12.1. Una Nuova Alleanza - Parte I
Davide iniziò a correre ovunque, per tutta la casa. Il cuore piangeva insieme a lui, accompagnato dalla costante ansia che quell'armadietto disordinato di medicinali aveva causato nel suo essere.
«Perché stai correndo così, di corsa?» tuonò suo padre carico di rabbia. L'aveva visto scendere dalle strette scale di fretta, senza curarsi di chi gli stava attorno. In quel momento, Alessandro era in lotta contro i suoi demoni, ancora una volta.
In lotta, per evitare di scaricare il suo dolore sulla donna che amava, ma che aveva impaurito e alla quale aveva permesso di costruirsi uno scafandro di protezione nei suoi confronti.
L'amore era forte, ma lo era tanto quanto le botte che le dava.
Botte di cui nemmeno lui si capacitava.
Non era la ragione a parlare, bensì l'istinto.
«Dov'è Ilenia?» chiese Davide disperato, mentre i suoi baffi iniziavano a vibrare più intensamente a causa dei respiri carichi di preoccupazione. Doveva trovare sua sorella: era diventato prioritario.
«Sarà nella stanza, come sempre. E poi, che te ne frega a te?»
Davide cercò di trattenere un conato di vomito, per le parole velenose che suo padre aveva appena sputato nei confronti della figlia.
«Papà, non è il momento di fare il fottuto coglione insensibile, aiutami a cercarla.»
«Non ti permetterò di rivolgerti a me così, un'altra volta.»
Alessandro si avvicinò con fare minaccioso verso il figlio, il quale riversava nel panico più totale. I passi lenti ma forti dell'uomo lo intimorivano ancora di più, ma Davide cercò di mantenere i nervi saldi ed evitare l'ennesima faida familiare. Scrutò i suoi pozzi neri, iniettati di sangue, distrutti, come il volto ormai provato dai sensi di colpa e dalle pene che la vita gli aveva inflitto.
Non voleva continuare in quel modo, ma ogni volta, il lume della ragione si affievoliva, fino a spegnersi del tutto, trasformandolo in un cane rabbioso e famelico, pronto a sbranare anche il coniglietto più tenero.
Anche la propria moglie.
Anche i propri figli.
«Non iniziare con le minacce, papà, devo trovare Ilenia, subito!» tuonò Davide fuori di sé, stringendo i pugni all'altezza dei fianchi e sfidando l'ira funesta del padre.
«Prova a dirlo un'altra volta e ti spacco il bel faccino che ti ritrovi» sputò ancora Alessandro. «Ho cresciuto un grandissimo bastardo come figlio, che vergogna.»
Davide si morse l'interno della guancia e si poggiò una mano sul cuore, come per attutire il violento urto che quelle parole avevano causato dentro di lui.
In quegli istanti, tutti i ricordi legati al padre stavano iniziando a bruciare, come delle semplici cartacce al camino.
A strapparsi, come delle foto ormai logore.
A morire, come una rosa staccata dal terreno.
Ma era una che aveva già perso la propria vita ancor prima di fiorire.
A quel punto, Davide gettò all'aria quel che restava della sua lucidità, anteponendo il bene della sorella al suo.
Anche a costo di arrivare alle mani.
«Papà!» urlò, facendo indietreggiare Alessandro di qualche passo.
Quella parola l'aveva colpito in pieno, come una palla di cannone sparata sullo stomaco.
Papà.
Quelle quattro lettere che gli fecero pizzicare gli occhi dalle lacrime.
Che stava facendo?
Perché continuava a non farsi aiutare, bensì distruggeva tutto, come il fuoco in un pagliaio?
«Sono sparite le sue pillole e tutto l'armadietto del bagno è in disordine» sentenziò poi Davide col cuore in gola.
Il padre abbandonò allora i toni rabbiosi, lasciando il posto alla preoccupazione più totale.
I due si buttarono subito alla ricerca di Ilenia, pregando che non fosse scappata, come soleva fare spesso nell'ultimo periodo, per allontanarsi da quella casa piena di dolore.
Ma lei era lì, sul suo letto dal piumone lilla, che fissava il suo pacchetto di pillole con sguardo totalmente assente. Aprì la confezione e sfilò il blister, segnato dagli spazi aperti e chiusi. Su venti, ne erano rimaste dieci. Poteva prenderne una sola al giorno, come prescritto dal medico.
Stava facendo enormi progressi con la terapia, stava andando tutto secondo i piani.
Si morse l'interno della guancia, con le lacrime che scendevano già copiose.
Lacrime che avevano lo stesso sapore amaro della vita che stava portando avanti, sostenuta da Davide e psicofarmaci.
Dormire la notte equivaleva al combattere una crociata: estenuante, pericolosa, con esito incerto.
