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Rhys

Non ho nessun pensiero che non sia tuo;
non ho nel sangue nessun desiderio
che non sia per te
– Gabriele D'Annunzio







«Ce la puoi fare», ripeto al mio riflesso, che dallo specchio mi guarda con un'aria che vorrebbe essere combattiva, ma somiglia al ritratto del terrore cieco.

«Non è così difficile: esci, attraversi il corridoio, bussi al suo camerino e...» mi allontano dallo specchio e cerco di assumere una posa che sia naturale. «Le chiedi di uscire.»

Ho le mani sudate e gli occhi iniettati di ansia. Ogni sicurezza che fragile si alza in piedi viene abbattuta da un esercito di pensieri intrusivi: mi rammentano tutte le possibilità negative che potrebbero conseguire dalla mia semplice domanda.

Mi avvicino alla porta e sollevo la mano per girare la maniglia. Rimango immobile. Scuoto il capo, con stizza.

«No, non può andare.»

Torno dinanzi allo specchio e premo i palmi sul piano di legno che, per l'angoscia, ho sistemato con dovizia, riponendo ogni oggetto al proprio posto. Ora regna un ordine maniacale che m'innervosisce.

«Dai, Rhys», mi dico. Punto l'indice contro il mio riflesso. «Adesso esci da qui e vai da lei.»

Prendo un respiro profondo e ritorno davanti alla porta.

«Qual è, in fondo, la cosa peggiore che potrebbe capitare?»

Sono grato dell'assenza di Jason, perché in questo momento avrebbe perso la sua diplomazia ed autocontrollo; ma prima si sarebbe beffato delle pietose minacce che ho rivolto a me stesso, fissando il mio riflesso.

Mi sistemo i capelli, mentre percorro quei pochi passi che mi separano dalla mia destinazione. Combatto contro l'impulso di girare i tacchi e rintanarmi di nuovo nel mio camerino, al sicuro dal temuto rifiuto.

«A San Valentino le chiederai di uscire», è stata l'imposizione di Jason, che mi aveva chiamato quando lui e Rossella erano ancora in Italia e Maria si stava ormai riprendendo.

«In fondo, lei ti piace e tu devi giocare tutte le tue carte, una volta che sarà tornata a Londra», ha aggiunto Shirley con più garbo, ma anche nel suo tono ho potuto cogliere un ordine inderogabile.

«Forza, Rhys», borbotto.

Non so per quale motivo dovrebbe declinare il mio invito. Era stata lei a chiedermi di uscire, la prima volta, e adesso che non mi detesta più come in passato ho come l'impressione che la mia compagnia le risulti piacevole.

Attraverso il corridoio, impregnato dell'odore di prodotti struccanti e cosmetici. Saluto distrattamente qualche collega che ha finito di sistemarsi e se ne sta andando, ignaro della battaglia che si sta consumando nel mio cervello. Le luci al neon sul soffitto conferiscono al mio patetico viaggio un'aria paranormale che incita le mie paranoie ad urlare. Non c'è nulla di eroico in questa spedizione sentimentale.

Mentre le mie nocche colpiscono la porta, il cuore prende a battere ad un ritmo sostenuto. Ho le dita gelide per l'ansia, che dilata la mia attesa. Leggo e rileggo il nome sulla targhetta d'ottone inchiodata proprio all'altezza dei miei occhi, colto dallo sciocco timore di aver sbagliato camerino.

È solo un appuntamento. Al massimo, ti dirà di no.

«Avanti.»

La sua voce seda le mie stupide paure.

Apro lentamente la porta e nel varco che va formandosi appare il profilo di Rossella, intenta a pettinarsi i capelli davanti allo specchio. Non indossa più il costume di scena ed è ormai struccata.

Rimango immobile sull'uscio, a contemplare il suo volto sorridente. Quando mette piede nel teatro, il suo viso si rischiara, come la natura alle prime luci dell'aurora; ma la vera trasformazione avviene nel momento in cui si ritrova sul palco, e non è dovuta alle luci, ai cosmetici o ai costumi. Nessun artificio sarebbe capace di dipingere sui suoi lineamenti la medesima felicità che vi leggo in quegli istanti. È nata per calcare le scene e ammaliare il pubblico con la sua voce, di cui ormai non posso fare a meno.

