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17 - Simulatorium

Bussai con decisione alla porta. Avevo tutta l'intenzione di mantenere la promessa che mi ero fatta, anche a costo di sembrare ridicola. Bussai un'altra volta, questa volta con più forza. -Apri la porta John!- lo intimai quasi urlando. Avrei potuto congelare la serratura ed entrare, o teletrasportarmi direttamente all'interno, ma come sempre avrei rinunciato a quelle ormai istintive soluzioni per tenere la mia identità segreta.

Sbuffai dando un calcio alla porta, spazientita da quella lunga attesa. Dopo essere usciti dal Simulatorium, così avevo deciso di chiamarlo d'ora in poi, e avrei convinto Stark ad appendere un'insegna luminosa sopra la porta per renderlo noto a tutti, avevo raggiunto il gruppo diretto verso le camerate. Come gli altri, mi ero rintanata nella mia stanza per farmi una doccia e togliere la polvere e il sudore di dosso, sentendomi immediatamente più fresca; nel mentre che mi lavavo avevo lasciato una delle mie illusioni a tenere d'occhio la stanza di John, tenendomi informata su ogni suo spostamento.

Ora, sapendo che era in camera sua, era tempo di fargli rimpiangere il suo comportamento idiota. -Aprimi subito o butto giù la porta!- urlai istericamente; sicuramente gli altri mi avevano sentita, ma non vidi nessuno fare capolino in corridoio per assistere.

Sentii il rumore dei passi provenire da oltre la porta; si muoveva a scatti, con pesantezza dato il frastuono prodotto, come se stesse prendendo tempo in cerca di una soluzione.

Potevo sfondare la porta, ma non era una mia proprietà, e non avevo voglia di sorbirmi un rimprovero, seppur meritato, da un adulto, oltremodo da uno come Tony Stark, da un Avengers o altri; solo i miei genitori potevano rimproverarmi. Però non volevo dare l'impressione di essere una vandala, una teppistella che rompe tutto ciò che incontra sul proprio cammino solo perché arrabbiata, ma dopo qualche secondo mi ricredetti.

Al diavolo tutto, al diavolo tutti! Io potevo fare ciò che volevo, quando volevo e come volevo, niente e nessuno aveva il diritto di impedirmi di essere libera.

Feci qualche passo indietro nel corridoio; caricai una sfera di energia cobalto fra le mani e poi la riversai contro la porta, che venne frantumata lì dove si era scontrata la sfera e oltre, dando prova di quanto distruttiva potessi essere, e i restanti pezzi di legno ancora attaccati ai cardini penzolavano privi di sostegno.

Con un sorriso soddisfatto in volto oltrepassai la soglia della stanza. Vari rimasugli della porta erano sparsi in quasi tutta la camera, eccezion fatta per gli angoli più distanti. Ne calciai uno vicino al mio piede, e chiamai nuovamente John, spazientita. Non rispose. Mi avvicinai all'unica altra porta che si trovava nella stanza, quella del bagno; la socchiusi, chiamando nuovamente il piromane ed evitando di imprimermi nella mente un'immagine da incubo, ma non ottenni risposta ed aprii completamente la porta, trovando il bagno vuoto.

C'era ancora del vapore nell'aria e lo specchio era appannato, segno che si era fatto da poco la doccia. Notai la finestra spalancata; per escludere la possibilità che fosse uscito da lì -e anche uscito di senno- sbirciai fuori. Furibonda spaccai con un'altra palla di energia la passerella di ghiaccio che portava dritto alla camera di Bobby a fianco, e mi precipitai fuori dalla stanza giusto in tempo da veder John, con solo un asciugamano in vita a coprirlo, voltare l'angolo del corridoio.

-Non mi sfuggirai!- ringhiai sempre più ribollente di rabbia, lanciandomi all'inseguimento aiutata dalle mie proiezioni, che setacciarono l'intero piano bloccandogli la strada prima che raggiungesse l'ascensore all'altro capo del piano.

Quando fui di fronte a lui, John estrasse l'accendino e mi lanciò contro una palla di fuoco; mi difesi con lo scudo, avvolgendolo poi attorno alla fiamma e soffocandola, avanzando con lunghe falcate verso John. -Abbiamo un conto in sospeso stupida testa calda, e non intendo fartela passare liscia questa volta.- lo minacciai, prendendolo per l'orecchio destro col la mano sinistra mentre col braccio destro gli bloccavo il suo polso destro dietro la schiena, impedendogli la fuga.

In quel momento l'ascensore si aprì rivelando la figura di Natasha Romanoff, che ci squadrò con un'espressione crucciata. -Va tutto bene?- si premurò di chiedere, forse più per sorpresa e curiosità che per vero interesse. Come prima impressione non era stata un granché, ma tanto, ne ero certa, Stark le avrebbe animatamente parlato di noi col suo immancabile sarcasmo e lei avrebbe annuito ad ogni sua affermazione bevendosi tranquillamente un caffè, mentre interiormente lo ignorava ripensando ai file che ovviamente aveva letto riguardo tutti noi.

-Va tutto a meraviglia!- le risposi forzando un ampio sorriso. -Noi avremmo da fare adesso, quindi la saluto qui. Arrivederci.- dissi spingendo John, con la consapevolezza di avere lo sguardo della rossa puntato su di noi.

Lo spinsi con irruenza fino alla sua stanza, dove quasi inciampò nei rimasuglio della ex-porta, e lo condussi nel bagno.

-Che vuoi farmi?- domandò a quel punto, nel suo tono era percepibile una nota più che evidente di preoccupazione. Tentò di liberarsi, strattonando le braccia, e io in risposta gli strinsi maggiormente il polso fino a farlo frignare per il dolore. Dopotutto, ero più forte di quel che apparivo.

-Hai presente il proverbio "uomo avvisato, mezzo salvato"?- iniziai, mi guardò completamente confuso, non ricollegando alle mie minacce precedenti. -Io ti avevo avvertito di non fare cazzate, perciò... Ti avevo chiaramente detto che se qualcosa andava storto per colpa tua ti saresti ritrovato a fare un viaggio sensazionale alla scoperta dei detriti di coprolite rimasti appiccicati sul fondo del vaso di maiolica e relativo sciacquone collocati nella stanza da bagno.- ripetei ricordando le esatte parole con cui lo avevo minacciato, muovendo qualche altro passo fino a ritrovarci davanti il water. -Traduzione per gli imbecilli: buona immersione!- sancii infine facendolo piegare in avanti spingendo col braccio destro, spostando il sinistro dietro la sua testa per farlo affondare nell'acqua.

Posai la gamba destra piegata sulla sua schiena sfruttando il mio peso per tenerlo giù, poi gli concessi una boccata d'aria; John si resse col braccio libero alla tavoletta, ma non gli servì ad evitare la seconda immersione. Lo tenni giù per qualche secondo prima di riportarlo su. La parte superiore del suo viso così come il ciuffo ricoperto di gel erano bagnati; varie gocce gli scivolarono lungo le guance e il mento, e per rendere la punizione più crudele quando lo spinsi una terza volta tirai lo sciacquone, così anche il resto dei suoi capelli.

A quel punto mollai la presa, e John si ritrasse schifato, fiondandosi al lavandino per lavarsi la faccia con dell'acqua più pulita, come se quella del water di un posto come la Stark Tower potesse veramente essere infetta. Represse un conato di vomito, portando la mano a pugno davanti alla bocca, ma al secondo conato non resistette e si gettò sul water per vomitare.

Io uscii e mi sedetti sul suo letto con le gambe accavallate, guardandomi le unghie con indifferenza. Forse avevo esagerato, giusto un tantino, ma John doveva imparare a rispettare gli ordini, e soprattutto a non agire di sua iniziativa. Se anche in missione si fosse comportato in quel modo ci avrebbe messo tutti in pericolo, e non potevamo sapere con assoluta certezza quali pericoli avremmo affrontato in futuro. La simulazione, dove gli attacchi erano programmati ed eravamo seguiti da persone più esperte, era un conto, la realtà un altro.

Sperai davvero di avergli fatto comprendere quanto i suoi errori fossero stati rischiosi, o quanto meno che ad ogni azione corrispondeva una conseguenza, in particolare se andavi contro di me. La paura di subire un'altra punizione come quella odierna magari gli avrebbe suggerito di fare più attenzione alla sottoscritta.

Quando John tirò lo sciacquone e si dette una ripulita veloce alla bocca tornò in camera; mi guardò con un'espressione tra lo sconcerto, la paura e la rabbia, ma quella a predominare era senza ombra di dubbio la paura. -Tu non sei normale.- mormorò con voce bassa e il fiato pesante; era rigido nella postura, segno che avevo ottenuto un effetto: ora mi temeva.

Mi alzai in piedi e lo fronteggiai. Lo vidi muovere le ginocchia combattuto tra il volere indietreggiare e il mantenere la sua posizione vinto dall'arroganza.
-Prova a disubbidire un'altra volta, o anche solo a irritarmi, e ti assicuro che proverai sulla tua pelle altre importanti lezioni di vita come questa. Sono stata chiara?-

Lui annuì, forse per la prima volta in assoluto aveva ascoltato senza ribattere, anche se probabilmente dentro di sé mi stava lanciando decine di insulti. Senza aggiungere altro mi voltai e uscii in corridoio, diretta verso la mia stanza. Chiusa la porta alle mie spalle mi ci appoggiai, liberando la pressione accumulata in quella manciata di minuti in un sospiro.

-Non ti sembra di aver esagerato?-

Avendo chiuso gli occhi appena entrata, non mi ero accorta della figura che si stagliava davanti la vetrata a braccia incrociate. Possibile che fosse sempre nei dintorni? -Ho fatto quello che ritenevo opportuno, seppur non giusto.- mi giustificai scrollando le spalle e sedendomi sul bordo del letto con le gambe larghe, poggiando le braccia sulle cosce, stando con la schiena curvata e la testa china. -Ho fatto un buon lavoro? È la prima volta che faccio una lavata di testa a qualcuno. Spero di aver portato onore ai bulli di tutto il mondo.- ironizzai per alleggerire la tensione.

-Non dovevi per forza trattarlo così. Resta sempre un tuo compagno, stupidità o meno.-

-La stupidità però non è di aiuto, né nella vita di tutti i giorni né in battaglia.- ribattei prontamente.

-Su questo punto sono d'accordo con te, ma...-

-Ma cosa? Hai visto come si è comportato? Non ha dato retta a nessuno, ti rendi conto? E quel che è peggio, e non mentire, lo avete pensato anche voi, è che ci ha messi tutti in pericolo! Non è mica un bambino, queste cose le insegnano pure alla Xavier. Non l'ho minacciato mica per dar aria alla bocca. Ha avuto quel che si meritava e spero per lui che abbia imparato la lezione.- sbottai buttando fuori tutto lo stress che avevo accumulato; mi stesi sul letto, lasciando le gambe oltre il bordo e mi passai una mano sul volto.

Stark mi poggiò una mano sul ginocchio, attirando la mia attenzione. -Siete giovani, dovete ancora imparare tante cose, e alcune non si apprendono sui libri o sul campo di battaglia, ma vivendo ognuno la propria vita. Vedrai che lo capirà da solo la prossima volta.-

Sorrisi a quelle parole. -Un discorso simile me lo sarei aspettata più da un uomo vissuto come Cap.-

Lui spalancò le braccia in un gesto plateale. -Visto? Pure uno come me può imparare e cambiare. Devi solo pazientare e avere fiducia.-

Fiducia: una parola grossa. Però aveva detto qualcosa di vero, ma non sapevo quanto potessero le sue parole avere un valore effettivo per me. Io mi fidavo dei miei compagni? Non abbastanza da rivelargli chi ero. Non ero la persona migliore per giudicare gli altri dopotutto; mi ero atteggiata da giudice e boia insieme, un comportamento che non era da me.

