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1. Nulla calamitas sola

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Nulla calamitas sola


"Maestro, di che ci parli oggi?"

"Della pioggia. Da bambino la odiavo. Poi ho capito."

"Cosa?"

"Che bisogna ballarci sotto.

Imprigiona tutte le lacrime e fa vivere i fiori."


Pioveva quel giorno.

Lo ricordo ancora perché i giorni di pioggia sono i più memorabili.

È più difficile dimenticarsi di un giorno di pioggia che di un giorno di sole, se ci si pensa. La pioggia è invadente. Fa silenzio, urla, saltella, picchia. È potente. Sporca, lava, nutre, disseta, allaga. Risucchia ogni attenzione perché può essere quieta o arrabbiata e non sai se e quando passerà da uno stato all'altro. La pioggia è egocentrica, ma è anche comprensiva, empatica quasi. Ti capisce.

Sotto la pioggia puoi piangere e non se ne accorge nessuno, se non chi è abbastanza interessato da fissarti nelle pupille.

Avevo pianto tante volte sotto la pioggia. Vederla era come sbloccare una serratura, come spingere un interruttore. Pioveva e quindi potevo piangere, a mo' di sillogismo.

Mi concentrai sulle gocce che giocavano a rincorrersi sui vetri delle finestre. Si arrampicavano, litigavano, facevano l'amore, poi la guerra, e mentre una si infranse contro la cornice che circondava il vetro della portafinestra, pensai a Dante. Quando ero triste non pensavo a Leopardi, ma al poeta fiorentino. Alla selva oscura, alle fiere, allegoria di superbia, lussuria, avarizia. Le mie personali erano la perdita, l'ansia, e il rimuginio. Tolta l'allegoria, le belve feroci nella mia vita, fautrici delle pareti della mia selva oscura, erano tutti animali dai corpi mostruosi e la faccia di mia cugina, sua madre e uno qualsiasi dei goblin con cui avevo frequentato la scuola.

–  Non ho capito niente. –  berciò Diletta, beccandosi una gomitata nelle costole da parte di Celeste.

Lo dedussi dal colorito 'ahia!' che uscì dalla bocca della prima e che mi fece tornare alla realtà.

Non erano in videochiamata, ma potevo immaginare benissimo la scena. Erano a casa di Celeste, nella sua cameretta, entrambe stese pigramente sul letto matrimoniale, con i libri dei loro prossimi esami sparsi sulla coperta rosa confetto. Celeste con i capelli biondi raccolti sulla nuca da una matita mangiucchiata e Diletta con i dread neri a circondarle il viso a cuore. Stavano usando il cellulare di Celeste e avevano le bocche troppo vicine al microfono: alcune lettere mi arrivarono più soffiate di altre.

– E quando mai! – borbottai. – E non urlare! – scostai di poco il cellulare, strofinandomi l'orecchio destro che fui certa fosse già rosso.

– Cosa hai detto? – si indispettì.

– Ho detto che non è una novità che tu non ci abbia capito niente.

– Agnese, meglio per te che tu mi sia lontana, altrimenti...

– Oh, e andiamo! Le fai spiegare cosa è successo? – intervenne Celeste.

Alzai gli occhi al cielo, posandoli poco dopo su un gruppo di turisti che, come vidi dalla finestra che dava sul marciapiede, stavano scattando fotografie in maniera compulsiva. Si fissarono su un cassonetto della spazzatura. Lo guardarono con entusiasmo, spingendomi a domandarmi cosa avesse di diverso da quelli dei loro paesi. Li invidiai. Se trovavano la bellezza nei rifiuti, avevano praticamente raggiunto il Nirvana.

– Agnese? – Diletta continuò a reclamare la mia attenzione. – Ti sbrighi a ripetere perché sei diventata una senza tetto e perché nelle foto che hai inoltrato nel gruppo la Michael Kors che ti ho regalato lo scorso Natale galleggiava su un metro di acqua? Devo studiare per l'esame di Lentini e non ho tutto il tempo!

– Tre parole: Stefania. Allagamento. Sfratto.

– Stefania ha allagato la vostra casa e sei stata sfrattata tu?  – mi immaginai Celeste collegare ogni parola come se quello che mi fosse successo fosse nulla di più di uno di quei giochi dei cruciverba in cui è necessario collegare dei puntini per creare una figura.

– Bingo! – scoccai la lingua contro il palato.

– La stessa Stefania che ha scambiato casa vostra per un porcile?

