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2. Macchia d'inchiostro

Procedo carponi lungo l'asse obliqua di metallo cavo. Devo prestare la massima attenzione, o rischio di scivolare giù e andare a sbattere sul pavimento. Sulla mia testa, c'è la rete del letto a doghe orizzontali, in legno chiaro, a farmi da soffitto. A stare qua sotto ci si sente come in un immenso bunker militare, o in un grande laboratorio segreto sotterraneo da cui è stata fatta sparire tutta l'attrezzatura. 

Il lenzuolo, al mio fianco, scende morbido fino al parquet, come un tendone. Non lo guardo finché non raggiungo la fine della sbarra: il punto in cui l'asse si fissa alla gamba del letto, ad angolo acuto, tramite un bullone largo quanto un vassoio. Cerco di mettermi in equilibrio. Afferro un lembo di stoffa: prima una mano, poi l'altra. Guardo di sotto. 

Non è tanto alto. O meglio: la distanza tra me e il suolo è circa il doppio della mia altezza, e non salterei da qui neanche morto se non ci fosse il tessuto al quale aggrapparsi. Anche perché, in caso contrario, non saprei come risalire. No... non c'è un percorso meno rischioso di questo, per raggiungere il pavimento. Di certo, è più sicuro del gettarsi nel vuoto dal comodino nella speranza di acchiappare al volo la tenda della finestra. O del calarsi aggrappati al cavo del caricabatterie. O dell'usare la coperta come uno scivolo.

Così, con il lenzuolo tenuto a mo' di corda, punto i piedi alla gamba metallica e vado giù, a balzelli. Atterro al suolo, a pochi passi da un batuffolo di polvere grosso come un cane labrador. Batto insieme le mani per scuotere la polvere, mi avvicino alla coperta per sollevarla e passarle al di sotto. Risbuco nella luce diurna. Più o meno. Alzo subito lo sguardo per aria.

Aidan è lassù. La sua attenzione è ancora fagocitata dall'abito appeso a una gruccia, sul fianco dell'armadio. Si muove a destra e a sinistra e ne analizza ogni dettaglio. Si tratta di un'uniforme elegante, composta da giacca e pantaloni neri con rifiniture azzurre. Aidan l'ha scoperta stamattina. Il suo occhio-obiettivo si concentra sulla cravatta a righe oblique, appoggiata morbida sulla spalla. Ironia della sorte, va proprio a coprire metà dello stemma ricamato sul petto, all'altezza del cuore.

«Aidan, non credo che scopriremo altro da quel coso, per oggi. Le foto le hai già fatte... Perché non vieni giù?»

Aidan spegne la lucina rossa. Con un tenue ronzio, rivolge l'occhio verso di me e, dopo un attimo di titubanza, inizia a digradare nell'aria.

«Non per toglierti il divertimento, eh? È solo che non sappiamo quanto ci resti. Il richiamo potrebbe scattare da un momento all'altro... Non sprechiamo altro tempo prezioso, dietro a quella specie di... di divisa. Magari c'è qualcos'altro in giro, che ci stiamo facendo sfuggire. Uhm...»

È pur vero che la veglia non è mai durata tanto quanto oggi. Stamattina abbiamo visto la luce del Sole farsi tutto il viaggio verso l'alto, raggiungere lo zenit e sparire oltre il tetto... o meglio: questo è quello che abbiamo dedotto dalla sua inclinazione, attraverso le tapparelle. Da allora, è passato un bel po' di tempo. Non mi stupirebbe se, ormai, mancasse poco al tramonto. Avremmo dovuto sentire il richiamo già da parecchio... 

Tuttavia, è presto per dedurne che d'ora in poi saremo destinati a rimanere svegli per sempre, perciò meglio darsi da fare e raccogliere quanti più dati riusciamo prima che scada il tempo. Alla prossima occasione, la disposizione degli oggetti nella stanza potrebbe essere cambiata un'altra volta.

Hai ragione, Will. È solo che ho qualche difficoltà a decifrare lo scopo di quest'abito, e credo che sia importante.

Già, lo capisco. Non abbiamo mai visto nulla di simile.

