiando poi un po' di saliva. Guardò dritto in faccia i due ragazzi, cercando di mantenere una certa compostezza, nonostante la crescente preoccupazione iniziasse a insinuarsi nelle sue viscere, facendolo tremare un po'.
«Qualche mese fa, la signorina Bellavia mi aveva chiesto alcune informazioni in merito al Prozac e a eventuali associazioni con medicinali contenenti farmaci inibitori della ricaptazione di serotonina e noradrenalina [1], come lo Xeristar» spiegò il medico con disinvoltura, ma anche con un leggero velo di ammissione di colpa. Forse avrebbe dovuto pensare dieci volte prima di dare tali informazioni alla ragazza.
E aveva commesso un errore di valutazione che gli stava per costare tanto.
«Un sovraddosaggio dei due, presi singolarmente o meno, porta allo sviluppo di effetti collaterali, come istinto suicidario, ostilità... »
Edoardo spalancò gli occhi all'improvviso: le parole del medico dimostrarono che Davide aveva detto il vero, quel pomeriggio al parcheggio. Qualcuno l'aveva drogato, per cui non era per nulla responsabile delle sue azioni.
«E lei gliel'ha prescritto, non è vero?» gli chiese il laureando.
«Assolutamente no!» mise la mani avanti il dottore allarmato. Nonostante avesse avvertito la ragazza che soleva accompagnare Davide durante le sedute settimanali con lui, non gli era mai venuto in mente di prescrivere il Prozac senza una valida ragione, poiché lo Xeristar andava più che bene da solo.
Edoardo guardò il dottor Rapisarda con cipiglio severo. Sentiva la rabbia ribollirgli in corpo, il cuore battere più veloce e la testa esplodere. Non voleva arrivare a dare in escandescenze come era suo solito fare, ma riusciva a trattenersi a stento.
«Sicuramente no, ma non si è nemmeno accorto che il mio amico stava peggio di prima! Con quale cazzo di criterio cura i suoi pazienti, eh?» sputò Edoardo secco, senza freni.
Il dottore si raddrizzò con la schiena e lanciò uno sguardo di sfida al laureando furioso.
«Questo non la riguarda, signor Rinaldi! E per quanto mi concerne, ho già detto più del dovuto. Se volete scusarmi, ho degli impegni di lavoro a cui adempiere» replicò il dottor Rapisarda stizzito, facendo per andarsene, ma un leggero cigolio della porta lo bloccò.
«E invece sì, così come riguarda anche me.»
Vittoria era entrata all'improvviso nell'ambulatorio, quasi richiudendo la porta alle proprie spalle. Incrociò le braccia al petto, mettendo in risalto il suo seno coperto dalla divisa blu notte e il camice bianco pieno di penne nel taschino all'altezza del petto.
«Vittoria?» esclamarono allo stesso momento Edoardo e il dottor Rapisarda increduli.
Il laureando ebbe un forte tuffo al cuore nel vederla. I suoi lineamenti fini e delicati, definiti da una sottile linea di trucco e i suoi cerchi d'argento che pendevano dalle orecchie, che collidevano con alcune ciocche di capelli sfuggiti alla sua solita coda tenuta insieme da una matita. Si aspettava di tutto, ma non di sentire la sua voce che diceva di essere anche lei coinvolta nella situazione.
Ma in che modo?
«I ragazzi meritano una spiegazione, così come la merito anch'io» sentenziò la dottoressa, avanzando di qualche passo. «Qualcuno ha diffuso delle malelingue sul conto mio e quello del signor Rinaldi e non vedo il motivo di escludere un collegamento tra le due vicende.»
Rapisarda scosse leggermente la testa, facendo ondeggiare leggermente la sua chioma biondo scuro. Aveva lo sguardo fisso sulla scrivania, incapace di agire.
«Voi mi state chiedendo di fare una cosa contro la legge... » si difese lui.
Non ebbe il tempo di continuare che la porta si aprì di nuovo.
«Io non ne sarei così sicuro, Peppe» proruppe il direttore Cassarino con una cartella blu scuro in mano.
"Ora son cazzi amari" pensò Edoardo sconfortato. Sospirò e si pose una mano sulla fronte, per cercare di fare un po' di ordine tra le idee, senza risultato.
«Federico» lo richiamò il dottor Rapisarda, «mi state chiedendo di infrangere un giuramento fatto anni fa. Sai cosa comporta a livello penale, oltre che a quello personale?»
«Ovviamente!» replicò il direttore rapido, con un leggero sorriso sul volto. La barbetta brizzolata risaltava sul viso ancora giovane, nonostante fosse già entrato nella sfera degli "anta" da qualche pezzo. «È per questo che ho qui con me un'ordinanza del tribunale» sentenziò, porgendogli la cartella che teneva in mano.
«Why don't you leave me alone?»