«Ho quasi finito», mi rassicura, stringendo tra le mani una ciocca che pare opporre resistenza al pettine. Si gira nella mia direzione, ancora sorridente. «Siediti, non restare lì, impalato.»

Deglutisco e raccolgo il coraggio. «Ecco... in realtà volevo chiederti una cosa.»

Mi fissa con perplessità, ma mi fa cenno di proseguire.

«Visto che stasera lo spettacolo è finito prima, pensavo che...» abbasso lo sguardo, incapace di sostenere il suo senza affondare nell'imbarazzo. «Che potremmo andare a mangiare qualcosa in un posto qui vicino e poi farci... un giro.»

La mia mente si prepara al rifiuto. Analizzo le mie parole, il mio tono, la mia stupidità, l'incertezza del mio invito, e penso che al posto suo esploderei in una fragorosa risata. Un istinto di sopravvivenza fa a pugni con il masochismo che mi inchioda al pavimento: vorrei soltanto fuggire da questa stanza e magari anche dall'Inghilterra.

«Ne sarei felice.»

Sollevo la testa, celando a stento la mia incredulità. Il cuore, che forse non ha mai smesso di galoppare, ha un tuffo. «Okay», replico. Sul volto devo avere un sorriso ebete, perché lei scuote il capo con tenerezza.

«Dammi qualche minuto e sono pronta.»

Il mio sguardo percorre il suo viso ed il suo corpo, che ormai non riesco più a guardare senza sentire uno strano rimescolio nello stomaco e le guance farsi paonazze. Sono sensazioni ataviche, quasi dimenticate, e che si stanno risvegliando dopo un lungo sonno.

«Sei perfetta così», mi lascio scappare dalle labbra.

Rossella mi rivolge un'occhiata di sbieco. «Non dire sciocchezze: le forcine e la calotta sono comode per tenere fermi i capelli e far aderire la parrucca, ma, quando le tolgo, li ritrovo sempre annodati!»

Mi avvicino e, restando alle sue spalle, le sottraggo il pettine dalle mani. Prendo tra le dita la ciocca contro la quale, prima, stava lottando. La esamino, per poi passare con delicatezza il pettine, cercando di districare i nodi.

«Non c'è bisogno, Rhys. Posso fare da sola», protesta.

«Non sei meno indipendente se, per una volta, accetti il mio aiuto senza borbottare», la rimbecco, sorridendo della sua rimostranza.

Ci guardiamo attraverso i nostri riflessi nello specchio: lei mette il broncio ed io scuoto il capo.

«Hai così tanta fretta di andare a mangiare?» mi chiede.

«Io no, però conosco il tuo stomaco.»

Arrossisce, benché provi a nasconderlo sollevando le mani per massaggiarsi il naso.

Vinta la resistenza dell'ultimo nodo, ripongo il pettine sulla toeletta e contemplo il risultato senza attirare la sua attenzione: i capelli ondulati e morbidi scivolano come una cascata dorata sulle sue spalle.

«Grazie.»

«Non c'è di che, aingeal milis

Rotea gli occhi e indossa la giacca, mentre il suo stomaco gorgoglia con insistenza. Mi sfugge una risata, che lei intercetta con prontezza. Mi rivolge un'occhiata imbarazzata.

«Taci», sibila.

Usciamo dal suo camerino e ci dirigiamo fuori dal teatro, dove salutiamo alcuni spettatori che attendevano di poterci incontrare dopo la replica.

Rossella si guarda intorno, con aria assorta.

«Va tutto bene?» le domando, preoccupato che possa aver cambiato idea.

Reclina il capo e, dopo una lunga occhiata inquisitoria, torna a sorridere. «Sì.»