Ripensandoci, ero più irritata del solito, e solo adesso me ne rendevo conto. -Possibile che...- mi misi a sedere, cercando con lo sguardo il cellulare. -Che giorno è oggi?- chiesi a Stark mentre aprivo la mia valigia.

-Il diciassette, perché?- rispose lui seguendo con lo sguardo le mie mosse. -Perché voi donne cambiate umore così velocemente? È snervante.- commentò in sottofondo.

Presi il calendario che mi ero portata dietro, ancora dell'anno vecchio, voltando pagina a dicembre, con un crescente timore dentro di me. Ciò che lessi confermò i miei sospetti. Non persi altro tempo, nascosi un assorbente sotto la maglietta e mi fiondai in bagno, ignorando i richiami di un confuso Tony Stark. Ne uscii qualche secondo dopo ben più tranquilla, e trovai Stark che con lo sguardo mi chiedeva tacitamente quale problema mi affliggesse. -Cose da donne.- sintetizzai, sperando che capisse a cosa alludessi perché mi imbarazzava parlarne con un semi sconosciuto, del sesso opposto tra l'altro.

-Oh.- fece, con un tono che sembrava dire "ora tutto ha senso". -Allora meglio che me ne vada prima che mi ammazzi. Ho già fatto incazzare una donna nel suo periodo, non intendo ripetere l'esperienza con una teenager con i superpoteri.- dichiarò alzandosi dal letto, deciso più che mai ad andarsene.

-Aspetta!- lo fermai prima che uscisse. -Scusa per il mio scatto, non era esattamente intenzionale. Stavi cercando di darmi dei consigli, ma...- dissi non proprio dispiaciuta, ma sentivo di doverglielo dire visto che era venuto lì per aiutarmi.

-Ma sei una donna, lo capisco, hai le tue esigenze, i tuoi trip mentali...- mi interruppe gesticolando in modo così buffo che mi fece ridere.

-Infatti, riguardo ai trip mentali, stavo pensando: stanza delle simulazioni non è un nome troppo lungo? Perché avrei pensato ad una soluzione, già che c'ero. Simulatorium. Suona bene no? E poi, sentilo: Simulatorium. Non ti dà l'idea di una parola latina? Il latino ispira una cosa fica, importante, da fantascienza.-

Restò muto, guardandomi intensamente con un'espressione seria, per poi scoppiare a ridere. -No.- negò semplicemente aprendo la porta e uscendo.

-Dai, suona bene! Dammi almeno un motivo valido!- gridai affacciandomi sul corridoio.

-No, questo è quanto.- sancì inflessibile. -Simulatorium, ridicolo.- lo sentii borbottare tra sé e sé mentre entrava in ascensore.

-Staremo a vedere.- sussurrai chiudendo la porta.

Mi stesi nuovamente sul letto togliendo le scarpe. Tutto quel casino era dovuto ai miei sbalzi ormonali, anzi, solo una parte; il resto del lavoro lo aveva fatto proprio John, quindi non avevo nulla di cui incolparmi. Almeno i conti tornavano: l'avversità di stamattina verso Emily, la reazione eccessiva che mi aveva scatenato John, il nervosismo e il cambio di umore. Se quando mi ero alzata mi ero sentita svogliata e stanca, ora provavo una strana euforia che mi dava una carica immensa.

-Fanculo il ciclo.- dissi, anche se per il momento ero a posto, ma probabilmente entro domani sarei ufficialmente entrata nel mio periodo, e già immaginavo quali disgrazie sarebbero capitate ai poveretti che mi importunavano.

Più tardi raggiunsi gli altri per la cena, pizza da asporto, che tutto sommato non era male, ma non paragonabile alla vera pizza italiana. La cena proseguì in silenzio, fino a quando Cessily non ruppe il ghiaccio chiedendo della missione, che avrebbe avuto luogo tra una settimana, giusto in tempo da non avere più il ciclo.