Non che sia la prima volta che troviamo un capo di vestiario nella stanza. Sullo schienale della sedia c'è stata una maglietta, una volta. All'appendiabiti da muro, accanto alla porta, ogni tanto c'è un cappotto... Ah, e poi c'è stato il pigiama per terra. Solo che, in ognuno di questi casi, si è trattato di indumenti molto comuni: nessuno stemma, nessuna etichetta... nessun tratto distintivo, insomma.

Infilo le mani in tasca.

«Sicuro che non ci fosse anche l'altra notte? Dal comodino, questo punto della stanza non si vede. Magari era già qui.»

No, purtroppo l'altra notte non ci ho guardato. 

Aidan raggiunge la mia stessa altezza.

«Capisco. Sei riuscito a leggere cosa c'è scritto sullo stemma?»

Lucina verde.

«Ottimo... Quindi?»

C'è scritto: Williamwood.

Lo guardo serio. «Williamwood...?»

Lucina verde.

«E... che cosa vorrebbe dire...?»

Ipotizzo sia il nome del posto in cui è richiesto l'uso di quest'uniforme.

«Uhm.» Mi porto due dita al mento. «Interessante, ma... ne sei sicuro?»

No. Questa è solo la mia prima ipotesi. La mia seconda ipotesi, invece, è che si tratti del nome dell'azienda che ha prodotto l'oggetto. 

«Ah, potrebbe essere.»

Mentre la terza ipotesi... è che si tratti di un nome di persona...

Aidan accende la lucina gialla centrale. Si avvicina lento al mio viso. Il suo obiettivo si restringe. 

Sii sincero, Will... Per caso, il tuo nome completo... è William Wood?

«Cosa? No!» Faccio un passo all'indietro. «Io mi chiamo Will Donovan. Will Donovan,» scandisco, «te l'ho detto un centinaio di volte. Ma perché, scusa? Pensi che quello stemma abbia qualcosa a che fare con me...?» Mi punto il dito sul petto.

Non saprei. Tu sei proprio sicuro di chiamarti Will Donovan?

Sospiro. Lascio ricadere le braccia lungo i fianchi.

«Ti prego, Aidan. Non mettermi in discussione le poche certezze che mi restano. E poi, senti... Questa, a me, sembra una roba da scuola privata. Io... Io vado in una scuola normale. Uhm.»

Mi ammutolisco. 

Davvero vado in una scuola normale?

Ma... su quali basi ne sono convinto...?

Abbasso lo sguardo sulla mia felpa. È per via degli straccetti con cui sono vestito? Per il fatto che le suole delle mie scarpe sono mezze scollate? O per quello sprazzo di ricordo che ho in testa, su di me che mi chiudo alle spalle la porta di una bifamiliare minuscola...? Pure il quartiere non sembrava chissà che di sfarzoso, quindi... magari ho solo dato per scontato di essere povero. O, magari, il semplice fatto di aver chiamato la scuola pubblica "normale" dimostra che ne frequento una, senza stare tanto a sottilizzare su quanti soldi abbiano i miei e su quanto sia grande casa mia.

Già. Ma non è questo il punto. Il punto è che, senza rifletterci, il mio primo pensiero è stato che la scuola privata non fosse una cosa "da me". 

E di pensieri simili ne faccio ogni giorno, su mille questioni diverse: mi metto a chiacchierare con Aidan, o a rimuginare tra me e me... e poi, di colpo, mi accorgo di aver tratto una conclusione strana, tipo che frequento "una scuola normale", oppure che "dovevo vedermi con una persona a cui tengo" allo Strathcona. 

Ma la verità è che nemmeno se mi sforzo riesco a ricordare il nome del mio istituto... o di quella persona che dovrebbe essere così importante. Tutto quello che mi resta... è una serie di flash, tipo... il campetto da basket vicino al portone d'ingresso, il corridoio davanti all'ufficio della preside... o il fatto che nel mio cuore ci fosse uno strano senso di fiducia, di aspettativa, mentre correvo sullo skate lungo le strade di quartiere per andare allo Strathcona. 

Nient'altro. 

È davvero tutto qui.

Eppure non dovrebbe essere passato tanto tempo da quel giorno: ho ancora gli stessi vestiti, e sul mignolo ho una chiazza blu appena un po' sbiadita, come se mi fossi macchiato con una biro giusto stamattina, e non avessi ancora avuto il tempo di lavarmi le mani.