Rassicurato, le porgo il mio braccio. Lei esita, ma alla fine si appoggia a me e si lascia accompagnare lungo le vie trafficate e brulicanti di coppie di innamorati che passeggiano. Dai ristoranti si gettano in strada profumi di piatti prelibati e canzoni d'ogni epoca che celebrano l'amore. Tonalità scarlatte dominano le vetrine dei negozi ancora aperti.

Con la coda dell'occhio, scruto Rossella: sembra una bambina curiosa, che cattura ogni dettaglio che la circonda. Le luci della città sfavillano nelle sue iridi, mentre le sue labbra sono protese in un sorriso che mi ingarbuglia le viscere.

Nel cielo terso, uno spicchio sottile di luna combatte contro i lampioni e le luminarie che lo fanno impallidire. Lo guardo con speranza, pensando alle labbra di Rossella, ed esprimo un singolo desiderio: che tutto vada bene.

«Posso sapere dove stiamo andando, oppure è un segreto di Stato?»

«È un posto che ti piacerà», è la mia risposta sibillina.

Scuote la testa e mi rivolge un'occhiata sarcastica. «Sempre che ci lascino entrare, Rhys Aodhán Monroe.»

«Cosa dici?»

Lei scrolla le spalle, riservandomi un'altra occhiata enigmatica che non riesco a decifrare.

«Nulla.»

La fisso, basito. Decido di non dare troppo peso al suo atteggiamento bizzarro.

Dopo pochi isolati, raggiungiamo il locale: una pizzeria italiana il cui esterno richiama un chiosco estivo. Le luci calde prodotte da lampadari di vetro colorato si proiettano sull'asfalto, creando curiosi disegni dalle sagome mutevoli, che seguono i movimenti delle persone all'interno. Il davanzale della vetrata è decorato da una fila di rose rosse fresche, dai petali umidi e di una tonalità vivida. Sopra la grande finestra svetta un'insegna verde. Le lettere gialle che compongono il nome del locale si intrecciano in un elegante corsivo.

«Che buon profumo...» mormora, soffermando il suo sguardo su un enorme piatto di pizza che un cameriere sta servendo ad uno dei tavoli vicino all'ingresso.

Il suo stomaco emette un altro lamento, stuzzicato dalla vista e dalla ventata di fragranza che ci investe quando una coppia apre la porta del ristorante per uscire.

«Ho pensato che potesse mancarti l'Italia, soprattutto adesso che ci sei tornata. Non è come essere lì, ma...»

Rossella si stringe a me tanto inaspettatamente che trattengo il respiro. Affondo le mie narici tra i suoi capelli, inspirando a pieni polmoni la felicità che mi trasmette averla qui, contro il mio corpo. L'odore fruttato del suo shampoo mi riporta alle vacanze della mia infanzia e alla bellezza della natura incontaminata fuori dalla città. Il mio cuore trabocca d'estate, ora che lei è tra le mie braccia.

«Grazie, Rhys.»

Si scosta da me e mi precede nel locale. Mi allontano da Rossella per parlare con la donna al bancone, la quale controlla la prenotazione e ci accompagna ad un tavolo in fondo alla sala, ricoperto da una tovaglia immacolata color crema. Le pareti in legno conferiscono calore e convivialità all'ambiente, mentre il tepore ci ritempra. Dalla cucina giunge l'aroma dei condimenti e la fragranza della farina.

Sposto una delle due sedie per permettere a Rossella di accomodarsi, ma lei resta immobile, con un cipiglio perplesso che le contrae il volto.

«Perché mi guardi così?» le chiedo, preoccupato.

«A cosa devo questa galanteria?»

Pietrificato dalla sua domanda inaspettata, balbetto dei suoni privi di senso. Un rivolo d'ansia mi attraversa il cervello, all'idea che possa essersi anche solo avvicinata alla comprensione del motivo che si cela dietro al mio invito.

Vorrei poter sottovalutare la sua scaltrezza per placare il panico che mi assale.

«Be'... perché non dovrei essere galante?» ribatto, fingendomi sicuro.

«Non sei mai stato così tanto...» esita e solleva un sopracciglio. «Cortese.»

«Stasera desidero essere un degno gentiluomo d'altri tempi.»