Terminata la cena mi rintanai in camera mia con Kitty, chiacchierammo per un po' e verso le undici andò a dormire. Rimasi sveglia ancora per un paio d'ore intrattenendomi con i giochi sul cellulare e poi, quando ritenni che la maggior parte delle persone nell'edificio fossero nelle proprie stanze a dormire, decisi di mettere in moto il piano che avevo architettato durante la cena. La parola "Simulatorium" sarebbe diventata virale, con o senza l'intervento di Tony scassaballe Stark.

Iniziai a frugare nel mio borsone, intoccato fino a quel momento, rovistando sui lati; nell'operazione spostai felpe e maglie impilate ordinatamente su due file separate, tra le quali spiccavano le sovrastanti, e sotto stavano alcune paia di pantaloni, la biancheria intima e gli oggetti per il bagno - tra cui spazzolino e dentifricio nuovi, la mia inseparabile spazzola arancione e un flacone di deodorante spray - accolti in una trousse blu rivestita di ghirigori dorati che velocemente portai in bagno per poi riconcentrarmi sulla ricerca.

Trovai il quaderno che avevo infilato alla rinfusa dietro le mutandine e le calze, in parte piegato, e ne strappai con un gesto secco una pagina. Recuperai poi il vicino astuccio e incominciai a scarabocchiare sul foglio, abbozzando stili di calligrafia e disegni astratti, ispirata dalla trousse - la stessa tra l'altro che mi aveva accompagnata in ogni viaggio durato più di un giorno fuori da casa - e motivata da quello che i più definirebbero come un'infantile capriccio, e ammisi a me stessa che solo in parte ero spinta dalla scarica ormonale.

Dopo una decina di minuti abbondanti passati a testare gli stili di scrittura, optai per quella più spontanea e giocosa che mi era uscita. Strappai un altro foglio e tracciai nella parte più in basso a sinistra la fluida riga della S, marcando come sempre più sulla prima curva superiore e allargandomi quasi spropositatamente nella seconda, cercando di contenerla il più possibile per renderla almeno un po' simmetrica. Proseguii con la I, che scrissi un filo più in basso della precedente lettera e procedendo in obliquo verso l'angolo superiore destro del foglio. Arrivata a metà mi resi conto che avrei dovuto stringere e rimpicciolire le ultime lettere per far stare tutta la parola.

Quando arrivai alla A mi fermai un momento. Stavo pur sempre creando il logo per una stanza non di un posto qualunque, bensì della Avengers Tower; doveva essere una scritta caratteristica, che fosse in linea a quel luogo ma senza acclimatarcisi, per ricordare il mio passaggio.

Pensai a qualunque cosa fosse legata alla torre e ai supereroi, ma che potesse essere infilata nella scritta; mi vennero in mente i nomi degli Avengers, elencai mentalmente le loro abilità e poteri, pensai alla città, a qualunque cosa fosse loro collegata. E poi, trovai l'idea.

Chiusi un attimo il trattopen nero che stavo utilizzando per non far seccare la punta, accesi il cellulare abbandonato sul cuscino e mi diressi alla finestra, che aprii completamente con un movimento veloce; il vento freddo della sera mi investì assieme a qualche fiocco di neve, e inspirai quell'aria gelida che mi faceva sentire bene. Mi sporsi dalla finestra e osservai alcuni solitari fiocchi di neve cadere lenti sbucando dall'oscurità del cielo. Doveva aver appena iniziato a nevicare, e trovandoci a New York in pieno gennaio era più che probabile che l'indomani avremmo trovato le strade nuovamente ricoperte di un soffice strato di neve, dopo che per tutto il giorno le macchine spazzaneve avevano girato per la città liberando dagli ingorghi di neve le strade e spargendo sale fin sui marciapiedi per sciogliere le pericolose patine di ghiaccio formatesi.

Il mio sguardo scivolò - non lo avesse mai fatto - sul marciapiede sottostante, a troppi metri di distanza, dandomi le vertigini e facendomi arretrare immediatamente, e mi inginocchiai spaventata sotto la finestra con le mani ancora strette sul bordo, ora più di prima, e le gambe tremanti. Che idea stupida che avevo avuto! Creare piattaforme col seidr a quell'altezza e camminare nel vuoto, che idea stupida!

Ma aspetta, posso proiettarmi!

Buttai fuori l'aria dalla bocca con un verso roco ed esasperato, ma sollevata. Avevo decisamente avuto un'idea insensata e pericolosa solo per una stupida scritta, che idiota! E non avevo nemmeno calcolato di usare i miei poteri. Che idea stupida.

Richiusi la finestra e tornai sul letto, sedendomi a gambe incrociate e proiettandomi in meno di due secondi all'esterno; certo, non avrei potuto scattare la foto così facendo, ma almeno mettevo in pratica le lezioni di sicurezza sul lavoro.

Girai intorno alla maestosa torre in senso antiorario, trovando subito l'enorme piazzale che fungeva da zona di atterraggio per il leggendario Avenjet e individuando sotto di essa la lettera "A" un tempo parte della parola STARK, ben visibile da lontano seppur sola soletta, di metallo e luci al neon che ne rendevano nitidi i contorni anche da Central Park. Ne memorizzai il singolare aspetto soffermandomi a guardarla un paio di minuti, poi sciolsi l'incantesimo e ritrassi velocemente su un foglio bianco la lettera prima di dimenticarne qualche dettaglio.

Mi riconcentrai sulla già iniziata scritta, ricopiando la A di Avengers come il logo sull'edificio, proseguendo poi con le restanti lettere dovendo stringerle, allungarle e appiattirle sempre di più, riuscendo a concludere la seconda gamba della M sull'orlo del foglio.

Aggiunsi con un pennarello qualche stella in modo casuale, di grandi e piccole, alcune in gruppetti, anche sui puntini delle I, evitando di colorare lo spazio inferiore a destra.
Estrassi un altro pennarello, uno blu, e tracciai un segno bicurvilineo, quello della egne spagnola, aggiungendo a fianco uno smile con la faccia da diavoletto con due piccole corna e sull'estrema destra ricopiai un logo che avevo abbozzato prima, un piccolo elmo dorato con due corna, a viso scoperto, circondato da ghirigori e figure geometriche in armonia tra loro. Il simbolo di Loki, e anche il mio.

Guardai il mio lavoro in parte soddisfatta, perché ora lo avrei sbattuto in faccia a Stark, facendo preventivamente alcune fotocopie della scritta e scannerizzandola con la prima stampante che avrei trovato, magari ai piani amministrativi o giù nella hall o dove cappero stava la segreteria, così da averla salvata anche in formato digitale oltre che cartaceo, onde evitare che se ne sbarazzasse così facilmente.

D'altra parte, avevo sbagliato le misure e costretto le ultime lettere a farsi piccole per stare nel foglio, però non mi dispiaceva. Quando si sbaglia bisogna sempre riprovare e correggere i propri errori, però mi legavo sempre ai primi tentativi e mi appigliavo ad essi con tutte le forze; la mia non era pigrizia, il fatto di non voler rifare da capo la scritta era un fatto psicologico.
Mi ero affezionata al primo risultato, non avevo adoperato nemmeno una goccia di scolorina, neanche sulle piccole sbavature che si intravedevano qua e là ma che davano un aspetto più caratteristico e vissuto alla scritta.

Non era la prima volta che il mio atteggiamento volgeva in questo verso: quando ricamai il mio primo punto croce con ago e filo - uscito nel complesso non male, ma un po' storto, disordinato e scombinato -, oppure la prima volta che costruii una casetta con i lego che, seppur sproporzionata e con vari pezzi mancanti nelle pareti, mi aveva affascinata dal primo sguardo e non la avevo più smontata, costringendo mio fratello a rinunciare a quei pezzi (non che fosse poi questo grande problema, avevamo uno scatolone immenso di soli lego a casa, figuriamoci se qualche pezzo non più disponibile fosse un problema), o il decoupage che avevo ideato per la festa della mamma a scuola, che quasi mi dispiaceva non fosse più roba mia, ma che faceva la sua figura in casa nonostante qualche piccolo errore di incollamento.