Quelle però, erano le guerre più dure mai combattute in vita sua.
Decise di accelerare la convalescenza, in quel momento. Si sarebbe sentita più tranquilla, più serena. Iniziò a spaccare gli spazi, facendo uscire le pillole.
Una alla volta.
Una. Nessun effetto collaterale.
Due. Leggero sovraccarico del sistema.
Tre. Inizio della fase di smaltimento scorretto da parte dell'organismo.
Quattro. Fine dello smaltimento scorretto.
Cinque. Inizio della tossicità.
Sei. I primi sistemi cominciano a collassare.
Sette. La confusione.
Otto. Il sistema intero comincia a sballare.
Nove. La tossicità totale.
Dieci. La fine.
Aveva in mano la sua vita.
Ma aveva anche una scelta.
«Ilenia!»
La voce di Davide entrava dentro la sua mente, a poco a poco. Lei sembrava non farci caso, continuando a fissare quelle pillole con rassegnazione. Le osservò, le contò con le dita, anche a più riprese.
«Ilenia!» continuava a urlare il fratello. Alzò la testa di scatto verso la porta, poi aprì la finestra e si sedette sul davanzale, coprendosi con la tenda, per non farsi vedere.
Non voleva che la trovasse lì, in quello stato.
«Ilenia, apri o butto giù la porta!»
Lei non accennava a muoversi, contava solo i suoi ultimi secondi con il cuore pimpante.
Improvvisamente, un boato. La maniglia era completamente stata distrutta.
Davide non vide nulla, poi notò la scatola sul letto. L'afferrò e constatò la mancanza di quelle dieci pillole. L'ultima volta il blister che le conteneva era pieno per metà. Entrò nel panico, totale. Poi vide il piede della sorella penzolare dal davanzale.
«No, no!» urlò disperato. Quell'immagine era ben peggiore di quella vissuta durante l'incidente. Scostò la tenda e la vide, con quelle pillole in mano, inerte. Le prese, ma lei iniziò a opporre resistenza.
«Lasciami stare!» cercò di difendersi Ilenia, pur sapendo di non avere scampo. I suoi capelli rossi iniziavano a ondeggiare violentemente, come un mare in tempesta, come se si fosse scatenata la furia di Poseidone.
«No, non esiste!»
«Io non ce la faccio più, ti prego. Lasciami andare, Davide, per favore!» pianse lei, mentre cercava di staccare la presa da suo fratello, ma invano.
Dopo qualche sforzo, quella mano era libera da quella dose di veleno.
Una, due, tre, quattro. Tutte per terra, sparse per la moquette della stanza.
«Che cosa hai fatto?» urlò lei, iniziandolo a menare pesantemente e a condannarlo per quel gesto che aveva fatto, fissandolo con i suoi occhi scuri carichi di dolore.
Lui la bloccò totalmente e la strinse a sé, molto forte.
«Lasciami morire, per favore!» urlò la ragazza, scoppiando poi in un pianto disperato.
Davide continuò ad abbracciarla, stringendola sempre più forte. Trattenere le lacrime era impossibile persino per lui, che iniziò a bagnarle i capelli.
«Non farlo mai più, mai!» urlò lui. La baciò e la strinse in una morsa protettiva. Non l'avrebbe più lasciata andare, per nulla al mondo.
Davide si svegliò di colpo, con Ilenia che dormiva accanto a lui. I suoi sogni erano ormai sempre gli stessi, travagliati e tormentati. Confusi e tristi.
Ma sapeva che, per nessun motivo, avrebbe mai abbandonato la ragazza che dormiva al suo fianco.
Lasciare Ilenia sarebbe stato uno degli errori più grandi mai commessi in vita sua.
«Oh, I feel like no-one ever told the truth to me
About growing up and what a struggle it would be
In my tangled state of mind
I've been looking back to find where I went wrong.»
Poggiato al muro bianco e dalle striature del mare del corridoio principale della Clinica, Edoardo meditava un po' su quello che era stata la sua vita fino a quel momento.
"Un completo disastro, ecco cosa" pensò, sospirando afflitto.
Sorreggeva una piccola scatola di cartone, contenente tre pupazzi che gli erano stati donati dai medici del reparto di Pediatria del Policlinico, per l'aiuto dato loro nella clowntherapy.
Erano tutti uguali, dei piccoli Winnie-the-Pooh in miniatura, vestiti con un camice bianco e un naso rosso, come lui fino a qualche ora prima.
Vedere i volti dei bambini che, nonostante i mostri contro cui lottavano da tempo, erano colmi di allegria, gli procurò una sensazione di sconforto mista a tenerezza.
Era incredibile vedere come quelle piccole anime innocenti dovessero già pagare un conto salato alla signora Vita.