La macchia d'inchiostro.

Rabbrividisco.

No, purtroppo non è un buon esempio.

Qualche giorno fa ero riuscito a pulirla, a forza di sfregarla contro i pantaloni. Era andata via del tutto. Poi, il giorno successivo mi sono risvegliato, e...

Dio, questa cosa mi terrorizza. Non ci voglio neanche pensare.

Rialzo la testa, cerco lo sguardo di Aidan. Anche lui, a modo suo, è impegnato in una riflessione: ruota sul posto come un faro sulla scogliera, e scandaglia tutti gli oggetti nelle vicinanze. Per ora, non dà segno di aver notato alcunché di strano. 

Sospiro. Da una parte, avrei l'impulso di trascinarlo dentro al mio dilemma: "Cosa ne pensi di questa macchia d'inchiostro che è ricomparsa dopo che l'ho pulita, Aidan? Secondo te implica che siamo bloccati in un loop temporale infinito? Perché, se così fosse, allora non avremmo alcuna idea di quanto tempo sia trascorso dall'inizio di tutto quanto. Potrebbe trattarsi di una settimana, di un mese... ma anche di molto di più".

Dall'altra, l'unica cosa che vorrei sentirmi rispondere è: "No, Will, sono passati solo dieci giorni, stai calmo. Ne ho le prove concrete. Eccole qua". Punto. 

E io non la certezza che lui mi risponderebbe così. Quindi, non posso aprire il discorso.

Mi siedo a terra, a gambe incrociate. Sbuffo, e con le dita inizio a saggiare il contorno rialzato di un tassello del parquet. Vorrei solo stendermi, chiudere gli occhi e farmi un bel pisolino per neutralizzare il malumore; ma, purtroppo, dormire non mi è concesso. Il sonno è scomparso insieme alla fame, alla sete, e a tutto il resto dei bisogni fisiologici. Quindi, potrei solo chiudere gli occhi. O restare fermo, a fissare Aidan, mentre lui...

Che sta facendo?!

Di punto in bianco, si è bloccato. Immobile, con l'occhio rivolto a un punto oltre le mie spalle, non emette più alcun suono.

«Aidan? Hai visto qualcosa?»

Ma Aidan non mi risponde. 

Una vibrazione sottile, quasi impercettibile, nel totale silenzio.

Ha allargato l'obiettivo.

«Aidan...?»

Tutte e cinque le sue spie si accendono in contemporanea.

Rosso. Rosso. Rosso. Rosso. Rosso.

"Allarme"...? Vuol dire "allarme"?!

Ruoto il busto di scatto, mi sporgo in avanti, e cerco oltre la pediera. Che cosa c'è da vedere?! Io... Io non...

Un'ombra.

Oddio.

L'ombra di una sagoma umanoide, che si è mossa a lato della shopper di Hollister.

«Ma... Ma c'è qualcuno!» Il fiato mi si blocca in gola. «Ba... Bambina!»

Scattare in piedi, trepidante, col cuore che batte e rimbomba nella cassa toracica. Comincio a correre. «Bambina, sei qui! Sei tornata!»

Ma, al mio richiamo, anziché rispondere, l'ombra s'intrufola di fretta dietro alla borsa. Sparisce, rapida, oltre allo spigolo di cartone. 

I miei piedi si piantano al suolo.

Aspetta...

La Bambina non ha mai avuto paura di me e di Aidan. Non ne avrebbe alcun motivo: siamo amici.

Ma, allora... perché si nasconde?!

Il cartoncino del sacchetto vibra fino ai manici ripiegati, al suo goffo passaggio.

«Quella... Quella non è la Bambina...»

La porta, al di là dell'armadio: c'è uno spiraglio aperto! Chiunque sia, è entrato di là! 

I miei occhi cercano Aidan.  Perché non ce ne siamo accorti?! Oddio, che cosa dobbiamo fare? Aidan, per favore dimmi cosa devo fare! Non so cosa fare! 

«Aidan!»

Ma Aidan non perde tempo. In un'unica mossa, si proietta in avanti alla velocità di un siluro. Raggiunge il sacchetto, frena, sbircia e, di prepotenza, si tuffa a ridosso del muro. Anche lui sparisce. La shopper ondeggia come sbattuta dallo scroscio di un temporale.