Tutto quello che facevo con le mie mani lo sentivo come una mia creatura, qualcosa di insostituibile e unico, con tutte le sue bellezze e tutti i difetti accumulati nella sua creazione. Lo rendeva speciale per me, e non potevo certo buttarlo senza pensarci solo per una mania di perfezionismo.

Era una cosa unica che io avevo scelto esistesse, un po' come i libri che accuratamente selezionavo da ammettere nella fila dei preferiti nella libreria a casa, o come ogni accessorio, indumento e soprammobile che negli anni avevo accumulato e che non riuscivo a spostare né a sigillare in una scatola in fondo all'armadio solo perché occupava troppo spazio.

Sollevai il foglio, assicurandomi che l'inchiostro fosse ben asciutto, raccattai il nastro adesivo che da qualche mese faceva compagnia a penne e matite nel mio astuccio viola e sgattaiolai fuori dalla stanza con solo le calze ai piedi e il pigiama, chiudendo silenziosamente la porta alle mie spalle.

Nel corridoio la luce era spenta, perciò tornai velocemente dentro la mia stanza a prendere il cellulare e mi rimisi in marcia, muovendomi agilmente nell'oscurità, abituata ormai a fare le ore piccole per quella specie di insonnia che da sempre mi teneva sveglia fino le prime ore della mattina e durante le quali passavo dalla mia stanza al bagno alla cucina sempre a luci spente finché non mi stancavo abbastanza da prendere sonno.

Evitai di accendere subito la torcia al cellulare sfruttando la parete per delineare il percorso fino all'ascensore, siccome era un tragitto rettilineo facilissimo da ricordare, e quando fui davanti all'ascensore venni aiutata dal contorno luminoso dei tasti per richiamarlo.

Quando le porte si aprirono la luce intensa mi accecò costringendomi a nascondere gli occhi dietro una mano e ad avanzare a tentoni usando il braccio libero per tastare il paesaggio, in particolare le pareti dell'ascensore, e solo dopo che fui entrata mi decisi a riaprire gli occhi e costringermi a tenerli aperti, anche se molto, molto socchiusi.

-Buonasera signorina. Ha bisogno di qualcosa?- mi sorprese una voce all'improvviso. Mi girai di scatto strabuzzando gli occhi, in cerca di chiunque avesse parlato, ma poi mi ricordai che esisteva qualcuno che potevamo udire ma non vedere in quell'edificio.

-Sì Jarvis, dovrei andare al Simula-, volevo dire, nella stanza delle simulazioni.- annunciai correggendomi in tempo. -Dovrebbero mettere luci più soffuse la sera.- borbottai poi appoggiandomi alla parete laterale della cabina, chiudendo gli occhi.

-Come desidera signorina.-

Mugugnai in risposta alla sua risposta, accorgendomi dopo pochi secondi che la luce che perforava le mie palpebre sembrava più leggera, meno spacca-retina. Riaprii gli occhi e sospirai sollevata, sorridendo; mi abituai in fretta alla lieve luce che risplendeva nella cabina, di un colore simile a quello di una fiaccola ma non troppo intenso, quanto bastava a far luce in quel piccolo spazio.

-È di suo gradimento la nuova intensità della luce?- mi domandò Jarvis servizievolmente.

-È perfetta Jarvis.- dissi mentre le porte dell'ascensore si aprivano sul nuovo piano. -Buonanotte Jarvis.- lo salutai dileguandomi nella penombra del corridoio, favorita dalla luce ambrata proveniente dall'ascensore.

-Buona notte signorina.- ricambiò cortesemente l'A.I.

Nuovamente al buio, decisi di usare un piccolo aiutino per rischiarare l'ambiente. Cellulare in una mano e foglio e nastro adesivo nell'altra, mi orientai seguendo l'istinto e i vaghi ricordi che avevo del pomeriggio. Imbucai il corridoio a sinistra, proseguendo per una decina di metri per poi svoltare a destra, trovandomi dopo pochi passi ad un bivio. Destra o sinistra? Presi nuovamente la destra, ma di nuovo mi ritrovai ad un incrocio e stavolta andai a sinistra, ritrovandomi nel corridoio frontale all'ascensore e proseguii dritta, sperando di non passare la notte in quel semi labirinto.