«Non sposterai di scatto la sedia per farmi cadere, vero?»

Spalanco la bocca, fingendomi indignato. «Mademoiselle, ma per chi mi avete preso?»

«Per una canaglia», si decide ad avvicinarsi. La aiuto a togliersi la giacca e finalmente si accomoda.

«Vedi che sei malfidente?» scherzo, mentre poso il mio cappotto sullo schienale della mia sedia.

Lei, di rimando, fa una linguaccia. «Sei così scemo

«Lo prenderò come un complimento.»

Segue con lo sguardo un altro cameriere che si destreggia tra i tavoli per servire due piatti enormi. Rossella ha gli occhi adorati.

«Tra poco sarà anche il tuo turno», la sbeffeggio con dolcezza.

Lei scrolla le spalle, fingendosi d'un tratto indifferente. «Non ho così tanta fame da non poter attendere...»

«Il tuo stomaco potrebbe smentire le tue dichiarazioni.»

«Visto che stasera sei galante, quando torneremo a casa mi darai uno dei tuoi biscotti?»

«Neanche se mi implori in ginocchio.»

Un giovane cameriere raggiunge il nostro tavolo per prendere l'ordinazione e torna dopo venti minuti con due pizze, che assaporiamo un morso dopo l'altro, ridendo della nostra guerra contro la mozzarella filante.

«I biscotti, quindi, sono intoccabili.»

«Sono inviolabili. Proprietà privata», la correggo.

Reclina la testa e assume una smorfia implorante. «La pizza, invece? Posso assaggiare una fetta della tua senza rischiare una condanna?»

Scoppio a ridere. «Non ti basta la tua?»

«Ti prego, Rhys! Voglio assaggiare!»

Roteo gli occhi, trattenendo l'ilarità, e poso sul suo piatto una delle fette più grandi. Mi ringrazia con un sorriso e addenta immediatamente la pizza appena guadagnata.

«Io posso assaggiare la tua?» domando.

Lei solleva l'indice e lo scuote in segno di diniego. «Questa è la mia proprietà inviolabile. Tu hai i biscotti, io la pizza.»

Spalanco la bocca. «E poi sarei io la canaglia!»

«Io sono stata tanto gentile da concederti la marmellata all'albicocca senza scrivere il mio nome sopra il barattolo», mi punzecchia.

«Sei proprio una bambina.»

«Disse l'uomo adulto.»

Scrollo il capo, arrendendomi. In un modo o nell'altro, che sia una discussione infantile e surreale su sciocchezze o il mio cuore, riesce a vincere ogni volta. Forse perché sono il primo a desiderarlo.

La scruto con tenerezza, mentre ripulisce il piatto con un'espressione di evidente goduria. Non si pone alcun tipo di scrupolo a mostrarsi affamata: mangia con gusto ogni fetta, senza essere meno femminile del solito.

Finisce di masticare l'ultimo boccone. «Questo è cibo. Altro che quel fish and chips disgustoso.»

Porto una mano al petto con fare teatrale. «Stai ferendo il mio orgoglio britannico.»

«Devi ammettere la netta superiorità della cucina italiana. Non ci sono paragoni.»

«Solo se mi permetti di pagare per entrambi senza fare storie.»

Alza gli occhi al cielo, ma non controbatte. Saldato il conto, usciamo dalla pizzeria, lasciandoci alle spalle l'atmosfera quasi domestica del locale e il calore che aveva massaggiato le nostre membra intirizzite.

Rossella solleva il capo e i suoi occhi percorrono con ammirazione lo squarcio di cielo tra i palazzi.

«Dove mi porti adesso?» domanda, senza distogliere l'attenzione dal blu profondo che ci sovrasta.

«Sai pattinare?»

Si volta. «Assolutamente no.»

«Sei fortunata, perché imparerai da un ottimo maestro.»

«Oh, e chi sarebbe?»

«Ma come?» spalanco le braccia. «Io!»

«Dovrò avvisare il mio insegnante di pianoforte. Potrebbe non apprezzare l'idea di avere un rivale.»