A quel punto, il medico non aveva più scusanti. Nonostante fosse autorizzato a violare il segreto professionale, sentiva di stare per compiere un atto ignobile, verso se stesso e verso tutti i suoi pazienti, verso la fiducia da loro data. Sarebbe mai riuscito a convivere con un simile peso addosso?
«Sappi che non te lo chiederemmo, se non fosse importante... » lo incalzò Cassarino.
Allora, il dottor Rapisarda prese un bel respiro e iniziò a parlare, cercando di soppesare ogni parola.
«Come ho detto poc'anzi a Davide e al signor Rinaldi, non ho prescritto io il Prozac che è stato rinvenuto nel flacone. Avevo in mente un piano terapeutico differente, non necessariamente compreso di supporto farmacologico, poiché Davide stava reagendo piuttosto bene, dopo le prime due settimane dall'inizio della convalescenza.»
In quella stanza, tutti ascoltavano con attenzione. Non volava nemmeno una mosca, il tempo si era come fermato.
«Continua» gli suggerì il direttore, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo tranquillo, testimoniato dai suoi occhi scuri né troppo spalancati, né troppo chiusi.
«Quando comunicai le mie intenzioni alla signorina Bellavia, che si era offerta di sua spontanea volontà di seguire Davide, lei mi spinse verso una strada differente... »
"E ti pareva che non coglieva la palla al balzo, la stronza!" convenne Edoardo, mentre ascoltava quelle parole così importanti.
«Che tipo di strada?» gli domandò Vittoria secca.
«Insisteva sul voler affiancare una terapia farmacologica alle nostre sedute, ma io non lo ritenevo necessario e ho continuato a opporre resistenza. Non me la sentivo di rischiare solo per un capriccio.»
Davide teneva lo sguardo fisso sui suoi piedi, leggermente coperti dalle sue braccia incrociate. Sentire quelle parole gli riportarono alla mente le prime sedute con lo psicoterapeuta, provocandogli un nodo all'altezza dello stomaco e la comparsa di qualche lacrima comunque trattenuta.
«Doveva controllarmi, in qualche modo» intervenne poi il ragazzo a voce alta. «Senza un farmaco, dubito che ci sarebbe riuscita.»
Edoardo annuì leggermente, trovandosi d'accordo con il pensiero dell'amico.
«Tutto qui?» lo interruppe il direttore.
«Non esattamente» lo bloccò Rapisarda, passandosi due dita sui baffi non molto folti che contornavano il labbro superiore. «Qualche giorno dopo, la signorina Bellavia si ripresentò nel mio ambulatorio, ma non da sola... »
«Chi l'aveva accompagnata?» gli chiese Edoardo, nonostante non avesse molti dubbi sull'identità dello sconosciuto.
«Il Primario di Ortognatodonzia del vostro corso di laurea, il dottor Guzzardi.»
A quelle parole, calò il gelo più totale nella stanza, anche se la reazione dei presenti non fu totalmente di sorpresa. Anzi, quasi se lo aspettavano.
«Vai avanti» gli ordinò Cassarino, mentre la sua espressione si faceva sempre più seria e attenta.
Rapisarda cercò di trattenere alcune lacrime che gli offuscavano la vista, al pensiero delle parole che il Primario gli aveva sputato in faccia.
«Mi aveva minacciato per bene e, se non avessi provveduto alla prescrizione della terapia... » pronunciò con un filo di voce, prendendo poi una delle cornici della sua scrivania, quella in cui teneva in braccio un bambino che alzava al cielo il trofeo di un torneo di tennis vinto qualche anno prima. «Avrebbe fatto del male a mio figlio... » disse con voce carica di dolore, mentre qualche piccola cascata di lacrime si faceva strada sulle sue guance e lungo tutto il volto. Amava il suo piccolo più di ogni cosa, l'avrebbe protetto pure con la vita, se fosse stato necessario. Dopo la morte della moglie, era l'ultimo appiglio di speranza che gli era rimasto e non avrebbe permesso che qualcuno vi si mettesse in mezzo.
Vittoria abbassò il capo, incapace di comprendere il livello di crudeltà che aveva toccato quel Primario che un tempo riteneva suo mentore. Perché mettere in mezzo dei bambini? Cos'avevano mai fatto di male? Perché venivano sempre usati come mezzo di ricatto, di minaccia?
«E quindi lei si è trovato costretto ad accettare... » concluse Edoardo per lui, profondamente addolorato.
«Father, please forgive me... »
Il dottore annuì lentamente, mentre ricacciava indietro le lacrime rimaste.
«In più, per ringraziarmi, mi ha offerto una certa somma di denaro... »
A quelle parole, Cassarino si raddrizzò e spalancò gli occhi. Qualcosa stava iniziando a muoversi nella sua testa e a combaciare. «Quanto ti ha dato, per l'esattezza?»
«Diecimila euro» sentenziò lo psicoterapeuta, indicando poi qualcosa alla sua destra. «Sono ancora dentro la valigetta con cui me li aveva consegnati. Non so da dove abbia preso quei soldi, ma io non li voglio. Prego, aprite pure il mio armadio.»