– Lei. – trattenni una smorfia al ricordo della sua sporcizia. – Stamattina sono uscita presto per andare a fare l'esame di storia medievale, no?

– Quello in cui hai preso trenta e lode.

– Che secchia che sei, Agne!

– Non è questo il punto! Quando sono tornata, sono stata travolta da litri di acqua. Quell'idiota non ha avuto neanche la decenza di avvisarmi! L'ho trovata con uno sturalavandino in mano, le cuffie a padiglione sulle orecchie e la sua solita espressione da ebete sulla faccia. Uno sturalavandino, capite?! Che imbecille! Ha bagnato persino il pianerottolo!

– E...? – mi incitarono a continuare, parlando nello stesso momento.

– E invece di trovare una soluzione, ha colto l'attimo per ribaltare la situazione e darmi la colpa. In pratica mi ha accusato di tutto quello che combina lei. Le stavo troppo con il fiato sul collo con la storia delle pulizie e ha pensato bene di giocarsi il tutto e per tutto. Non appena mi ha vista, è scappata via. – morsi con forza la punta della cannuccia, succhiando le ultime gocce di succo alla pera.

– Si è giocata lo status di amante del figlio del padrone, vero? – capì Diletta.

– Oh, sì! Il vecchio le ha creduto subito, ovviamente. Mi ha letteralmente cacciata di casa, senza se e senza ma. A nulla è valso dimostrargli che a livello di logica sia impossibile che sia io ad aver combinato quel disastro. Non solo per come sono fatta, ma anche banalmente per una questione di tempo. Non ci troviamo con gli orari, eppure... – lasciai cadere il discorso, stanca.

– Chiaramente cercavano solo un pretesto per mandarti via! Si vede che di mezzo c'è la salvaguardia della vita sessuale di quel bamboccione del figlio. Che poi, come faccia una ragazza così sporca ad avere anche una relazione è una bella domanda.

– Beh, magari compensa la sporcizia con altre doti. – insinuò Celeste. – Non ci sono altre spiegazioni. Tu controlli persino che le maniglie delle porte siano allineate con le fughe delle mattonelle. Sei la signorina Rottenmeier, Miss Precisione, l'erede di nonna Agnese, la nonna d'acciaio di cui parlano tutte le leggende. È stupido, perciò, credere che tu possa aver lasciato i rubinetti aperti. Non eri la prima a fare delle proteste fuori dal tuo condominio, in stile Greta Thunberg, per il controllo dell'impianto idraulico dell'edifico?

Socchiusi le labbra, pronta a smorzare il velato sarcasmo che sottendeva le sue parole, ma poi le richiusi. Non aveva detto nulla di sbagliato, in fondo.

–  È grazie a questa nomea che ho steso il padrone con una filippica. Il deficiente non ha ribattuto perché sa, lo sa, che è stata Stefania a combinare il casino però, ehi, meglio cacciare la piccola Agnese che la sexy Stefania. Non sarà mobilitato alcun legale, e mi verranno restituiti i due mesi di affitto che avevo anticipato. Il vecchio ci ha provato, però: voleva farmi pagare i danni.

Cosa? – strillarono nello stesso momento, allungando le 'o' con evidente sconcerto.

– Già! Ma, tranquille, gli ho fatto richiudere la boccaccia in un secondo! Ho messo in mezzo decreti, comma, articoli e qualsiasi cosa i libri di giurisprudenza che leggevo da piccola in biblioteca mi abbiano insegnato. Col cazzo che pago anche i danni!

Si aprirono in delle risate argentine. Era raro che infarcissi i miei discorsi di parolacce. Se le usavo era segno che fossi molto in collera, e il tutto le faceva sempre sbellicare. Dicevano che era come immaginare Alberto Angela che imprecasse: uno spettacolo esilarante e quasi irrealistico.

All'età di tre anni mi ero guadagnata, grazie alla mia aria impettita e ai rimproveri che elargivo a ogni adulto in circolazione, il titolo di "Signorina Rottenmeier". Mio fratello, dall'alto dei suoi cinque anni di differenza che lo rendevano il primogenito, amava esaltare il concetto dicendo che ero nata con una ruga a solcare il centro della mia fronte, e che non fossi venuta al mondo tra strilli e vagiti. La mia bocca, infatti, si era aperta in un rimprovero verso mia madre per avermi fatta nascere con troppa vernice caseosa addosso. Una battuta che faceva ridere tutti – tranne la sottoscritta. –  alle cene di Natale. La elargiva ogni volta che bacchettassi mia mamma sulla cottura di qualche portata o sulla disposizione delle stoviglie accanto ai piatti. Da parte mia si beccava dapprima un sorriso di circostanza e poi il terzo dito, tatticamente nascosto dietro a un tovagliolo di stoffa. Era grottesco immaginarmi neonata e con una favella così tagliente.  