Per qualche secondo, si sente solo il fragore della carta. Poi:

«No! Maledetta boccia stregata!» Una voce stridula, androgina, trabocca da oltre il bordo del nascondiglio. «Vattene! Via da me, via!»

Una capriola. L'intruso rotola come un armadillo e sbuca dalla parte opposta. Poggia le mani a terra, si dà la spinta e balza in piedi. Ora lo vedo bene! Lo... Ma... Ma che diavolo...? 

Non riesco a capire, quanti anni ha?! Ha i capelli... bianchi?! Però sembra un ragazzino... E la pelle è... strana. Sembra ricoperta di fuliggine... 

E, soprattutto, che cosa diamine ha ai lati della testa?! Oddio, mi sono imbambolato. 

Aidan gli sta alle calcagna, lampeggia frenetico; e, prima che quello raggiunga la scrivania, si lancia in aria, verso l'alto, e ricade giù, in picchiata, lo scavalca e si ferma di fronte alla sua faccia, bloccandogli la fuga.

L'intruso fa uno scatto all'indietro; per mezzo secondo, sembra del tutto smarrito.

Poi, fa una finta, lo scarta, e riprende a correre come una furia. Aidan trema di sdegno, sembra un pentolino a pressione, il respiro mi si mozza in gola. Che cosa sta succedendo? Gli si getta addosso come una fucilata. Ma che intenzioni ha, è impazzito? Vuole colpirlo in testa?! Vuole tramortirlo?! Le mani mi finiscono in faccia, non posso distogliere lo sguardo. 

Ma, all'ultimo secondo, l'intruso si acquatta. Aidan passa oltre, è costretto a frenare. Si gira. Cerca il suo sguardo. 

L'intruso salta.

Vortica... 

Sbam! Un calcio rotante colpisce Aidan dritto sul muso.

«Aidan! No!»

Ormai regredito allo status di pallina di Natale, Aidan compie un arco nell'aria, e rotea come una trottola con tutte le lucine che pulsano e abbracciano l'intero spettro dei colori: rosso, rosa, giallo, verde, blu. È... È rotto?! Aidan si è rotto?! E copre svariate iarde, privo di controllo: nulla e nessuno, ormai, sembra potersi frapporre tra lui e lo schianto che l'attende contro il fianco dell'armadio.

Però, giusto un attimo prima dell'impatto, frena. 

Oddio, che sollievo!

E si riporta diritto. Mi lancia ordini dall'alto.

Will, presto! Dobbiamo acciuffarlo!

«Ma... Ma io...»

Corri!

«Oddio!»

Mi volto, inizio a correre. Perché lo sto facendo? Cosa dovrei fare una volta lì? Non lo so. Santo cielo, Aidan.

L'intruso, ad almeno venti iarde di distanza, sfreccia tra le gambe della sedia nella direzione opposta. Col collo infossato nelle spalle, la schiena curva e le braccia che fanno su e giù, chiuse in due angoli retti, punta dritto in direzione del muro; e spero con tutto me stesso che questo inseguimento non duri più di un minuto, perché già mi vedo fare avanti e indietro da un capo all'altro della stanza e mi sale l'angoscia. 

«E-ehi, tu!» provo a urlare. «Ehi!» 

Si blocca di scatto. 

Guarda a destra, a sinistra. Non sa dove andare a nascondersi!

«Ehi!»

Si gira.

Mi gelo.

Le sue mani vanno ai lati delle cosce. Stringe le nocche, le rialza, le porta al livello delle tempie. Non faccio neanche in tempo a capire cos'abbia preso: una sola mossa, secca, precisa, e nei suoi palmi non c'è più nulla. 

Due baluginii mi colpiscono l'iride come fendenti.

Serro le palpebre.

Quando le riapro, sono a un palmo da me. Due sibili, simili a risucchi, spostano l'aria attorno alle mie orecchie, persino i miei capelli ondeggiano.

Poi, mi superano. Passano oltre. 

Dietro la mia schiena, due suoni: tac-tac.

Ma... Ma che diavolo è successo?!

Non... Non respiro. Sono immobilizzato.

