18. Fatal Flaw
Con la testa bassa, inginocchiato a terra, cammino a gattoni lungo la parete interna dello scaffale. Voglio andare avanti, fino all'angolo più buio, per rannicchiarmi lì, in silenzio, con la schiena al muro e le braccia strette attorno alle ginocchia. Io... non sto bene.
In un altro scenario, qualunque altro, avrei almeno potuto "dormirci sopra".
Sempre che sia possibile prendere sonno, dopo una cosa del genere. E non... passare la notte intera a fissare il soffitto, con le viscere annodate, le fitte nel petto, trascinato nel turbine ossessivo dei pensieri rimasticati e sputati fuori dalle tenebre.
Perché, in questo caso, non avrei avuto nemmeno la consolazione di poter dire a me stesso: "Ma no, mi giudica così male perché non mi conosce". Oppure: "Lo dice col preciso intento di ferirmi. Non devo dargli peso, non c'è nulla di vero".
Perché nessuno mi ha detto nulla, per ferirmi. Nessuno mi ha giudicato in alcun modo.
Era tutto nella registrazione. La registrazione... mi ha sbattuto tutto in faccia, senza alcun filtro.
E poi, qui non si può dormire. Si rientra nel quaderno e se ne riesce, e questo è quanto. Non esiste alcuna percezione del tempo, una volta che si è lì. Perciò, è come se non fosse passato nemmeno un istante. Tutti i ricordi sono freschi, e non fanno sconti.
Dopo la... realizzazione, ieri, i fotogrammi del video hanno continuato a susseguirsi a lungo, in un'inutile alternanza di PLAY e FF, sullo sfondo di una discussione sempre più accesa, intervallata solo da cupi silenzi.
Ma io non seguivo più. Non lo facevo, perché ero ben conscio che l'unica scena importante fosse già stata trasmessa, e che tutto il resto non avesse più rilevanza di una sequela di titoli di coda. Ma sono rimasto lì, in mezzo al resto del covo, senza muovere un muscolo per un sacco di tempo, in una sorta di catatonia che persino io percepivo come artefatta, come uno stratagemma messo in atto solo per fuggire, a un qualche livello, anche senza farlo con le mie gambe. E c'erano gli occhi di Rahel, di Nevan, di Kurt, che mi piombavamo addosso come mazzate... E del professor Pierce, che non ho avuto il coraggio di guardare in faccia.
Poi, me sono andato. L'ho fatto un passo all'indietro alla volta, finché non sono arrivato alle spalle di tutti. A quel punto, Morbus sovrastava più l'adunanza dal fondo della sala. Deve aver avuto la mia stessa impressione, che non ci fosse altro da vedere.
E me ne sono tornato qui, ad attendere un richiamo che sembrava non arrivare mai.
Ora, mi sembra che mi manchi l'aria. Quanto sarà passato dal risveglio...? Oggi, come mai prima, mi risulta difficile capire il tempo. Mi sembra di essere qui da ore, anche se non ho fatto altro che uscire dal taccuino, acquattarmi sul legno e gattonare sulla polvere fino a qui. Ho sentito dei passi sul bordo dello scaffale, al di là delle costine dei libri, prima di nascondermi; e penso che fosse Florent, che si guardava attorno prima di andarsene per la sua strada. È possibile che non sia accorto che ero sveglio, o che abbia preferito starmi alla larga, e non essere costretto a...
A guardarmi. E a riconoscermi per quello che sono, cioè... l'incarnazione di tutto ciò che ci ha reso prigionieri qui, su questo piano.
I battiti del mio cuore non accennano a rallentare. Mi risuonano nei timpani come tamburi, ma... credo che, Dopo il rumore dei tacchetti del vampiro sul legno, ci sia stato solo il silenzio.
Io... voglio solo uscire da questa stanza.
Certo, non escludo che gli altri potrebbero pure lasciarmi in pace, pure se rimanessi qui. In fondo, nessuno sa davvero cosa accada, in casi come il mio. Non mi ricordo più dove né quando, ma mi è rimasta impressa la storia di Nevan che, dopo essersi spinto troppo lontano dai quaderni, per un bel po' non è stato incluso nel risveglio. E se fosse successo anche a me? Perché non potrei essere sospeso in una sorta di ibernazione, a causa dello shock? Tuttavia... il rischio che qualcuno – chiunque – mi venga a cercare, c'è. E io... non voglio, non...