In ogni caso, mi meritavo il mio soprannome, dovevo ammetterlo. Ne ero, anzi, abbastanza soddisfatta. Volevo che tutto fosse sotto il mio controllo. Le improvvisate e il disordine mi facevano sentire inadeguata. Dalla disposizione dei libri in ordine cromatico nella libreria, a quella degli oggetti nelle dispense e sugli scaffali, a come usare il tubetto del dentifricio, al modo in cui allacciavo il cinturino dell'orologio sul polso. Tutto doveva assumere determinati contorni. Questa parte del mio essere, così predominante, era croce e delizia. A volte più una, a volte più l'altra.

– Cazzo, Stefania deve essere proprio brava! – Diletta irruppe nei miei pensieri.

– La smettete di parlare di questa tizia? – alzai la voce. – Sono in un bar a bere quello che sarà forse l'ultimo succo alla pera della mia vita, con dei bagagli fradici di acqua sporca, ho tutti i libri rovinati, la mia borsa più bella dispersa in chissà quali meandri della stanza lercia di quella sporcacciona e non ho un soldo in tasca. – presi il fiato, scontrandomi poi con gli occhi del barista. Mi lanciò un'occhiata sospetta, smettendo di asciugare il bicchiere di vetro che stringeva nella mano destra.

– Cioè, ho i soldi per il succo alla pera. – gli indirizzai un sorrisetto, ricevendo in risposta un'ultima occhiata.

–  Non fare l'esagerata adesso! Hai i soldi del doposcuola e quelli che hai conservato dal lavoro in biblioteca e nel pub.... vero?

–  Certo! – era ovvio che avessi dei risparmi. Non ero solita dilapidare i miei stipendi e anche se facevo lavoretti part– time, la maggior parte di ciò che guadagnavo lo conservavo in vista del futuro. Tuttavia, non potevo vantare chissà quale patrimonio, e in quel momento avevo poco da parte per una quotidianità senza lavoro e senza casa. –  È solo che tutti questi casini mi disorientano e mi fanno esagerare.

–  Dolcezza, stai tranquilla, è normale! Si sistemerà tutto, promesso. Ti veniamo a prendere? – mi immaginai Celeste con una bacchetta magica tra le mani e le ali da fatina dietro la schiena.

– Sì, per favore. Non ho la forza neanche di prendere un autobus e i bagagli pesano troppo. Mi sento così triste. Perché le divinità ce l'hanno con me? Sono sempre stata una brava bambina, no? – resistetti all'impulso di accasciarmi contro il tavolino. Chissà quanti batteri stavano festeggiando sulla sua superficie. – È vero, ho rubato una gomma il secondo anno di asilo spinta dallo stesso desiderio di un topo che necessita di un pezzo di formaggio, ma è acqua passata, no?

– Ma certo che lo sei sempre stata, cucciola. E poi, forza, in fondo c'è sempre chi sta peggio! – percepii il suo sorriso incoraggiante nonostante non potessi vederla. Era fatta così: provava sempre a vedere il buono in ogni circostanza.

– Giusto! – Diletta le diede manforte, poi si schiarì la voce. – D'altronde sei stata solo cacciata dal tuo appartamento con un'accusa di cui non ti sei sporcata le mani, evitando per un soffio anche beghe legali; la tua libreria preferita, nonché quella in cui lavoravi, ha chiuso; un mese fa sei stata licenziata dal pub; il marmocchio a cui facevi ripetizioni si è trasferito con la sua famiglia da Mulino Bianco, e quella vipera di tua cugina si sta per sposare con un Marcantonio identico a Chris Hemsworth, che, ops, è proprio il tuo prototipo estetico di ragazzo ideale. – elencò con fare stoico. Lei non era affatto una fata, piuttosto la Freud della compagnia.

Soffocai un urlo. Male, a tratti malissimo. Buio, nuvole nere alla Fantozzi, erbacce, boccacce distorte. Ero nel girone infernale più tetro, quello prossimo all'incontro con Lucifero. In una selva oscura priva di alcun Virgilio a guidarmi.

– Certo che ultimamente la sfiga ti sta perseguitando. – biascicò Celeste, mettendo da parte bacchetta e ali e arrendendosi all'evidenza che di certo ci fosse chi stesse peggio di me, ma che neanch'io scherzavo.

