33. Subway
C'è qualcosa di strano qui, anche se non saprei spiegare il perché.
Forse è per colpa del cielo. In teoria, la sua gradazione dovrebbe apparire diversa a seconda di dove punti lo sguardo: più scura allo zenit, e più chiara lungo la linea dell'orizzonte. Eppure, qui, sopra lo Strathcona skatepark, il cielo è di un azzurro pastello così uniforme da sembrare... finto. Mi dà questa sensazione di soffitto verniciato, o... non so. Di sfondo monocromo, applicato in digitale, con GIMP. Ci sono solo due nuvolette in tutta la volta. Piccole, compatte, tendenti al rosa... Resto troppo a lungo a fissarle, finché quella che si muove non raggiunge l'altra, immobile. E non mi accorgo che sono uguali.
Oh, giusto. Ora ricordo.
«Morbus, sei ancora qui?»
«Mantieni lo sguardo rivolto verso l'interno, Will.» La sua voce mi risuona nelle orecchie, ma non proviene da alcuna direzione in particolare. «Non perdere la concentrazione, e lasciati guidare dal flusso.»
«Il flusso...» ripeto scettico tra me e me. Non mi è chiaro in cosa dovrebbe consistere questo flusso, e non mi fa impazzire il fatto che Morbus parli per metafore.
Procedo lungo lo stradello d'asfalto, che divide l'enorme prato con l'erba rasata di fresco. Una leggere polvere grigiastra si solleva dal suolo ogni volta che poggio il piede a terra, per quanto leggero sia il mio passo.
Forse a farmi apparire tutto così strano, poco fa, è stato anche questo silenzio. È più facile accorgersi della presenza che dell'assenza, ma adesso che ci faccio caso, è parecchio inusuale che non si senta alcun rumore. Di solito, qui intorno è pieno di gente che parla, mentre adesso non c'è quasi nessuno. Persino Prior Street, alle mie spalle, sembra deserta. Non una macchina parcheggiata, non un pedone sul marciapiede. Sarà estremo, ma... mi sento come se ci fossi solo io, in tutta la città di Vancouver.
Io... e quel gruppo di ragazzini laggiù, vicino alle rampe da skate. Pure loro giocano senza emettere alcun suono. E sono... strani, almeno quanto il cielo. Perché? Non lo so. Sembrano usciti da una foto a colori del libro degli esercizi di francese, anche se sono in movimento.
Scommetto che, se mi fermassi a lungo per guardarli, scoprirei che sono bloccati in un loop di gesti scontati, privi di qualunque germe di conflitto. Quel ragazzino di spalle, ad esempio – il più alto del gruppo, con la maglietta oversize monocromo – tiene un pallone giallo canarino stretto al petto; lo lancia, con estrema gentilezza, a uno dei suoi amici. Poi, come se avesse appena dimenticato il gioco in corso, salta sul muretto vicino e cammina in equilibrio, con le braccia stese come le ali di un aeroplano.
Salta giù. Va incontro a un secondo amico. Si danno il cinque, senza apparente motivo. No, è troppo strano. Mi fermo, e strizzo le palpebre nel tentativo di metterlo a fuoco, finché non si gira. Voglio vederlo in faccia, almeno per capire chi sia.
Ah. Non... Non ha una faccia.
«Se cercherai abbastanza a lungo, troverai il nucleo del tuo essere. Lì, nel ce c'è il varco che riporta all'origine.»
Be', spero proprio che questo "nucleo" non sia dalle parti di quei ragazzini, perché non intendo andare in quella direzione. Mi guarderebbero con... Con quelle loro "non-facce". No, non voglio neanche pensarci. Un brivido mi attraversa la spina dorsale. Riprendo a camminare.
Mi sento teso. Ho trascorso tanti di quei pomeriggi allo Strathcona, nel corso della vita, che potrei disegnarne una mappa a occhi chiusi. Tuttavia, non mi sento come dovrei sentirmi in un luogo familiare. Sembra tutta una presa in giro. E poi, dove si trova questo fantomatico varco? Mi guardo attorno, e vedo solo la distesa d'erba; le rampe, gli stradelli, le panchine. In lontananza, ci sono attrezzature da parco giochi, con lo scivolo, le altalene.
«Non posso prevedere che aspetto avrà. Per ciascuno, il varco assume una forma peculiare, coerente con l'intuizione primigenia, al principio della sua creazione.»
Sospiro, e allungo il passo, nervoso. Immagino dovrei scoprirlo per istinto, o qualcosa del genere, ma al momento non ho nessuna idea. Magari dovrei solo fare dietro-front dirigermi verso casa mia. Del resto, Heatley Ave è a poche centinaia di metri rispetto a qui. Eppure, ho la sensazione che non sia possibile. Che se provassi a uscire dallo Strathcona, mi ritroverei di nuovo dentro lo Strathcona; solo, dalla parte opposta. Come se fossi su una sfera, in cui non c'è soluzione di continuità tra inizio e fine, tra entrata e uscita.