Un'improvvisa urgenza mi spinge in avanti come una molla e, senza urtare contro la copertina rossa, e mi trascino fuori come se, di colpo, questo buco avesse preso fuoco.
Una cosa è sicura: più aspetto qui, nell'indecisione e nell'immobilismo, più il rischio d'incontrare qualcuno si fa consistente. Che sia nel tragitto, o perché viene qui. Devo... Devo approfittarne adesso, che è ancora presto, e che Florent non c'è, e non ci sarà nessuno in giro.
Tendo l'orecchio nel buio, trattengo il respiro. Poi mi alzo in piedi. A passi lenti, avanzo fino al pertugio conduce all'esterno.
Mi affaccio al di là. Come speravo. Non c'è anima viva, a guardare da qui. E laggiù, dall'altra parte della stanza. la porta è socchiusa.
È il momento buono. Mi ritiro nell'ombra solo per afferrare lo skate. Devo portarmelo dietro per forza. Altrimenti, non appena Florent tornerà qui, capirà subito che non sono nel taccuino. Che mi sono svegliato, e sono semplicemente andato via. Non voglio che lo sappiano... Non voglio che mi vengano a cercare. Sguscio all'aperto e salto giù dal bordo, rapido e furtivo come Omar, quando sentiva i passi di suo padre che risalivano le scale e lui aveva aperto una lattina di birra sul terrazzino.
Butto a terra lo skate e ci salto sopra, ma solo dopo aver raggiunto la superficie morbida del tappeto: il rumore delle ruote, attutito al massimo. E sfreccio verso l'uscita, verso spazi più ampi, meno affollati, che non facciano da cassa di risonanza claustrofobica ai miei pensieri intrusivi, dove possa staccare col cervello e pensare a qualsiasi cosa che non sia questa, per almeno un giorno. E l'urgenza è tale che non m'interessa se incontrerò il gatto, se mi succederà qualcosa o se mi ritroverò a ciondolare in giro, senza una meta.. non m'importa di niente. Devo stare da solo. Devo...
Ed ecco la fine del tappeto. Freno, metto il piede a terra, riafferro al volo lo skate e continuo ad avanzare a passo svelto. Fin qui, nessuno mi ha visto, nessuno mi ha chiamato o ha pronunciato il mio nome. Accelero, con l'ansia che cresce man mano che l'obiettivo è vicino.
Voglio tornare nella vecchia camera. La destinazione si delinea in me non appena mi ritrovo nel cono d'ombra proiettato dalla cassettiera.
La vecchia camera. L'origine, il punto zero. Il rifugio che non è altro che la prigione che c'era prima di questa, ma aveva almeno il pregio di appartenere a tempi più semplici, tempi in cui non sapevo niente, e non mi sentivo responsabile di niente. Posso già intravedere le mattonelle del corridoio, al di là dello spiraglio.
Poi, un battito d'ali, a diverse iarde d'altezza.
Ma... che cosa è stato?! Da dove?
No, un attimo. Non devo fermarmi a controllare. Chiunque sia stato a produrre il rumore, ci sono buone probabilità che non abbia ancora fatto caso a me, e che non presti attenzione al fatto che sto uscendo. Ma se adesso mi blocco per controllare...
«Che cosa fai vicino alla porta, Will?» gracchia una voce.
Dannazione.
Che faccio? Fingo di non aver sentito, oppure rispondo? Be', ormai mi ha visto... Se adesso scappassi come un ladro apparirei quantomeno sospetto e il fatto che sono uscito diventerebbe subito argomento di conversazione col resto del covo. Conviene che risponda con naturalezza, così da far sembrare la mia uscita un fatto irrilevante.
Sollevo sguardo.
È Piumino. L'uccello azzurro e con un occhio sproporzionato rispetto al resto della testa.
Ma che...? Che cosa ci fa appollaiato sul bordo della cassettiera, fuori dal suo scatolone? Non ne esce mai, diceva il professor Pierce. Certo! E con la mia proverbiale fortuna doveva decidere di cambiare abitudine proprio stamattina.