– Ti hanno fatto il malocchio. Tua cugina. È palese.

– Dile, non si scherza su queste cose!

– E chi scherza? Come mi ha insegnato a dire Agnese: è lapalissiano. La– pa– lis– sia– no. Come si scioglie bene in bocca!

– Scommetto che vuoi comprarle un cornetto rosso.

– Ottima idea! Dovremmo cercare qualche rituale per scacciare il malocchio. Nello stile di quel vecchio film con Lino Banfi: occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio.

Nulla calamitas sola. – borbottai, interrompendo il loro sproloquiare.

– Oddio, ma questa frase non la diceva la Rinaldi? Ve la ricordate? – domandò Celeste.

– Eccome se me la ricordo! Quella stronza mi mise il debito in latino il quarto anno. Mi persi la vacanza in Grecia con i ragazzi del quinto. – replicò Diletta, ancora stizzita per quell'episodio.

– Comunque, non mi ricordo cosa significhi. Mi pare, però, che la dicesse sempre quando vedeva Filippo. Era un asino il buon Nandini. Ma che fine ha fatto? – ripresero a distrarsi.

– I mali non vengono mai da soli. – tradussi. – E chissenefrega di Nandini! Venite a prendermi? Ho bisogno di una nuova sistemazione in tempi immediati.  Non voglio chiedere aiuto ai miei, lo sapete che si preoccupano con pochissimo. Posso andare in un bed and breakfast o in un hotel a una stella, ma quanto potrà durare? Pensate a quanto costano gli affitti. Il carovita. L'inflazione. – esaurita. Mi percepii del tutto esaurita.

– Ehi, basta con questa negatività! Siamo o non siamo le tue fate madrine dai tempi delle medie? – la voce di Diletta si accese.

– Ah sì? E da quando? – mi scappò un sorriso.

– Da... quando? – si aprì in una risatina sarcastica. – Quinta elementare: chi ti aiutò con la gomma da masticare che quella bulletta di Sabina ti aveva appiccicato ai capelli? Terza media: chi ti accompagnò allo studio dentistico quando arrivò il momento di farti togliere l'apparecchio? Oh, e in terza liceo? Chi è che si unì alle tue proteste sullo sperpero della plastica nella mensa? E...

– La finisci? – interruppi il suo incessante fluire di chiacchiere.

– Solo se ammetti che siamo le migliori amiche del mondo.

– Lo siete! Le mie fate madrine, i miei angeli custodi, le mie...

– È sufficiente così! Ascoltami adesso: non so se sia stata già affittata, ma per quel che so la stanza che era di quella svitata di Paola è ancora libera, dato che da un po' non si vede nessuno. Posso fare una chiamata alla signora Proietti, accertarmi che non l'abbia già promessa a qualcuno e chiederle se possa darla a te. Certo, nel caso dovrai convivere anche con Omar, che campa di fumo, pettegolezzi e gomme da masticare, e con Stella, che gioca continuamente a video–games e che risponde a grugniti, la casa è piccola e l'intero condominio è un covo di casi umani, ma... l'affitto è conveniente e la pulizia non manca da parte di nessuno. In questo modo non dovrai neanche avvisare i tuoi, se non magari a cose fatte.

– Accetto. – non le lasciai il tempo di aggiungere altro.

– Ottimo! Allora procedo con il contattare la proprietaria. Fino a sue risposte, dormirai nella mia stanza.

– Bene. – si intromise Celeste. – Questa è fatta. Per i soldi... avresti bisogno di un nuovo lavoro, no?  Qualcosa di più sostanzioso del doposcuola, intendo.

– A meno che decida di darmi all'accattonaggio o a una vita alla Diabolik, dire di sì. – tamburellai le dita contro il bordo del tavolo.

– Potrei vedere anch'io di contattare qualcuno.

– Chi?

– Vi ricordate di quando vi ho parlato di un nuovo locale dove voleva portarmi Gabriele?

– Ricordo. – mi feci più interessata.

– È gestito dal suo migliore amico, quello di cui mi parla spesso e che non mi ha ancora presentato. È in fase di apertura, per cui potrebbero essere in cerca di personale.

– Che tipo di locale è? – indagai.

–  Un night club.

–  Cosa? – tossii quando la voce mi uscì troppo acuta.

–  Ci vado io! – rispose Diletta.

– Che c'è? Saresti perfetta in un night club, Agne!