L'intruso si è già rimesso a correre. Ormai è perso, non posso seguirlo, non riesco nemmeno a muovermi. Mi volto, con cautela, per guardarmi dietro alle spalle.

Ah. Coltelli. 

Ci sono due coltelli piantati nel legno della pediera, a un palmo di distanza l'uno dall'altro.

«Ma... M-ma...» boccheggio.

Cerco Aidan, nell'aria, come un disperato.

«Ma m-mi ha... lanciato... Mi ha lanciato... due coltelli, Aidan...» Alzo l'indice, tremante. «Mi ha... lanciato due... Due coltelli. Aidan, è pazzo. Aidan...»

So di avere gli occhi sbarrati, perché non sbatto le palpebre da così tanti secondi di seguito che mi si sta asciugando la sclera.

La sua spia centrale è fissa sul rosso fuoco.

Will, ora è disarmato, puoi batterlo. Prendi i suoi coltelli!

«Ma... Ma scherzi?» Oddio, sono nelle mani di due pazzi.

No, fidati! È davvero disarmato!

«Tu non puoi dire sul serio...»

Forza! 

«Oh, oh... Che diamine...» 

Avrà perso il senno per la botta che gli è arrivata in testa quando l'ha colpito il calcio rotante, non lo so... Forse è rotto sul serio. Mi dirigo alla pediera come un automa, afferro i manici dei coltelli, li tiro verso di me. Con due tac simultanei si staccano dalla superficie legnosa. Lascio ricadere le braccia lungo i fianchi, vedo appannato. Io non voglio combattere... No... Sto per mettermi a piangere.

Aidan digrada fino a me.

Will! Sta andando nel vicolo senza uscita!

«Uh?» Sollevo gli occhi gonfi.

Dietro la scrivania, Will! È in trappola!

Diavolo, ha ragione: è proprio laggiù, che corre a capo chino verso il calorifero. Una volta che si sarà imbucato là sotto, tra il muro e il pannello laterale della scrivania, non troverà alcuna via per uscire. È davvero in trappola.

Sparisce oltre il legno.

Oddio. Non dovrò mica seguirlo nel cunicolo?! C'è il grosso ragno, là dietro. Ma no, no, basterà rimanere sull'entrata. Non potrà farci nulla... Io... Lui... Abbasso lo sguardo sui miei pugni chiusi. Le lame... Io sono armato. Lui no. Oh, Dio. Sto di nuovo per mettermi a piangere.

Poi, un grido.

«Ahhhh!»

Subito dopo, un boato metallico.

Teng-g-g-gh! 

Ecco. Questo aveva tutta l'aria del suono che fa un cranio quando sbatte contro il termosifone.

Due o tre lunghi fogli di cartoncino, arrotolati a mo' di cilindro e fissati con degli elastici, cadono giù, uno dietro l'altro, lungo il fianco della scrivania. Il loro rimbalzo a terra, fuori dal nostro campo visivo, riecheggia tra le strette pareti del vicolo. Stavano in bilico sul ripiano.

Io e Aidan ci guardiamo. Non ci diciamo niente, ma immagino che anche lui stia pensando lo stesso. Sì, già. È probabile che l'intruso abbia visto il ragno.

Aidan accende la lucina verde.

Okay, dobbiamo muoverci. Non possiamo lasciarci sfuggire questo piccolo vantaggio: ora sarà a terra, tutto ricoperto dai fogli arrotolati. Non credo si opporrà alla cattura. Iniziamo a correre. Meglio non dargli il tempo di rialzarsi.

Arrivo sul bordo del vicolo. Mi affaccio nel buio.

«E-ehi, tu...?» Tendo i pugnali di fronte a me. «S-sei... Sei v-vivo...? S-s-sei... Sei ferito...?»

I cilindri di carta molleggiano un po'. «Ghg... Gha.» Spunta un braccio, poi una testa, i capelli bianchi. «Ahi...» Si regge una tempia. È di spalle.

Stringo i manici dei pugnali. «F-f-fermo! Non c'è... u-uscita, qu-qu-questo...» Riprendo fiato. «Questo è un vicolo senza sbocco.» Deglutisco. «E-e, e il ragno è... solo... molto brutto.»

Lui si volta di scatto. Oddio, ha gli occhi rossi. 