«Eh, ecco, io devo solo controllare una cosa...»
«Hm, fammi indovinare.» Piega la testa di lato. «Te ne stai andando? Scappi per non affrontare la situazione?»
«C-cosa...?» balbetto con un filo di voce.
«Eh. Ormai ti abbiamo inquadrato, Will.» Le sue unghiette irregolari, alla fine delle zampe, raschiano sul bordo della cassettiera.
«T-tu... Ma tu... Ma tu nemmeno c'eri, ieri. Di che... Di che cosa parli?!»
«Le voci girano» mi risponde, con una schiettezza quasi crudele. Muove la testa, a destra e a sinistra, come se avesse gli occhi ai lati della testa e, ogni volta, dovesse guardarmi con uno dei due... anche se non è così. Poi fa qualche passo indietro. «Ma sì, va', che importa? Va', va'. Tanto non sei utile a nessuno, qui.» E vola via.
Sospiro. Lo spiraglio è ancora aperto, davanti a me. Ecco, ora mi farà sentire un verme sia l'idea di uscire sia quella di rimanere qui.
In un attimo, mi lascio lo studio alle spalle.
La finestra a sinistra, il corridoio che continua a destra fino alla svolta.
Le ruote dello skate sbattono sul pavimento.
Le voci girano, eh? Ma certo, era ovvio. Che altro potevo aspettarmi, se non che iniziassero a sparlare alle mie spalle?
Un piede sulla tavola, l'altro che dà la spinta verso il punto in cui il corridoio si piega... lì, di fronte alla porta chiusa della camera matrimoniale, dove lo spettro ci è apparso per la prima volta, sospeso nell'aria, immerso in un'ondata di luce scura che ha tinto ogni cosa del colore del sangue. Bei tempi, quelli in cui era Morbus il personaggio più detestato del covo.
E corro spedito nel secondo tratto. Vorrei avere il lusso di poter scegliere di non tornare mai più. Quando hai un'intera città a tua disposizione, non sei costretto a rivedere ogni giorno le stesse facce. Ma quando imprigionato in una stanza...
E se invece... me ne andassi davvero? Se scegliessi la via dell'esilio, e decidessi di rifugiarmi sul comodino della mia vecchia stanza, là dove mi sono incarnato la prima volta? In fondo, anche grazie a me, abbiamo scoperto che è possibile resistere al richiamo. Non è, dunque, a un tratto, anche questa un'opzione?
Non c'è neanche bisogno che mi riprenda il taccuino, mi basterà resistere la prima notte, e poi resistere ancora, per due, tre, quattro... dieci, cento, mille notti, finché l'autore non deciderà che è arrivato il mio momento, e io sarò cancellato da ogni forma di esistenza. La fine della sofferenza.
No, non sono obbligato a tornare. E se soffrirò... sarà lo stesso. Anzi, forse mi merito una penitenza. Forse, è questo l'unico modo dignitoso per togliersi di mezzo.
Freno. Di colpo.
Per tutto l'ultimo tratto, non ho mai alzato lo sguardo dal griptape. Ho seguito la riga continua perpendicolare al bordo del tappeto, per procedere dritto anche senza guardare. Se avessi buttato almeno un'occhiata verso l'alto, mi sarei subito accorto, anche da prima di superare il mobiletto, che la porta della mia vecchia camera... era chiusa.
Le mie braccia, già flosce per la tristezza, mi ricadono lungo i fianchi, pesanti come macigni.
A quanto pare, Leyton è come me anche in questo. Tende a chiudere bene la porta prima di uscire dalla sua stanza.
E se provassi a...?
No. Chi voglio prendere in giro? Se ci fosse Aidan, forse. Lui potrebbe rimbalzare sulla maniglia come fece quando partimmo da qui con la mappa di Nevan. O Florent, con la sua superforza da immortale. Lascio lo skate a terra, al centro del corridoio, e mi incammino verso la porta, con nessun altro obiettivo se non quello di rannicchiarmi lì, nell'incavo tra l'anta e il coprifilo. Schiena contro il legno, ginocchia contro il petto. Un altro nascondiglio in cui piangere, solo... meno buio, più isolato. Più triste.
«Ehi... Donovan?»
Mi volto di scatto.
Alle mie spalle, in piedi accanto a una gamba del mobiletto, il professor Pierce mi osserva. Un accenno di esitazione nella sua postura. Come se nemmeno lui fosse sicuro che sia il caso di avvicinarsi a me.
Mi rigiro in avanti, fronte chinata, tiro su col naso e mi asciugo le lacrime alla manica della felpa. A quanto pare, nemmeno qui si può piangere in pace. Bisogna sempre cercare di contenersi, per non far sentire a disagio chiunque decide di venire a vedere cosa fai.
«Ciao...» sussurro.
«Dunque, è vero che sei uscito. Credevo... Credevo fosse un'altra delle stupidaggini di Piumino.»
Eppure, è venuto a controllare lo stesso.
Infilo le mani nella tasca davanti della felpa. Sono stanco. Non riesco a fare niente di meglio che appoggiare la tempia al legno.
«Lo ha detto a tutti, eh?»
«Non lo so.» Il professor Pierce si stringe nelle spalle. Poi, con la goffaggine tipica di un ultraquarantenne incivilito che si è ormai abituato ad appoggiare le natiche solo ed esclusivamente su regolari sostegni costruiti allo scopo, quali le sedie e le poltrone, si piega in avanti, poggia il palmo sul pavimento, ad appena un passo di distanza da me, e cerca di sedersi a terra, con le gambe incrociate. «Posso dirti che lo ha detto a me.»
«Hm.» Be'. Tra tutte le persone che potevano decidere di seguirmi, forse mi fa piacere che lo abbia fatto lui.
Restiamo un po' in silenzio, con lo sguardo proiettato nella stessa direzione.
«È inutile che io ti ricordi... che non dovresti avventurarti nel corridoio da solo. Giusto?»
Sospiro. «Hm.»
«E che può essere pericoloso, specie per... personaggi come noi, che non hanno un background da combattenti, la superforza, o... i poteri magici. Perché sei un ragazzo sveglio, e tutto questo lo sai già. Giusto?»
«Sì, lo so già.»
«Perfetto. Allora non te lo dico.»
Altro silenzio.
«Immagino che tu... non stia passando un buon momento. Vero?»
Non riesco a rispondere subito. Senza accorgermene, mi ritrovo ad avere i denti serrati insieme, il collo rigido come la pietra. Ma non... Non sono arrabbiato. È solo che...
È solo che proprio non si può piangere davanti a un insegnante. È una regola base dell'universo.
Inspiro piano, cerco di far rilassare il collo. Espiro.
«Hm.» Mugugno. «Quando mai è stato un buon momento, da quando siamo qui?»
Altro silenzio. Siamo davvero solo noi due, qui. Forse è vero che Piumino non ha parlato con nessun altro.
Il professore, a il tratto, prende a esaminarsi il dorso della mano. Sempre il nero di quella mina, ogni santo giorno. Come me, che ho sempre la stessa macchia d'inchiostro.
«Sylvanara...» riprende dopo un po', «mi ha detto che sei venuto a cercarmi, un paio di giorni fa.»
«Hm?»
«Sulla cassettiera, mentre... Mentre Aidan era ancora in missione.»
«Ah... Già.»
«Mi ha detto che avevi bisogno di qualcuno con cui parlare, solo che io non c'ero. Mi spiace... di non essere stato presente.»
«Non... Non importa.»
«Possiamo parlare adesso, però. Senz'altro, abbiamo tempo. E nessuno che ci disturbi.»
«Hm.»
Silenzio.
«Sempre... se ti va. Nessun obbligo.»
Altro silenzio. Stavolta, però, più professore.
«Professore...»
«Sì?»
«Lo ha visto anche lei... quello che è successo nella registrazione, no?»
«Sì.»
«E quello che ha fatto... Leyton.»
«Sì... L'ho visto.»
«Ecco.» Il groppo in gola è molto più duro, da mandare giù, di quanto immaginassi. Chiudo gli occhi, anzi, serro le palpebre per isolarmi nel buio.
Il professore esita per un po', prima d'insistere.
«E dunque...?»
«Professore... Io non avrei mai partecipato al quel concorso» dico di getto. «Le... Le avevo detto che... Che a casa avrei letto con attenzione il bando, che ci avrei pensato sopra. Ma non era vero. Avevo già deciso.»
Silenzio.
Il professore inclina il busto un po' verso destra, alla ricerca di una posizione più comoda. Non è per niente a suo agio, seduto per terra. Poi solleva il mento, guarda di fronte a sé, si sistema gli occhiali.
«Già. Me lo immaginavo, Donovan.»
«Ah... Sul serio?»
«Sì...» mormora, con una certa tristezza. «Che tu non avessi davvero intenzione di rifletterci, e che fossi rimasto sul vago, solo per... Per non darmi un rifiuto troppo diretto. Non sono stupido, Donovan. Si vedeva... dalla faccia. Non c'era nessun entusiasmo, nella tua espressione. Eri solo... molto teso. E anche... Anche un po' terrorizzato.»
«Ah...»
Silenzio. Entrambi, suppongo, stiamo ripensando a quella scena in classe. Solo, da due punti di vista diversi.
Quello del protagonista... e quello del Mentore.
«Ma allora... perché non me l'ha detto? Voglio dire.. Perché ha fatto finta di crederci...?»
Il professore si stringe nelle spalle. «Non era la strategia giusta, accusarti... di mentire.»
Silenzio.
«La strategia giusta... per cosa?»
«Per indicarti la strada. Donovan... Il fatto che tu, in quel momento, non ci volessi pensare, non significa che io, dal canto mio, non potessi sperare che, col tempo e con i giusti sproni, avresti cambiato idea.»
«Sperare...?» Sollevo la testa dall'appoggio. «Uhm. Magari, a quel tempo era così, quando non sapevamo niente del nostro futuro. Ma adesso, professore... lei sa tutto, della trama.»
«Non è vero!» risponde subito lui, con sicurezza adamantina. «Non so tutto della trama. Dimentichi che Leyton non ha ancora finito di scriverla.»
«Ma, professo–»
«Certo, è pur vero che non sono ancora passato a raccogliere il materiale del tuo taccuino» m'interrompe. «Però... a meno che, proprio lì, non ci sia scritto il nostro terzo atto... Dimmi, ti risulta che ci sia il terzo atto?»
«Il... terzo...»
«Il finale» chiarisce. «Nel tuo taccuino.» Il dubbio gli attraversa lo sguardo per un istante. «Ti risulta che ci sia scritto il nostro finale?»
«N... No.»
«Allora non ha ancora finito di scrivere la storia.» conclude soddisfatto.
«Okay. Magari non ha finito di scrivere la storia,» gli concedo, «però... la mia scheda personaggio, da qualche parte... ci sta già.»
Il professore si volta a guardarmi con una tale rapidità che quasi mi spaventa.
«"Da qualche parte", hai detto?»
«Ehm... Sì.»
«Quindi, in tutti questi giorni... non hai nemmeno chiesto dove fosse? Scusami, ma... non avevi la curiosità di leggerla?»
Proprio no, Dio mio. Il pensiero non mi ha neanche sfiorato il cervello.
«Eh, professore... Becky aveva letto la sua, e se ne stava tutta mogia a dire che era stupida. Non mi sembrava una grande idea. E poi...» Sospiro. «Lo so già, che sono un fallito. Non è che mi serva a qualcosa, vederlo scritto nero su bianco.»
Silenzio.
«Azzurrino» sussurra.
«Eh?!»
«Nero su azzurrino. È un foglio di carta colorata.»
«Ah, be', allora. Ritiro tutto.»
Il professore ride. Ride... Credo sia la prima volta.
«Comunque, guarda che non c'è scritto che sei un fallito.»
«Preferirei non saperne niente, professore.»
«C'è solo scritto... il tuo difetto fatale.»
«Il... che?»
«Donovan...» Il professor Pierce, spingendosi sulle nocche della mani, ruota di qualche grado verso di me, e mi guarda in faccia. «Quelle che sono scritte nelle nostre schede personaggio non sono... caratteristiche immutabili.»
«Ah, no?» Strano, perché io, invece, non riesco a immaginare nulla di più immutabile di un destino stabilito dall'alto, da un autore che ci muove come marionette in scena.
«No, Donovan. Non per forza. Soprattutto nel tuo caso, visto che... Be', che sei il protagonista.»
Ci rifletto un po' su. «E che cosa c'entra il fatto che sono il protagonista?»
«Quale credi che sia il senso di una storia, Donovan?» mi chiede pacato. «Perché, secondo te, qualcuno si dovrebbe mettere a scrivere proprio la tua?»
Oh, certo che son tutti uguali i professori. Sempre con questa mania di volerti far arrivare alle risposte da solo, e di stare lì a fissarti, con quella faccia tra l'accondiscendente e lo speranzoso... Ma perché non mi dice direttamente quello che devo sapere, e basta?
Lo fisso annoiato. «Boh. Me lo sono chiesto anch'io.»
«Ecco, allora continua a pensarci.»
Che fastidio.
Scuoto la testa. «Senta, professore. Apprezzo davvero il suo tentativo di far apparire la situazione meno tragica...»
«Non è quello che sto facendo.»
«...ma la verità, secondo me, è un'altra, ed è che lei... ha preso un granchio, nei miei confronti. E anche bello grosso. Si era... illuso di poter cavare chissà cosa di buono da me, quando io... non meritavo niente di tutto ciò.»
«Donovan... Ti ho solo prestato un libro e passato un bando. Non esagerare.»
«Non è vero, professore... Non ha fatto solo questo.»
«E che cosa avrei fatto, dunque?»
Eh. Come spiegarlo? Ci rifletto. Mi sembra... di non averci mai davvero pensato, non con questa lucidità. Difficile mettere in parole sensazioni che ti sono solo passate sottopelle... e che non hanno mai avuto il tempo di trovare un nome.
«Mi ha fatto scoprire come ci si sente quando c'è qualcuno che crede in te e non ti tratta sin dal principio come un caso perso.»
«Uhm.» Il professore si risistema gli occhiali sul naso. Guarda di fronte a sé. «Be', sembra una cosa bella.»
«Sì, certo... A parte il fatto che lei è il primo e l'ultimo.»
«Il primo e l'ultimo...» borbotta tra sé e sé il professore. «E Omar, allora? Lui era tuo amico, mi sembra che avesse una buona opinione di te. Pensi che anche lui ti considerasse un caso perso?»
Alzo le spalle. «Professore... Omar era un pluri-bocciato, e aveva pure mollato la scuola. La nostra amicizia era fondata sulla sfiga comune. Era bella proprio per questo. Non c'erano aspettative, e non c'era pericolo di deludersi. Lei, invece, si aspettava un bel po' di cose.»
Silenzio. Passano i minuto, eppure nulla si muove dentro al corridoio. Nessuno è ancora venuto a cercarci.
«Dunque, è per questo che non ci hai voluto nemmeno riflettere.»
«No. Cioè, sì, forse, in parte. Professore... Lei non può andare da un tizio senza prospettive e mettergli in testa che potrà diventare qualcuno. Magari quel tizio si era già abituato vedere se stesso come una nullità e aveva imparato ad accontentarsi così... Lei facendo così rischia di rovinare tutto, perché lo mette nelle condizioni di illudersi, e poi di rimanerci male un'altra volta, insomma... Lei così è come se desse un assaggio di una vita che quella persona non avrà mai. È... È crudele.»
Il professor Pierce, per un attimo, resta a bocca aperta. «D-Donovan,» boccheggia, «stai davvero–»
«No, okay. Ho sbagliato a dire crudele. Mi scusi, non è quello che intendevo dire.»
«Ma–»
«Lo so che lei non ha fatto niente con cattiveria. Il problema è proprio un altro, e cioè che lei ci crede davvero in tutte quelle cose che ha detto... sul fatto che ho talento, e che potrei vincere, e poi usare la borsa di studio... E io di questo le sarò sempre grato, glielo assicuro. Anche quando sarò... più grande, un fallito con un lavoro del cavolo, a mala pena diplomato, e che non si è mai mosso da Downtown Eastside, insomma.»
Il professor Pierce sospira. «A-ascolta, tu–»
«No.» Lo interrompo. «Prima ascolti me.»
Il professor Pierce serra le labbra, perplesso. Non sembra granché disposto a darmi ragione. Però, almeno, accetta di ascoltare.
«Non dicevo per rabbia prima, giuro, è... È il contrario, cioè... In qualche modo lei sarà sempre... quel professore delle scuole superiori che, tra tutti, è stato l'unico a darmi un minimo di fiducia, e a non considerarmi uno su cui non valeva la pena di scommettere niente. Io... credo che... la ricorderò sempre, questa cosa. Capisce...? Solo che... sarà un ricordo triste.» Sospiro. «Perché, anche se lei ne è così convinto, e anche se ha buone intenzioni, nulla di tutto ciò ha il potere di... Di cambiare la realtà.»
Sollevo lo sguardo. Il professore inarca un sopracciglio, in silenzio. Credo sia il suo modo per chiedermi se ora può parlare.
«Sì...?»
«E quale sarebbe la realtà, dunque?»
«Che... Che lei ha avuto torto, su di me. Mi dispiace, ma... io non sono il tipo di persona che prende e va a Ottawa, si riscatta, vince un premio, torna a casa tra gli onori e inizia una nuova vita. Non sono il tipo di studente che rende gli insegnanti orgogliosi, e che fa loro dire "che bravo", così come il figlio che rende fiero il padre, eccetera. Non lo sono, e non lo sarò mai. Non inseguo i miei sogni, non tengo duro di fronte agli ostacoli, e non... Non finisco quello che comincio. Proprio come l'autore. Come Leyton Grant.»
Stavolta, il professore non accenna a voler ribatte. Forse perché il cerchio del discorso si è chiuso, e siamo arrivati al punto. A lui, a Leyton. O forse perché, ho alzato il tono di voce... senza accorgermene. Deve essersi accorto che sono sconvolto. Le ginocchia mi tremano un po'.
Abbasso lo sguardo. Il peso di tutte le nostre esistenze sembra gravare sulle mie spalle, e spingermi giù, verso il centro della Terra. Nella tasca della felpa, le dita si stringono tra loro fino a bloccare la circolazione del sangue. «E adesso...» sussurro, cupo. «Se d'ora in poi mi disprezzeranno tutti, al covo, perché avranno capito quello che ho capito io, e cioè... che lui è me, come... Come potrò dar loro torto? Avrebbero... Avrebbero soltanto ragione.»
Il professore esita. Per un attimo, sembra intenzionato a chinarsi verso di me, ma poi si ritrae. «Che cosa intendi, Donovan? Cosa vuol dire... che avrebbero ragione?» mi chiede confuso.
«È... È...» Il nodo in gola è sempre più stretto, un cerchio invisibile mi stringe le tempie. «È colpa mia!» esplodo. «Tutta colpa mia...» Mi reggo la fronte con la mano. «Avrebbero ragione, professore. Se nessuno di noi potrà tornare a casa, se... Se spariremo tutti, uno a uno... Sarà per colpa di uno come me! Uno...» Deglutisco. «...Di cui io sono solo... la proiezione. Dio, ma si rende conto?! È colpa mia!» grido.
L'avambraccio, la mano che regge la testa, mi fanno da inamovibile schermo. Il professore, dall'altra parte, pare quasi vibrare dall'imbarazzo, di fronte alla mia reazione. Solleva il palmo di fronte a sé, deciso. «O-okay. No, Donovan. Questa... Questa è una follia. Parli così perché sei agitato. Ora fai un bel respiro, e... Proviamo ad analizzare la situazione con calma. Innanzi tutto, non è affatto colpa tua...»
«Ah, no?!» sbotto. «E di chi è, allora? Qual è il motivo, se siamo incompleto? Sempre colpa del destino, immagino... Eppure, qualcuno dovrà pur essere responsabile del, del... Dell'aver lasciato il lavoro a metà, di, di... Di tutto!»
«E che colpa ne avresti tu, Donovan, se l'autore ha fatto queste cose? Solo perché gli assomigli, non significa che sia tu il responsabile!»
«No, Professor Pierce, io...» Ingoio il grippo in gola e, come mi ha detto, provo a fare un bel respiro. E alzo lo sguardo su di lui. «Credo che...Che sia più complicato di così. Quando eravamo ancora a Vancouver, me lo sono chiesto tante volte... "Perché il professore ci tiene così tanto a spronarmi? Che cosa gliene importa...?! Mi sembrava uno sforzo senza senso, il suo, perché... Perché non c'è nulla di male nel restare un mediocre, ecco. In fondo ci rimettevo solo io, capisce? E non facevo male a nessuno... Non, non capivo, non...» Strizzo le palpebre e, dal nervoso, batto la nuca contro lo stipite della porta. Non so come continuare il discorso. Forse il professore ha ragione, sto solo... sragionando. «Professore, mi dica la verità. Io l'ho delusa. Non è vero?»
In professore sospira. «Donovan.»
«Eh.»
«Tanto per cominciare, è un po' che non siamo a scuola. Quindi, puoi anche smetterla di chiamarmi professore. Mi chiamo Upton.»
«Ah.» Non me l'aspettavo. «O-okay, se... Se proprio ci tiene.»
E lui annuisce con accondiscendenza. «E adesso... ti dico come la penso, Will. Posso chiamarti Will, spero.»
Alzo le spalle. «S-sì.»
«Bene.» Inspira piano, espande il petto, e si raddrizza di nuovo gli occhiali sul naso. «Tutto quello che hai detto finora, sul fatto che sarebbe colpa tua... è folle, come ho già detto.»
«Ah.»
«Ma è normale, sei sconvolto. Tuttavia, nella... insensatezza complessiva del discorso... Hai detto anche... qualcosa di vero.»
Hm?
Sollevo lo sguardo su di lui, lo scruto, ma... non sembra scherzare.
«Io credo, Will,» riprende serio «che, di fronte alla proiezione di ieri, in qualche modo, tu ti sia... visto da fuori. Dall'esterno... Capisci? E che sia stato un brutto colpo, per te. Come... una specie di schiaffo in pieno volto, perché all'improvviso hai compreso delle cose di te che, sì, forse conoscevi già, ma non con questo grado di chiarezza. Cose che... non ti piacciono.»
Non rispondo. Continuo a fissarlo
«D'altro canto, io... sono felice, che sia successo. Mi fatto piacere sentirti parlare così, perché... Perché sono momenti come questo l'unico motore del cambiamento.»
Il cambiamento...
Scuoto la testa.
Attorno a noi, l'immobilismo del corridoio è quasi... surreale. È come essere... in una bolla. In cui nessuno può raggiungerci.
Sospiro.
«Professor... Ehm, Upton. Temo che... Che sia un po' tardi, per il cambiamento. Guardi in che situazione siamo...» sussurro.
«No, Will. Non è tardi. Siamo ancora qui... no? Siamo vivi.»
«Sì, ma... per quanto?»
«Adesso lo siamo. E a te... serve solo un po' di tempo per elaborare. Per... riflettere. E poi, riuscirai a vederne anche tu... quello che vedo io.»
«Che cosa...?»
«Ricordi qual era il nostro obiettivo in principio, Will? Il motivo per cui Aidan è partito in missione e ha realizzato quella registrazione. Noi... avevamo bisogno di scoprire qualcosa di più sull'autore.»
«S... Sì...»
«Volevamo capire... quale fosse il motivo... per cui ha smesso di scrivere.» Mi guarda dritto negli occhi. «Pensaci bene, Will. Era tutt'altro che scontato che bastasse... seguirlo, in una normalissima giornata di pioggia, per arrivare a... vederlo, così da vicino. E se lui fosse stato... diverso... da ciascuno di noi. Se fosse stato... altro. Forse... noi avremmo dovuto ripetere la missione tantissime volte, prima di riuscire a capirlo. A quel punto, forse, davvero non sarebbe bastato il tempo.» Un appena percettibile piega gli solleva l'angolo della bocca... «Ma non è andata così.»
«L-Lei... vuole dire che...»
«Che devi indagare in te stesso, Will. Perché, certo, non ti capitato un ruolo facile, qui, come suo doppione, o... come personificazione... del suo stesso difetto fatale, ma...»
«Ma dentro di me... c'è... la chiave» realizzo. Un moto di euforia mi pervade.
E il professore, con un sorriso a metà tra il sollevato e il fiero, annuisce.
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