Le tiro una ciocca di capelli. «Tá mo chroí istigh ionat

Rossella mi fissa perplessa. «Era irlandese o la tua bizzarra lingua inventata?»

«Irlandese. Vuol dire che sei insopportabile.»

«Ho imparato dal migliore.»

Le porgo il braccio. «St. James Park non è troppo distante e possiamo andare a piedi, ma se preferisci aspettiamo un taxi.»

Scuote il capo con convinzione. «Ho voglia di passeggiare. È una così bella serata.»

Camminiamo in silenzio per un po', ascoltando i rumori della città e le sue voci indistinte: sussurri, frasi concitate, strofe di canzoni. Un artista di strada allieta i passanti con la sua fisarmonica, le cui note nostalgiche si perdono tra il brusio e il traffico.

Raggiungiamo St. James Park: gli alberi spogli alzano i propri rami nudi ed esili verso il cielo rischiarato dai lampioni. Delle panchine sono occupate da coppie che osservano il lago ghiacciato, la cui superficie è attraversata da riflessi variopinti. Alcuni cumuli di neve, superstiti delle temperature meno rigide degli ultimi giorni, macchiano ancora i prati scuri.

Percorriamo il sentiero, fino alla pista di pattinaggio. Quattro casse, disposte agli angoli della recinzione di legno, riproducono delle vecchie canzoni jazz. Sulla pista si esibiscono persone più esperte; altri, invece, restano vicini al bordo, procedendo lentamente e chiacchierando sottovoce, sorridenti ed estranei ad ogni cosa che sta accadendo attorno a loro.

Ci avviciniamo al chioschetto per affittare dei pattini. Aiuto Rossella ad allacciarli, ignorando le sue rimostranze borbottate sottovoce in italiano. Una volta che mi sono assicurato che siano indossati correttamente, la prendo per mano e la conduco sulla pista. Lei si aggrappa a me, esitante. Fissa il ghiaccio come se fosse un nemico, con le labbra arricciate e la fronte corrugata.

«Spero di avere un buon equilibrio», bofonchia.

«Non avere paura: ci sono io. La prima volta è difficile per tutti.»

Annuisce, ancora titubante. Le mostro come muovere i piedi per avanzare e lei prova ad imitarmi, dapprima con difficoltà, per poi acquisire maggiore fiducia. Tiene il capo reclinato per osservare i propri piedi, stringendo la mia mano con vigore.

«Prova a guardare davanti a te», la incito.

Obbedisce e perde l'equilibrio per un istante. La attiro a me per prevenire una rovinosa caduta. La sua fronte si scontra con il mio naso e un gridolino terrorizzato le sfugge dalle labbra, mentre le sue mani si aggrappano con prontezza alle mie spalle.

«Rhys, ti prego!»

«Va tutto bene», la rassicuro, scostandole dei capelli dal viso. «Ora riproviamo, d'accordo?»

Prende un respiro profondo e, sempre tenendo la mia mano, riprendiamo a pattinare, con movimenti lenti e misurati. Superata l'ansia, il suo volto si rilassa e si lascia andare ad un sorriso.

«È divertente, lo ammetto», indica una ragazzina che sta eseguendo una piroetta dall'altra parte della pista. «Lo sai fare?»

Scoppio a ridere. «Non sono ancora a quel livello, mi dispiace.»

«Quando hai imparato a pattinare?»

Lascio andare la sua mano per stringerle la vita, così da avvicinarla al mio corpo. «È stato mio padre ad insegnarmelo, quando ero piccolo. Avevo insistito dopo che mi aveva letto I Pattini d'Argento ogni sera prima di andare a dormire.»

«Tutte le volte che mi parli della tua infanzia, ripenso alla tua foto al parco, quando ti eri sporcato il viso di budino al cioccolato», dice, con un tono intenerito.

Non posso fare a meno di arrossire. «Sono tempi lontani...» sospiro. «Però non è giusto.»

Rossella reclina il capo per guardarmi, preoccupata. «Che cosa?»

«Che tu abbia visto le mie fotografie imbarazzanti, mentre a casa tua c'erano solo scatti normali: voglio prenderti in giro anch'io.»