«No, no, no!» D'istinto, mi paro il viso con gli avambracci. «No, t-t-ti scongiuro, non aggredirmi! Non fare pazzie!» Faccio un passo indietro. 

Non ho il coraggio di guardare.

Silenzio. 

Okay, devo guardare per forza. Sbircio da oltre il braccio. 

L'intruso non si è mosso. È ancora seduto per terra, tra i cilindri di carta, col busto ritorto all'indietro. Mi fissa e basta, senza respirare. 

Le sue spalle sono circondate da una ragnatela vecchia, piena di polvere. Un lembo gli è pure rimasto attaccato sulla punta dell'orecchio. E dondola, triste. Dal lungo orecchio ricurvo all'indietro. 

Un attimo.

Cosa?!

Dai, sono orecchie finte. Non esiste.

Va be', e allora gli occhi rossi? E la pelle grigiastra?!

Potevo interrogarmi anche su queste cose, no? Queste, però, le ho lasciate passare. E adesso, invece, mi fisso sulle orecchie. Come mai proprio le orecchie mi devono sconvolgere? Dev'essere una specie di bias. Sì, un bias.

Okay, no. Questo non è d'aiuto.

Il coso con gli occhi rossi e la pelle grigiastra digrigna i denti, guarda a terra e sospira. «Maledizione» borbotta. Poi rialza lo sguardo su di me. Mi tende un braccio. «Ridammi i pugnali.» 

Non so se ho capito bene. Ha detto proprio...?

«Eh?!»

Lui si solleva in piedi. «I pugnali.» Indica le mie mani. «Sono miei, ridammeli.» 

Sollevo le sopracciglia. «Ma... Ma tu me li hai lanciati addosso.»

«Che c'entra? Mica significa che erano un regalo.»

«Potevi uccidermi! E ora ti aspetti che te li ridia?!»

Il coso sbuffa. Alza gli occhi al cielo. «Oh, ma che ucciderti...? Se avessi voluto ucciderti, saresti morto. Credi sul serio che abbia mancato la mira?»

Ci penso un po'. 

«Be'... Sì.»

«Hm. Già.»

Prendo fiato. Sento che sarà una lunga conversazione. «Ora, p-per favore, stai lì f-fermo, o-o-o... sarò costretto a... u-u-usarli.» Mi sale il vomito.

«Hm. Legittimo.»

«Metti le mani in vista.»

Lui sbatte le palpebre, si guarda i palmi delle mani. Poi, perplesso, li apre di fronte a sé, in orizzontale e verso l'alto. 

«Così?»

«N... No.» Ma da dove è uscito?! «Sopra... Sopra la testa...»

Lui distende le braccia verso l'alto, tipo posizione dell'albero. 

Me lo faccio andare bene. «O-okay... Ora, rispondi: chi sei?!»

«Nevan. Mi chiamo Nevan di Fossatetra.»

Sorvolo sul nome. «E p-perché...» Mi mordo le labbra. Come si chiede una cosa del genere?! Va be', è inutile che mi sforzi di trovare un modo gentile. «Perché hai le orecchie a punta...?»

Coso-Nevan aggrotta le sopracciglia. Abbassa le braccia e mi scruta con indignazione. «Ma mi prendi in giro, umano?»

«Non vedo perché dovrei, non mi pare la situa–»

«Cos'è, non hai mai visto un mezz'elfo del sottosuolo?!»

Lo fisso.

Oh.

Oh-oh.

Devo rispondere davvero?!

No, perché... mi guarda come se si aspettasse una risposta.

Oddio, devo rispondere. Sono rimasto zitto per venti secondi. Comincia a essere strano.

«N-no...?»

«Hm.» La sua espressione si distende. Si tocca il mento con le dita. «Okay, ha senso.»

«Senti, ora basta con queste assurdità. Dicci che cosa vuoi da noi!»

«Da voi?!» Spalanca le braccia. «Niente! Da voi, proprio niente!»

«Ma sei entrato qui, e ci hai pure aggredito!»

«No, no, no, no...» Scuote l'indice con decisione. «No, caro. Voi avete aggredito me!»

«Ma tu mi hai lanciato addosso due coltelli!» Mi sembra assurdo dover fare questa conversazione. «Dicci da dove salti fuori, e perché sei venuto qui!»