Si sentiva spesso un deficiente, al solo pensiero di considerare le sue disgrazie comparabili con quello che quei bambini dovevano affrontare.
E spesso, alcuni di loro, non riuscivano nemmeno a continuare a lottare.
Il ragazzo si diresse verso gli spogliatoi, per posare quella scatola e tornare poi al suo dovere di laureando. Quella mattina, oltre al tirocinio, l'aspettava anche il Consiglio di Corso di Laurea, assieme a Cassarino, per decidere le sorti della sua carriera universitaria.
Una fitta allo stomaco animò la sua camminata a passo lento nei corridoi della Clinica.
Avrebbe perso tutto?
O avrebbe avuto una seconda possibilità?
L'unica cosa che si augurava era solo vedere Vittoria serena e felice, a costo di perdere tutto quello che aveva. L'unica cosa che gli aveva impedito di perdere la lucidità era stato il suo sorriso.
Lei, i suoi modi di fare.
La sua voce soave.
Il suo essere se stessa, disarmandosi di quello scudo che si era costruita per proteggersi da qualsiasi pericolo.
«Too much love will kill you
If you can't make up your mind... »
Edoardo, nei meandri dei suoi pensieri, stava per chiudere l'armadietto, quando a un tratto udì un pianto soffocato provenire da un corridoio della Clinica.
"Sembra il pianto di un bambino" ipotizzò, mentre correva come un forsennato, alla ricerca della sorgente di quel suono così triste.
Pensò che si trattasse di qualche sua paranoia, di qualche suo sogno proiettato nella realtà, non riuscendo a trovare nulla.
Poi, all'altro capo del corridoio, trovò una bambina seduta a terra, con la schiena quasi poggiata al muro e la testa sulle ginocchia.
Il cuore di Edoardo si strinse all'improvviso, avvicinandosi poi alla fanciulla.
«Ehi, piccolina! Va tutto bene?» domandò con sguardo preoccupato e poggiando una mano sulla spalla della bimba, coperta da un leggero maglioncino bianco.
Non ricevendo alcuna risposta, il laureando prese ad accarezzarla.
«Ti sei persa, per caso?»
La piccola alzò la testa, mostrando il tubicino dell'ossigeno che padroneggiava il suo viso. Solo in quel momento il ragazzo si rese conto della piccola bombola che era legata al tubo, nascosta dall'altro lato.
Edoardo sospirò, cercando di trattenere le lacrime.
Quanto poteva essere crudele la vita?
"Troppo... " pensò il ragazzo affranto.
«Non voglio!» quasi urlò la bambina, scostandosi dal laureando impaurita. «Non voglio farlo!»
«Cosa non vorresti fare?» chiese il ragazzo.
«Ho paura... » piagnucolò la piccola. Tremava, mostrato anche dalle sue manine magre che cercavano di cingere tutto il ginocchio.
Edoardo provò a dire qualcosa, anche se tentennava nel farlo... le parole gli morirono in gola, così come i suoi sentimenti quando osservava il volto della bambina. Sentiva il suo tremore, con la mano poggiata sulla sua, come se riuscisse a provare il suo stesso dolore.
No, non poteva.
Quella bambina, nel suo piccolo, stava lottando contro qualcosa di molto più grande di lei.
«Oh, eccoti qui! Ci hai fatto preoccupare!»
La voce di Vittoria interruppe il gioco visivo di sguardi tra i due.
Il Primario sospirò, mettendosi una mano sul petto e cercando di recuperare le energie. Le sue onde scure si erano posate quasi con violenza sull'incavo delle spalle, frenate d'improvviso, come la corsa della dottoressa in quel momento.
Il laureando si voltò di colpo, beandosi della vista del Primario. «La conosci?» le chiese.
«Lei è la figlia di Max Ferrara, non lo sapevi?»
«Ehm, no... » s'imbarazzò il giovane Rinaldi, non avendo la minima idea di chi fosse la piccola, men che meno di chi fosse suo padre.
«Max è uno dei ricercatori del Policlinico, forse uno dei più bravi... e lei è sua figlia Martina» spiegò il Primario, piegandosi all'altezza della piccola.
Edoardo annuì leggermente la testa, come per dire di aver afferrato il concetto.
«Martina, tesoro, perché sei scappata?» domandò Vittoria. «Lo sai che abbiamo la visita, oggi.»
«Ho paura, fa tanto male... » sibilò la piccola, cercando di non piangere al pensiero dell'ultimo controllo nella Clinica non andato esattamente a buon fine.
Vittoria abbassò il capo, cercando di trovare una soluzione in quattro e quattr'otto. All'improvviso, il lampo di genio.