–  Conta che ti abbia fatto il dito medio. – replicai. 

Rise. – Sto scherzando, scema! Credo sia un bar, un pub, o qualcosa del genere. Ti avviso, però: questo ragazzo ha una nomea che lo vedrebbe davvero bene immischiato nei locali notturni.

– Rassicurante... – biascicai. – Che tipo di nomea? Cosa si dice su di lui?

– Quando Gabry mi fa il suo nome c'è sempre di mezzo qualche festino, ragazze, conversazioni frivole. Roba da sesso, droga e rock n'roll, per intenderci. Senza droga, però!

–  Ah... –   feci una smorfia anche se non avrebbero potuto vederla.

– Sapevo che avresti reagito così. – ridacchiò. – Dai, non fare la snob!

–  Non faccio la snob! È solo che da come ne parli, mi sembra il tipo che può interpretare il giocatore di football in una dozzinale commedia americana e non mi sta simpatico a pelle.

–  Vabbè, tu allora sei la nerd. Sai che scintille?

–  Patteggio sempre per il migliore amico sfigato, quindi per me non ci sono scintille in una coppia... cliché.

– Come si chiama il ragazzo? Lo voglio cercare su Instagram. – fece Diletta.

– Si chiama Nicholas. Il cognome non lo ricordo e non so come si chiami sui social.

– Non ti ho insegnato nulla, Cele.

– Perché dovrei voler cercare un amico di Gabriele quando io e lui siamo ancora nella fase della conoscenza?

–  Ora si chiama conoscenza? Vi mangiate la faccia ogni qualvolta i miei poveri occhi si posano su di voi e siete ancora nella fase della conoscenza? Puah, che ridere!

–  Anche capire se c'è compatibilità nel limonare fa parte del conoscersi, certo. – si impuntò Celeste.

Nicholas. – ripetei, ignorando entrambe.

–  Cosa? Non ti piace nemmeno il suo nome?

– Niente. È solo che... nightclub, festini, ragazze... la mia mente parte già in quarta, lo sapete! Mi sto immaginando la sua pagina Instagram piena di scatti con addominali in bella vista, ritoccati con qualche app fasulla, espressione da macho man e descrizione in stile: "Potevi avere me, ma hai scelto tutti." – modulai la mia voce, interpretando il personaggio.

– Cerchi solo un pretesto per fartelo stare antipatico anche se non lo hai mai visto!

– Forse. In ogni caso mi importa poco di come sia, l'importante è lavorare. Per cui, chiedi pure. – scrollai le spalle, mordicchiando la punta della cannuccia.

–  Bene, allora dirò a Gabriele di informarsi.

– Abbiamo ciarlato fin troppo! Dove sei? Cominciamo a prepararci e veniamo a prenderti. – concluse Diletta.

– Sono al bar che si trova tra il nostro Ateneo e l'Accademia di Belle Arti. Quello che ha il girasole nell'insegna.

– Ah, sei all'Elios! Il bar di Gigetto, come no! Paga il conto... hai detto che puoi pagarlo, no? Dopodiché aspettaci fuori. Dieci minuti e siamo lì. – ordinò.

Chiusi la chiamata dopo poco, alzandomi in piedi e avvicinandomi alla cassa proprio quando un gruppo di studenti si fece largo nel locale. Ruppero la quiete, irrompendo con un fastidioso vociare. Dal loro chiacchiericcio da cui acchiappai la parola Rinascimento, dedussi che fossero degli studenti dell'Accademia.

Poco dopo aver pagato, sotto le occhiate ancora sospettose del barman, qualcosa urtò la mia spalla destra. Uno zaino nero, vidi con la coda dell'occhio. Fantastico! Come ciliegina sulla torta mi mancava solo una lussazione, pensai.

Mi voltai con uno scatto veloce, fronteggiando un ragazzo.

– Fai attenzione! – lo ripresi, percependo la mia voce stridula e infastidita.

Il chiacchiericcio si silenziò, cedendo il passo a delle risatine.

Lui alzò entrambe le mani, voltandosi del tutto nella mia direzione. Mi scontrai con un paio di occhiali da sole e un berretto con la visiera.

Ops! Ho il brutto vizio di portare lo zaino solo su una spalla, ma credo sia troppo pesante. – l'angolo destro della bocca si sollevò in un sorriso che mi apparve sghembo e poco sincero.