«Okay, cerchiamo di mantenere tutti la calma, d'accordo?» Allarga i palmi verso il suolo. «Punto uno: non voglio niente da te, e dal tuo... bricco volante.» Indica al di sopra della mia spalla. «Non vi conosco nemmeno! Punto due: non sono stato io ad aggredirvi per primo, mi sono solo difeso! Punto tre: non stavo facendo niente di male! Ero qui solo per un sopralluogo. Sono in missione per conto di Kurt.»

«Per conto... di chi?!»

«Di Kurt.»

«E chi diamine è Kurt?!

Aidan accende la lucina gialla centrale. Si allontana pensoso. Lo seguo con la coda dell'occhio. Nevan alza le spalle.

«Kurt, be'... È Kurt. È il capo.»

«Il capo... di che?!»

«Del covo.»

«Del cosa?!»

«Del covo. Senti, andrà avanti a lungo questo interrogatorio? Sei pessimo a porre le domande.»

«Oh, Dio.» Mi gira la testa «Aidan....?» Ma dove cavolo è andato? Mi serve supporto morale.

«E poi, casomai... voi.» Nevan mi punta il dito contro. «Voi, chi siete, e cosa ci fate qui?! Perché ve ne state da soli in questa stanza?!»

La domanda mi coglie alla sprovvista.

«Noi... Io, non... Non lo so...?»

E lui inarca le sopracciglia, sorpreso.

«Ah.» Silenzio. «I vostri nomi?»

«Ehm... Will. Will Donovan. E-e, e lui...» Indico nell'aria. «È Aidan.»

«Hm. E da quale ambientazione provenite?»

Sbatto le palpebre. «Come hai detto, scusa?»

Lui mi guarda come se fossi lento di comprendonio. «Ti ho chiesto da dove provenite.»

«No... No, no. Che parola hai usato...?»

Mi scruta. «Oh...» Assottiglia le palpebre. «Ahi, ahi.»

«Hai detto... Hai detto "ambientazione"?!»

«Quindi voi due non sapete niente.»

«Niente di che cosa?! Di che cosa?! Hai detto "ambientazione"?! Hai detto così?! Che cosa vuol dire?! Che cosa vuol dire "da quale ambientazione provenite"?!» Oddio, non respiro. È un attacco di panico.

«Ehi, ehi... Calmo...»

«Non dirmi calmo! Non... Non dirmi calmo!»

«Ti chiami Will, giusto?» Fa un passo in avanti.

«Stai lontano! Stai là!» Gli punto i pugnali.

«Okay... Okay.» Alza le mani. Ah, ma allora lo sa come si fa. «Non mi muovo. Sto qua. Guarda: sono fermo, vedi?»

«Hai detto "ambientazione"?!» 

«Puoi mettere giù i coltelli, per favore?»

«No. No, no, no.»

«Non te li rubo. Te lo giuro. Mettili solo giù. La lama rivolta verso il basso.» 

Con le mani tremanti, in maniera meccanica, eseguo. I suoi occhi rossi seguono il mio movimento con apprensione.

Annuisce. «Ecco, bravo.» Sospira di sollievo. «Ti ringrazio.»

Deglutisco. «Io vengo da Vancouver, va bene?!»

«Sì, sì, va bene.» 

«Downtown Eastside, Heatley Ave. Il mio numero civico è a tre cifre.»

«Ti credo, giuro.»

«Stavo andando... Stavo andando allo Strathcona Skatepark, dovevo vedermi... con qualcuno.» La mia voce trema.

«Okay...?»

Crollo. «Non mi ricordo con chi...»

«Oh, no.» Nevan alza gli occhi al cielo. «Ti prego, non metterti a piangere.»

E io, non so come, sono finito con le ginocchia a terra. Sono un fiume in piena. «Non ricordo il suo nome... Non... Non mi ricordo...» Mi raggomitolo, la schiena incurvata, la faccia contro le ginocchia e i palmi ficcati nelle orbite, a nascondere le lacrime. 

«Will...?»

«Perché... Perché tu sei un elfo...?»

«A dire il vero sono un mezz'elfo.»

«È... È uguale...»

«Ascolta. La situazione è un po' complicata da spiegare, così su due piedi, okay? Voi due... non dovreste rimanere qui, da soli. Venite con me. Vi posso portare da Kurt. Lui... Be', ci penserà lui. Vi spiegherà tutto.»

Alzo la testa. «Ma dove?!»

«Al covo...»

«Ma che covo?!»

«Al... Al covo di Kurt, te l'ho detto prima. È in un'altra stanza. Siamo tutti in un'altra stanza. Voi due siete gli unici isolati.»

Nella vista periferica, a un passo da me, è comparsa una lucetta verde. È Aidan, è tornato tra noi. Ma cosa vuole dirmi con quel segnale? Mi giro, lo osservo meglio. Con un leggero ronzio, abbandona la mia spalla e, titubante, si avvicina al viso del nostro interlocutore. 

«Allora,» fa quello, «accettate?»

Lo fisso. Fisso tutti e due. Stanno davanti a me, e Aidan ha acceso la spia gialla. Entrambi attendono una mia risposta.

«No!»

«No...?»

«Col cavolo, no! Io non ci vengo con te. Aidan...?» Cerco il suo sostegno.

«Ma perché no...?» Mi chiede il mezz'elfo.

Mi volto verso i taccuini.

«No» ribadisco. «Io non mi muovo. Non posso.»

Nevan alza le spalle. Si rivolge ad Aidan. «Tu, invece?»

«No, no, no, Aidan! No!» Intervengo prima che possa rispondere per suo conto. «Non... Noi non possiamo allontanarci dai taccuini, lo sai!»

Ma, Will...

«Per favore... Non me la sento, Aidan. Non... Non te ne andare.»

Aidan accende la lucina azzurra.

Oddio. Ora mi sento... in colpa.

Il mezz'elfo sospira.

«Capisco. Va be', sentite... Non posso certo obbligarvi. Però, l'ho detto anche prima: io ero qui, per fare un sopralluogo per conto di Kurt. Quindi, adesso tornerò là,» indica in direzione della porta, «e gli farò rapporto sulla vostra presenza. Mi spiace se la cosa vi può disturbare...» Alza le spalle. «Ma non intendo nascondergli un'informazione del genere. Ehm...» Si china, tende una mano verso di me. «I miei pugnali. Posso...?»

Già. Ho ancora i manici stretti nei pugni. Scuoto la testa. Li mollo sul parquet, li spingo ai suoi piedi.

«Grazie.» Lui li raccoglie, si rialza, e li rinfila nei foderi ai lati dei pantaloni. Fa per allontanarsi, poi si blocca. «Ah, prima di andare, lasciate che vi dia un consiglio.»

Tiro su col naso. Sollevo lo sguardo.

«Ci sono un po' di pericoli, là fuori. Io conosco bene la strada, mentre voi due... dubito. Quindi... Se vi decidete adesso, potete approfittare della mia presenza. E state tranquilli che io vi faccio arrivare al covo in sicurezza...»

«No.»

«Se, invece,» continua, come se non mi avesse sentito, «doveste cambiare idea mentre io non ci sono, tipo, che ne so, domani... Be'. Vi sconsiglio di avventurarvi da soli. Piuttosto, aspettate mie notizie. O di Kurt. Non fate stupidaggini.»

Guardo a terra.

«Avete capito?»

«Tanto non usciamo» borbotto.

«Okay, come volete. Vado.»

E si allontana. Con una corsetta, raggiunge l'altro capo della stanza e sparisce oltre lo spiraglio.

Aidan è rimasto lì fermo. Il suo occhio-obiettivo è rivolto laggiù, verso quel punto, e per lunghi secondi non si discosta dallo spiraglio vuoto. Sento... un buco nel petto. L'ho deluso? Ho sbagliato? Non dovevo rifiutare...?

Ma... io l'ho fatto anche per il suo bene. È una pessima idea, allontanarsi dai taccuini.

Con lentezza, avanza nell'aria e si dirige verso il letto. Di solito i suoi movimenti sono più rapidi. È come se fosse... scarico.  

«Aidan...»

Non mi risponde. Sparisce dietro la pediera.

Perché non capisce...?

«Io sono di Vancouver... Downtown Eastside, Heatley Ave. Il mio numero civico è a tre cifre.»

Quella... è casa mia.

Casa mia. Non un'ambientazione.

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