Poi, a un tratto, nel bel mezzo del manto erboso, vedo... qualcosa. Una costruzione isolata, di cui mi sfugge lo scopo. Sembra una specie di quadrato, chiuso su tre lati, in pietra arenaria. Non dovrebbe essere più alto del mio bacino. costruzione, composta da un unico piano.
Mi sembra passata una vita dall'ultima volta che sono stato qui, nella vita reale. Eppure, da quel che ricordo, lì non dovrebbe esserci proprio niente. Solo prato, e nient'altro.
Esco dalla traiettoria dello stradello asfaltato, e inizio a procedere sull'erba. Il lato aperto della piccola struttura è sormontato da un cartiglio in ferro battuto, nero e con inserti d'oro. È di forma rettangolare, con due pilastri sottili e, sulla cima, un'insegna metallica che contiene una scritta:
C E S S N O C K
«Cessnock...?» Questo termine non mi suggerisce nulla. E, man mano che mi avvicino, mi rendo contro che non è un semplice muretto, con un appezzamento interno. Ci sono dei corrimano d'acciaio che accompagnano dei gradini che conducono al di sotto del livello del terreno.
Allungo il passo fin quasi a correre; il battito accelera, il fiato si accorcia e, man mano che si fanno più nitidi i dettagli, un dubbio mi stringe lo stomaco in una morsa: può, dentro di me, nel mio inconscio, esserci qualcosa che non corrisponde a nulla che io che io abbia già visto? Un elemento così dissonante da aver l'aria di appartenere a un altro posto, a un altro inconscio, e non avere alcun senso per me?!
Mi blocco sul bordo, sotto all'insegna del cartiglio. In fondo al breve tratto di scale, di fronte a uno spiazzo di pavimentazione in pietra, c'è un ingresso, con due dissuasori del traffico a fare da guardia. Sopra, c'è una grossa insegna grigia, applicata sul muro di arenaria. E, accanto a un simbolo circolare di colore arancione acceso, c'è una scritta. Un'unica parola, composta da sei lettere.
Subway
Mio Dio...
Rialzo la testa, per lanciare un'ultima occhiata alle mie spalle. Al di là di questo piccolo tassello di spazio, nulla è cambiato. Lo Strathcona, in questa specie di versione onirica, con il suo cielo finto, il silenzio e i bambini senza volto, è ancora qui.
Eppure, sono anche sotto all'insegna di un cartiglio che proviene da un altro luogo.
Comincio a scendere le scale, le dita sono artigliate al corrimano. Primo gradino, secondo, terzo...
Non c'è alcun dubbio che questa sia una fermata della metropolitana.
Solo che non è di Vancouver.
Raggiungo la piazzola. A terra, pochi passi al di là dei due dissuasori del traffico, all'inizio del tunnel, gli angoli di un vecchio giornale si sollevano con dolcezza, come sospinti da un alito di vento. Mi avvicino abbastanza da accorgermi che i paragrafi sono in realtà composti da una sequela di punti, linee e macchie casuali, in una pallida imitazione di un testo vero.
Questo passaggio, comunque, non porta da nessuna parte. È chiuso da un muro di cemento armato.
«Tuttavia, quello che posso dirti del varco, giovane eroe...»
Ma, proprio lì, c'è un graffito.
Raffigura una ragazza di spalle, col viso rivolto all'indietro.
«...è che, non appena te lo ritroverai di fronte, saprai di essere nel posto giusto.»
Resto attonito. È così simile al ritratto che ho fatto per Becky, in un'altra vita. Gli stessi capelli castani, lo stesso orecchino a cerchietto che arriva a sfiorare la spalla; e il maglioncino a righe, e l'espressione del viso che richiama un po' la Ragazza col turbante di Vermeer.
Eppure non è opera mia. Non è lo stesso ritratto, né la stessa ragazza. Forse, se lo avessi trovato per strada, nella vita vera, avrei pensato a un plagio, o quantomeno a qualcuno che ha voluto prendere spunto da me. Ma qui...
Qui, dev'essere l'opposto. E questo graffito è anteriore al mio, ed è ciò da cui la mia arte è derivata. "L'intuizione primigenia, al principio della mia creazione..."
«E quando questo accadrà...»
Mi avvicino ancora. L'occhio che emerge da dietro la spalla sembra quasi brillare di una luce di vita, che non ha nulla a che fare con i chiaroscuri della vernice. Sembra guardarmi... da altrove.
«...dovrai passare dall'altra parte.»
«E che cosa c'è dall'altra parte?» sussurro. Non riesco a distogliere lo sguardo da quella piccola luce.
«Ci sei tu, Will. Ma da un punto di vista ribaltato. Tu, in forma di idea, nella mente di qualcun altro. Perché, lo sai: prima di essere te stesso, sei un'idea.»
«Cosa devo fare?»
«Ti basterà trovarlo, Will. E avere la volontà di guardare oltre. Non dovrai fare nient'altro.»
Morbus non fa in tempo a terminare la frase che il mio braccio è già sollevato a mezz'aria, l'indice teso verso l'iride scura. Per un istante, sembra quasi che pre-Becky abbia sbattuto le palpebre.
Un'intensa luce bianca mi avvolge.
«E, a quel punto, sarai al di là.»
Nella mente di Leyton.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro