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Il ristorante dell'albergo ha i tavolini in spiaggia, proprio a ridosso delle sdraio. Devo ammettere che l'insieme è molto d'effetto. Non hanno esagerato in eleganza o lusso, come capita nei locali "per VIP" e l'atmosfera è molto rilassata. Niente tovaglie di pizzo, niente composizioni ricercate a fare da centrotavola, niente lampade di design che rilasciano luce soffusa. Però non manca niente. Le lampade ci sono e illuminano bene, ma senza disturbare la visione del cielo stellato. Il centrotavola è un'elegante conchiglia con il numero della stanza. Le tovaglie sono di tessuto liscio, ma di un bianco abbacinante.

Mi siedo al mio tavolo e continuo a guardarmi intorno. Sono l'unico a essere solo. E avrei dovuto aspettarmelo: chi va in vacanza ai Caraibi senza portarsi dietro la moglie, la fidanzata o almeno l'amante? C'è da dire che a un tavolo è seduto un gruppo di sole ragazze, ma almeno loro sono venute con le amiche, magari proprio per consolarsi da una delusione d'amore.

Mi rendo conto che sto giocherellando compulsivamente con il portachiavi solo quando questo mi cade nella sabbia. Mi chino per raccoglierlo e, non so perché, ma per un attimo spero che una mano mi preceda e la sua proprietaria mi allunghi la chiave con un gran sorriso.

Ho detto che non so perché? No, in realtà è sbagliato. È tutta colpa di quelle maledette fanfiction. Ho passato il pomeriggio a leggerle e ne sono rimasto terribilmente suggestionato. È vero che sono state scritte per avverare i sogni della scrittrice-protagonista, ma realizzano anche quelli del mio alter-ego che riesce finalmente a trovare la sua anima gemella, nonostante ne combini di tutti i colori e metta a rischio il loro rapporto più di una volta. E io? Cosa voglio adesso dalla mia vita? Voglio davvero continuare come gli ultimi mesi? Passare da una ragazza all'altra giusto per avere del buon sesso tutte le sere?

No. Ovviamente no. Altrimenti non mi mancherebbe così tanto quello che c'era con Antonella. Non lei, almeno, non credo. Ma proprio il tipo di rapporto che c'era tra di noi. Il pensare a un futuro, anche se avevo solo vent'anni. Il fare progetti. La sua decisione di lasciare tutto e seguirmi, contro tutto e tutti.

È triste trovarsi a ventiquattro anni a fare discorsi da ottantenni.

Ho decisamente sbagliato con questa vacanza. Pensavo che sarebbe servita a farmi staccare un po', invece mi fa solo stare male. Non c'è momento che non pensi alla mia solitudine. Se qualcuno potesse sentire i miei pensieri, mi darebbe sicuramente del rompiballe. E non avrebbe torto.

Arriva il cameriere a prendere l'ordinazione, ma, mentre scrive, un gran vociare lo fa voltare. Seguo il suo sguardo e i miei occhi si fermano sulla famiglia di stamattina. Sono i ragazzi che schiamazzano, mentre i genitori cercano di far abbassare loro la voce, ma con scarsi risultati. Raggiungono il loro tavolo e il cameriere riporta la sua attenzione su di me.

Mi chiede se voglio del vino. Lo voglio? Non lo so, a dire la verità. Tutto quello che vorrei fare ora è alzarmi, raggiungere il tavolo delle cinque ragazze americane, spostare una sedia da un tavolo vicino e mostrare la mia peggiore faccia tosta nel chiedere "Posso?" con la voce più innocente che sono in grado di produrre.

Ma questo... questo lo fa il mio alter-ego delle fanfiction. Non io.

E poi, a pensarci bene, è a un altro tavolo che vorrei sedermi. A quello che sa tanto di famiglia. Quello che profuma ancora di infanzia, quella che io ho perso troppo presto. Quello che emana spensieratezza. E che ha comunque la sua dose di bellezza femminile.

Ancora una volta mi trovo a origliare i loro discorsi. Parlano di cose che non conosco in un linguaggio tutto loro, fatto di sottintesi, di parole non dette e di soprannomi. Ovvio. Tutte le famiglie fanno così. La mia per prima, anche se da qualche anno a questa parte sono troppo lontano e per troppo tempo per capire tutto come prima.

È proprio mentre penso di essere stato un po' escluso dalla mia famiglia, che mi sento nominare. Di nuovo allungo l'orecchio. È la ragazza più grande che parla, rivolgendosi al fratello.

- Va bene, tutto quello che vuoi. Ma quella tripletta contro il Genoa non poteva riservarsela per la Supercoppa? Eddai, invece che infierire in una partita già vinta in partenza poteva fare qualcosa di più utile, no? Che la Supercoppa alla Lazio proprio non si può vedere! Guarda, meglio alla Sampdoria!

Dovrei risentirmi, magari anche farle presente che fare una tripletta alla Lazio in così poco tempo non è proprio la stessa cosa che segnare tre goal a un Genoa morente, ma mi fa solo sorridere. Anche perché continua.

- Che poi, cioè, lui ha fatto un miracolo, aveva praticamente salvato la Juve e poi arriva quel cretino di De Sciglio che si fa rigirare come un...un... un babbo e ciao ciao Supercoppa! Io, fossi stata in lui, lo avrei strangolato!

Ecco, se prima mi aveva fatto sorridere, adesso ci manca poco che scoppi a ridere da solo, come un cretino.

Quella ragazza ha la caratteristica di uscirsene con delle frasi che o mi spiazzano o mi fanno morire dal ridere.

Non sento neanche cosa le risponda il fratello, ma, se devo dire la verità, non mi interessa nemmeno.

Sto cominciando a pensare che a me interessi proprio lei. Lei con i suoi occhi verdi, la sua risata di pancia, le sue frasi assurde e la sua diffidenza. Ma anche il suo lasciarsi andare a rivelazioni spontanee di cui si vergogna appena le ha pronunciate. E i suoi pregiudizi, il suo considerarmi un alieno, in quanto calciatore.

In un attimo mi rendo conto che, anche se l'ho conosciuta da dodici ore, c'è una cosa che voglio e la voglio con tutto me stesso: farle capire chi sono veramente io. Io quando ho smesso la maglia della Juve. Io, Paulo Dybala, ragazzo argentino di ventiquattro anni. Nient'altro.

E quando l'avrà capito, magari anche riuscire a farla innamorare di me.

Almeno quanto io, adesso ne sono sicuro, mi sono innamorato di lei.

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