La sua risata sincera mi scalda il cuore. «Sei proprio scemo. E io che credevo che qualcosa di grave ti tormentasse.»

Le tiro una ciocca di capelli. «Questo pensiero non mi dà pace», ribatto con quanta più serietà possibile.

«Vuoi sapere qualcosa di imbarazzante sul mio conto?»

«Realizza il sogno di un pover'uomo!»

«Quanto sei scemo!» esclama. Si prende qualche istante per pensare. «Vediamo... a sette anni trovai uno scoiattolo nel giardino di casa. Credevo che avesse una zampina ferita perché non si muoveva e quindi lo presi e lo portai nella mia stanza.»

«Cosa ci sarebbe di imbarazzante in questa storia?»

«Non hai ancora sentito il nome che gli diedi. Ad ogni modo, cercai di curarlo con la bacchetta magica del costume da fata che avevo indossato quell'anno a Carnevale.»

«Suppongo che non abbia funzionato.»

«Be', io mi sono sforzata. Quando mia madre l'ha scoperto, ha controllato come stesse, benché fosse un tantino infuriata per il fatto che avevo introdotto un animale selvatico in casa.»

«E poi? Che successe?»

«Nulla. Lo scoiattolo non si muoveva perché era già morto.»

Mi blocco. «Ma questa è una storia terribile!»

«È ancora seppellito nel nostro giardino. Ha anche una piccola lapide.»

«Io volevo sentire un aneddoto imbarazzante, non qualcosa che mi rattristasse per il resto della mia vita. Ora ti immagino da bambina mentre cerchi di rianimare uno scoiattolo morto con una bacchetta di plastica.»

«Ripensaci quando avrai superato lo sconcerto e ti verrà da ridere. All'epoca piansi molto per quella povera bestiola, ma adesso non posso che sorridere dei miei patetici tentativi per curarlo.»

«Alla fine non mi hai detto il nome che gli hai dato.»

Arriccia le labbra, con gli occhi che le diventano lucidi: sta cercando di trattenere una risata. «Ero ancora ossessionata da Sette Spose per Sette Fratelli e ho pensato che quell'animaletto somigliasse parecchio ad uno dei protagonisti. Non so perché lo pensai, ma...» prende un respiro. «Lo chiamai... Scoiattolino Codino Pontipee

Mi gratto il mento, cercando di nascondere le labbra con le dita.

«Stai ridendo», insinua.

«No», mento, con la voce strozzata. «È solo la saliva che mi è andata di traverso.»

Mi dà un buffetto sul braccio e scoppiamo entrambi a ridere.

Continuiamo a pattinare. Ad un tratto, lei solleva il braccio e si stringe a me. Il suo capo aderisce contro il mio petto, dove il cuore smania a tal punto che ho la sensazione che voglia uscire per prostrarsi alle sue ginocchia.

Fendiamo l'aria frizzante, abbracciati. Tutto questo ha le sembianze di un sogno troppo perfetto; ma se dovessi svegliarmi e scoprire che ogni dettaglio – il suo profumo, il suo tocco, il suo respiro e la sua voce – è stata solo una trama del mio inconscio, sarei comunque appagato: la sento vicina.

Mi sento suo, in un modo così viscerale che sembra quasi sciocco.

«Rhys?» sussurra.

«Dimmi.»

Rallenta il ritmo fino a costringere entrambi a fermarci. «Ti devo chiedere una cosa.»

Il cuore accelera. Cerco di respirare normalmente, ma il panico mi assale.

Ha capito. Non è stupida.

«Certo», rispondo, fingendomi spigliato e affatto turbato, benché da un momento all'altro potrei urlare. «Di che cosa si tratta?»

Si appoggia alla recinzione e punta lo sguardo verso il sentiero. Muove la mandibola con nervosismo, assottigliando le labbra.

«In realtà... ho tante domande da farti.»

Ci fissiamo, come se entrambi stessimo cercando nell'altro le risposte ai quesiti che ancora non abbiamo formulato ad alta voce.