«Lo sai che Edoardo è molto bravo?» propose il Primario, mentre il ragazzo cercava di capire quali fossero le sue vere intenzioni. «Perché non ti fai visitare da lui? Non ti farà alcun male, anzi... è un tipo molto divertente e gentile» continuò Vittoria, ammiccando verso il laureando.
«Ti assisto io, in caso, tu reggimi il gioco» sussurrò poi lei al ragazzo.
A quel punto, il giovane Rinaldi prese la parola, sfoderando un sorriso radioso.
«Sai che ho un fidato assistente?» domandò il ragazzo, con un'idea appena fiorita in mente.
La piccola scosse la testa vigorosamente.
«Vieni con me, te lo faccio conoscere» propose, prendendola in braccio e incamminandosi verso gli spogliatoi. Gettava degli sguardi alla visuale attorno a sé e a Martina, studiando i tratti candidi del suo volto un po' pallido, con gli occhi verdi e i capelli scuri e lunghi, raccolti in due trecce laterali.
Il ragazzo aprì l'armadietto con poche mosse e ne estrasse uno dei pupazzi di Winnie-the-Pooh che stava portando con sé fino a qualche momento prima.
«Ti presento il Dottor Pooh, il mio assistente» sorrise alla piccola, scuotendo leggermente il peluche.
La bambina rise, con un dito poggiato sul labbro inferiore, mentre osservava quel piccolo oggetto con occhi attenti. Edoardo glielo porse con gentilezza e lei lo strinse a sé come se avesse ricevuto qualcosa di prezioso.
«Andiamo a fare la visita, tesoro?» sussurrò il laureando, accarezzando il capo di Martina con delicatezza, sussultando al tocco, come se stesse tastando un tappeto di piume.
Vedere quel piccolo abbraccio al peluche carico d'amore e conforto lo fece sorridere, pensando al fatto che forse non ci sapeva fare molto con i grandi, ma con i bambini era capace di fare breccia dentro i loro cuori con poco, con un sorriso, con la bontà, con un gesto sincero.
Le stesse armi che cercava di sfruttare per conquistarsi il cuore di Vittoria.
«Ecco qui! Finito!» esclamò Edoardo, allontanando l'aspiratore dalla piccola e poggiandolo sul supporto, nel riunito. «Visto? Non era così brutto!»
La bimba sorrise, mostrando i suoi dentini puliti da cima a fondo e bianchi quasi da accecare la vista.
«Guarda, dottore!» squittì la bimba, sorridendo e strizzando gli occhi.
«Oh, che paura! Che bocca grande che hai!» scherzò il ragazzo, facendola scendere dalla poltrona.
Sentirsi dire la parola dottore gli aveva fatto un certo effetto. Gli aveva scaldato il cuore.
Era il titolo per cui stava lottando.
Il titolo che cercava di salvare, sperando che quella seduta del Consiglio potesse andare a buon fine.
«Grazie, Edo» sussurrò Vittoria al suo orecchio, facendogli venire la pelle d'oca. «Non ce l'avrei mai fatta, senza di te.»
«Figurati, è stato un piacere» sorrise il laureando, guardando la piccola Martina che si era nel frattempo stretta alla sua gamba.
«Posso chiamarti dottor Orsacchiotto?» domandò la bambina, guardandolo con occhi languidi.
Il ragazzo quasi pianse a quelle parole: non sapeva come, ma lo spirito di Martina l'aveva rapito tanto da fare qualsiasi cosa, come fosse sua sorella. Avrebbe accettato anche il nomignolo più stupido, ma nulla poteva contrastare la dolcezza e l'innocenza di un bambino.
«Assolutamente sì!» l'abbracciò Edoardo felice. «Mi raccomando, ti affido dottor Pooh. Poi mi racconti se anche lui è bravo come me!» ammiccò il laureando.
La piccola quasi saltellò, sorreggendo il tubicino che stava quasi scomparendo dal viso.
Lo stesso che non voleva più portare, lo stesso che era stato motivo di scherno da parte di alcuni compagni di classe, che l'avevano praticamente lasciata sola a fronteggiare quel mostro che le era stato diagnosticato.
Ma in Edoardo, aveva trovato un nuovo alleato con cui combattere e vincere.
«Edoardo, dobbiamo andare... » iniziò Vittoria, carezzandogli la spalla.
Il ragazzo sospirò pesantemente, pensando a quanto ancora sarebbe voluto restare con Martina o a fare qualsiasi altra cosa.
Vittoria, in quel momento, fece un gesto del tutto inaspettato: strinse la mano del ragazzo, facendolo tremare di colpo.
Mai si sarebbe aspettato di stringere con forza le sua dita che, ogni giorno, operavano con maestria e armonia, come un musicista durante un concerto di musica classica.
«Il Consiglio ci aspetta» sentenziò la dottoressa, ricordando a Edoardo l'appuntamento che aveva con il suo destino.
(continua...)
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