– Lo credo anch'io. – gli riservai un ultimo sguardo accigliato, attirando su di me altri risolini. Poi gli diedi le spalle. Basta, troppe nuvole grigie per quel giorno. Era già un paradosso che mi trovassi in un bar che si chiamasse 'Sole' in latino. Quale sole?

– In ogni caso, non mi sembra che tu sia caduta!

Impiegai poco ad assorbire il suo patetico commento. Ci risiamo! Succedeva almeno una volta al mese che qualche sbruffone non solo non si scusasse per qualche atteggiamento inopportuno, ma che si divertisse a darsi un tono, a rivoltare la situazione di modo che fosse una povera vittima di una svitata troppo legata all'etichetta, quando si trattava di educazione di base e non di qualche dettame fasullo.

– Come, scusa? – tornai a voltarmi. Ero sempre pronta a rispondere ai loro attacchi.

– Non sei caduta, né hai perso l'equilibrio. È stata una colluttazione del tutto casuale, che non ha provocato danni! – argomentò con sfacciataggine.

– Il fatto che non sia caduta rende il tuo modo di camminare meno ingombrante e scortese? – incrociai le braccia sul petto.

Altre risatine aleggiarono nell'aria. Non erano come quelle delle sitcom, piuttosto più simili a quelle delle ombre dei ragazzini che ai tempi del liceo erano stati miei compagni.

– Ingombrante e... scortese? – il tipo si aprì in una risata. – Sei una principessina uscita da un romanzo dell'Ottocento, o cosa?

Dovetti contare fino a cinque per trattenermi dal fare una scenata. Era la giornata perfetta per sfogare la mia rabbia contro le ingiustizie nei confronti di qualcuno di così maleducato, e dal modo in cui prese a guardarmi il barman e anche i turisti dei bidoni, sembrava che tutti fossero pronti alla mia ira funesta.

– Sono una persona che esige delle scuse da parte di chi fa un'azione scorretta. Portare uno zaino pesante in quel modo è da egocentrici!

Una ragazza dai vistosi capelli tinti di verde gli cinse le spalle, rivolgendomi un sorrisino ironico.

Fu in quel preciso momento che mi sentii schiacciare sotto il peso di tutte quelle occhiate derisorie e sfacciate. Ci ero abituata, o almeno lo pensavo. Non ci si abitua mai a certi sguardi, mi accorsi.

– Come vuoi, milady! Non prenderla troppo sul personale, okay? La lezione che mi hai impartito mi ha insegnato che sono ingombrante, scortese ed egocentrico. Ma ho anche dei difetti, tranquilla!

L'amica al suo fianco mosse le dita della mano in un saluto che mi si figurò come un chiaro invito a levare le tende; poi gli scoccò un rumoroso bacio sulla guancia e lo spinse a tornare dal resto della comitiva che continuò a guardare me e quel maleducato con avidità. Mancava solo vederli sgranocchiare dei popcorn.

Scossi la testa, sentendomi nonna Agnese nei momenti in cui era inorridita dalla maleducazione dilagante tra i giovani.

– Maleducato. – biascicai abbastanza forte perché potesse sentirmi.

– Snob del...

Un clacson inferocito, seguito da un colorito "Ao!" coprì la sua imprecazione.

I capelli ricci del gentiluomo, coperti da un cappello da tennista, così bianco da risaltare la sfumatura scura delle ciocche, furono l'ultima cosa che vidi prima di lasciare il bar.

🐰🎒

Ave.

Quanto mi fa strano ritornare su Wattpad dopo... mesi?... un anno, forse? Molto! Non so cosa aspettarmi. Ho zero aspettative, ma una certezza: dare ad Agnese e Nicholas lo spazio che meritano e che avevano cominciato a richiedermi anni fa quando scrissi la one-shot a loro dedicata. La trovate sempre sul mio profilo con il titolo di 'Part-time (Christmas) lovers' se può interessarvi. Da allora ho cambiato dei dettagli – soprattutto di Nicholas –, ma la trama a grandi, molto grandi, linee sarà come l'avevo presentata illo tempore.

Ho scritto altro nel frattempo, ho persino autofinanziato un mio libro, ma sapevo che alcune persone aspettassero la loro storia e ogni promessa è debito.

Il romanzo è in corso, e conto di aggiornare ogni venerdì, salvo imprevisti. Per ogni aggiornamento/scleri/ roba mi trovate su Instagram come taryn_scrive e su TikTok come silver.finger.

Spero che questo inizio vi sia piaciuto!

Se vi di supportarmi una stella e un commento sono sempre graditi.

Dominus Vobiscum,

Rob

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