Le calze che indossavo attutivano i miei passi, proprio come i cuscinetti sotto le zampe dei gatti, rendendomi ancora più furtiva e silenziosa. Sperai di non incontrare nessuno, specialmente se sbucato all'improvviso da dietro una porta, perché sicuramente avrei tirato un urlo degno di Tarzan dallo spavento e svegliato tutti i presenti nell'edificio.

Camminai ancora alcuni metri, indecisa su dove andare, guardandomi attorno nella speranza di trovare qualche cartello indicativo. Sbuffai, stanca e stufa, e decisi di chiedere a Jarvis. -Ehi Jarvis, sai dirmi dov'è la stanza delle simulazioni?-

-Secondo corridoio a destra, poi a sinistra.- mi indicò senza esitazione, come se in quei minuti non avesse fatto altro che osservarmi vagare senza idea di dove andare e attendesse solo che gli chiedessi la strada. Pregai che la sua voce non risuonasse in tutto l'edificio, ma che si limitasse al piano dove mi trovavo, e di essere sola su quel piano. Chi mai girerebbe al buio in casa alle prime ore del mattino? A parte me, ovviamente.

Seguii alla lettera le indicazioni ricevute, trovando finalmente la stanza. Strappai due pezzi di nastro adesivo rompendolo coi denti e attaccai il foglio affianco alla porta. La scritta "Simulatorium" era proprio carina, mi piaceva proprio, e suonava pure bene.

Ormai conscia che orientarsi in quell'edificio era un'impresa impossibile e che non avevo voglia di disturbare nuovamente Jarvis, contando poi che il foglio lo avevo già appiccicato, pronunciai un breve incantesimo riproducendo una copia perfetta del foglio originale con uno spruzzo cobalto che si propagò nell'aria per poi vaporizzarsi come una nuvola di fumo, evitando così di dover raggiungere pure la stampante (che poi non sapevo nemmeno dovere trovarla).

Soddisfatta e con un sorriso in volto, mi voltai e percorsi la strada a ritroso per tornare all'ascensore, illuminando la via col cellulare.
Ma d'un tratto qualcosa non sembrava quadrare: perché la mia ombra ora era proiettata sul terreno davanti ai miei occhi, se la fonte di luce era davanti a me?










Spazio autrice

Ehilà, vi sono mancata? ;)

Capitolo mooolto lungo, inoltre se ci avete fatto caso ho leggermente cambiato stile di scrittura (in realtà ho applicato il nuovo stile già dal capitolo 15): voglio soffermarmi di più sui dettagli, sui piccoli gesti, sui pensieri, sui gusti, sulle azioni della protagonista, anche quelle più banali per dare un tocco più intimo alla storia.

Spero non vi dispiaccia 😊 anche perché se riuscirò scriverò anche il resto della storia con quest'impronta.

Inoltre, cosa su cui ho riflettuto parecchio e che mi prendo a schiaffi da sola per non averlo fatto o ritenuto utile prima, cambierò alcune cosucce qua e là. Di che sto parlando? Molto semplice cipollini miei, o forse no: non dormo bene la notte a ripensare continuamente ai lunghi salti temporali presenti solo per mostrarvi le cose più succulente, perciò aggiungerò dei capitoli nel mezzo, renderò la storia un po' più "reale" per così dire, o almeno lo spero (cioè, vi pare che solo con una chiamata questa popó di protagonista ha il permesso di starsene in America?). Perciò la storia si allungherà qua e là, anche i capitoli potrebbero avere alcune variazioni per renderli più coerenti coi nuovi scritti, ma tranquilli che le scene resteranno le stesse, magari con qualche descrizione in più. E tranquilli parte 2, non metterò in pausa la storia per revisionarla, continuerò col pubblicare i nuovi capitoli e man mano li adatterò a ciò che devo aggiungere.
Fine avvisi.

Come sempre, spero che abbiate gradito il capitolo, fatemelo sapere con un commento o una stellina 🖋 ⭐️

🌟🦋vostra Fra🦋🌟

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