Cassarino si sporse un po' fuori dalla porta della stanza per dire qualcosa, rientrando poi seguito da due agenti della Guardia di Finanza, che salutarono i presenti con un cenno di capo.
Rapisarda mantenne lo sguardo fisso verso il basso, incapace di dire o fare altro. Si sentiva una schifezza, si sentiva il petto bruciare, sentiva lo sguardo dei presenti ferirlo come una lama rovente.
«Beh, allora... » proruppe il direttore, richiamando l'attenzione dei presenti. «Corruzione, diffamazione, frode... credo che questi reati siano sufficienti a presentare una richiesta di espulsione al Rettore, voi che dite?»
Edoardo, Davide e Vittoria annuirono vigorosamente, senza pensarci due volte. Guzzardi aveva toccato il fondo e meritava di pagarla cara. Nonostante Edoardo sapesse quanto la giustizia italiana lasciasse a desiderare, quella volta iniziò a ben sperare in un cambiamento radicale.
Il direttore si avvicinò sorridente al dottor Rapisarda che, dopo quel discorso, si era portato accanto agli altri, fuori dalla comfort zone della sua scrivania.
«Hai fatto la cosa giusta, Peppe» gli confidò, dandogli una pacca sulla spalla.
Quelle parole rincuorarono un po' lo psicoterapeuta, nonostante sapesse di aver comunque sbagliato a non essere intervenuto subito su Davide.
«Sono pronto a qualsiasi conseguenza. Ho commesso un errore e come tale merito di essere punito... »
«Father please forgive me
You know you'll never leave me
Please, will you direct me in the right way?»
Davide ed Edoardo si guardarono per alcuni istanti, capendo che il povero dottor Rapisarda, nonostante tutto, aveva sempre voluto il bene del suo paziente.
«Potrebbe esserci qualche provvedimento, ma nulla in confronto a quello che riserveremo a quello stronzo» concluse il direttore, cingendo con un braccio il collega e uscendo insieme dalla stanza, assieme ai due agenti della Guardia di Finanza e a Vittoria.
Nell'ambulatorio, rimasero solo i due laureandi.
«Credo di doverti delle scuse, Davì... »
«No, sono io che devo scusarmi e so che non potrai perdonarmi per ciò che ho fatto» lo bloccò Davide, poggiandoli una mano sulla spalla. «Nonostante fossi stato drogato, ti ho detto delle cose orribili, ho quasi cancellato tutto quello che abbiamo passato per colpa di quella bastarda.»
Edoardo sorrise leggermente. Sì, quelle parole gli avevano fatto del male, ma aveva capito che non era stato il vero Davide a pronunciarle.
«Sappi che ci vorrà un po', prima che ricominci a fidarmi di te» lo provocò Edoardo, facendogli l'occhiolino.
Davide alzò gli occhi al cielo e lo portò con sé fuori dalla stanza, camminando a passo lento.
«Fra un paio di settimane, ci sarà la festa dei laureandi al Lido Azzurro. Verrai, non è vero?»
«Credimi, preferirei spararmi quattro ore di lezione di fila senza pausa, piuttosto che ballare appiccicato a gente sudata, ubriaca e strafatta» replicò Edoardo, scuotendo leggermente la testa. «Ma sì, almeno ci passiamo una serata diversa, prima della laurea!»
«Io dico che ci divertiremo, vediamo se Rick e gli altri se l'accollano... »
«Non è che poi mi ritrovo la solita pantegana?» [2] scherzò Edoardo, assestando un sonoro schiaffo sul collo di Davide.
«Se c'è una cosa che non mi mancava, quelle sono le tue cozzate, scemo!» si lamentò l'altro, massaggiandosi la zona colpita. I due scoppiarono a ridere di gusto, come un tempo. Sì, erano felici, dopo tanto tempo. Si erano ritrovati ed erano pronti più che mai a partire verso quella prova finale tanto agognata, la prova che avrebbe concesso loro di prendersi quel titolo che stavano inseguendo da sei anni a quella parte.
«Beh, credo che ci sia qualcuno che ti sta aspettando» aggiunse poi Davide, facendo un cenno veloce con la testa davanti a sé e facendo perdere qualche battito al suo migliore amico.
(continua...)
Piccole note a margine!
[1]: Farmaci inibitori della ricaptazione di serotonina e noradrenalina: si tratta di farmaci in grado di inibire la ricaptazione della serotonina all'interno della terminazione presinaptica, favorendo l'aumento del segnale della serotonina. Tale aumento fa sì che si verifichi un miglioramento della patologia depressiva. Tra questi, figura la duloxetina (Xeristar).
[2]: «Non è che poi mi ritrovo la solita pantegana?»: citazione proveniente dal film Chiedimi se sono felice (2000) di Aldo, Giovanni e Giacomo.
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