Con un cenno del capo indico una panchina libera fuori dalla pista, alla luce di un lampione. «Andiamo a sederci.»

Mi segue fino al chioschetto, dove restituiamo i pattini e riprendiamo le nostre scarpe. Raggiungiamo la panchina; lei si accomoda sul bordo, a qualche centimetro di distanza da me, con le ginocchia unite e i talloni sollevati. Siamo rimasti stretti tanto a lungo che adesso, per quanto vicina, la percepisco lontana da me: chiusa nei suoi interrogativi e in un indecifrabile imbarazzo che le ha incupito il volto, è il ritratto di una ritrosa agitazione.

«Ti ascolto», la incoraggio, accostando la mia mano alla sua. Nemmeno il contatto fisico la riscuote: i suoi occhi sostano immobili, fissi sul sentiero di fronte a noi.

«Perché non me l'hai detto?» esala infine, con un tono grave. Si volta e il suo sguardo severo mi inchioda. «Perché non mi hai detto che sei stato tu ad organizzare il viaggio in Italia?»

«Come lo sai?» balbetto.

Solleva un sopracciglio, irritata. «Ha importanza?»

Reclino il capo per fissarmi le scarpe, alla ricerca di una risposta coerente, che abbia senso anche per lei e non solo nella mia testa; tuttavia, Rossella si stizzisce per il mio silenzio e si alza in piedi, lasciandomi da solo sulla panchina. La seguo con lo sguardo, mentre si allontana dandomi le spalle. Ha le braccia incrociate e il passo inquieto.

«Rossella, ascoltami», la richiamo, ma lei non torna indietro.

Decido di raggiungerla e attiro la sua attenzione posando una mano sul suo braccio, al che lei si gira di scatto, fulminandomi con un'occhiata delusa.

«Non capisco perché me l'hai nascosto. Forse è una stupidaggine, ma...» scuote la testa con rassegnazione. «Non importa. Lascia stare.»

«No, Rossella», prendo la sua mano, prima che possa andarsene di nuovo. La stringo tra le mie dita e lascio che il mio sguardo indugi prima sulla sua pelle, per poi risalire alle labbra arrossate dal freddo. Mi costringo a riportare la mia attenzione sui suoi occhi, prima di commettere una sciocchezza avventata. «Mi dispiace averti mentito e aver costretto anche Jason e Shirley a farlo.»

Mi fissa con determinazione, benché posso leggerle sul volto che c'è qualcos'altro che la turba. «Ora voglio sapere la verità, Rhys.»

Tergiverso per un istante.

Ormai non ha alcun senso tacere, mentendo a lei e a me stesso. Perché ogni volta che fingo con Rossella, opprimo quel sentimento tenace che non ne vuole sapere di rimanere nell'angolo in cui lo relego. L'ho chiamato debole, ma è infinitamente più forte di tutti i pensieri che in questi mesi ho formulato affinché si affievolisse. Si è nutrito dei miei tentativi di abbatterlo, svettando imperioso contro la mia folle guerra. Adesso vuole solo prendere la parola. Non posso impedirglielo.

«È vero», mi arrendo. «Accompagnarti in Italia è stata una mia idea. Ho implorato Jason e Shirley di non dirtelo perché non volevo che tu mi fossi riconoscente per forza.»

«Io... non capisco. Non ha senso.»

«Rossella, io non voglio che tu ti senta obbligata nei miei confronti», sbotto. «Non devi volermi bene se non lo desideri davvero. Se tu avessi saputo che avevo proposto io di venire in Italia con te per non lasciarti sola, allora mi avresti mostrato la tua gratitudine e io non la desidero.»

Perché è il tuo amore che bramo, Rossella. Sincero, puro, spontaneo.

Il suo volto è sempre più confuso. Alterna i suoi occhi nei miei, come se fosse alla ricerca di una risposta sensata, un'interpretazione logica delle mie parole o l'indizio di una burla. Tace per un momento interminabile, durante il quale mi pento di averle detto la verità. Non ho le forze per immaginare le conseguenze.

«La mia gratitudine...» farfuglia, sconcertata. «Rhys, tutto questo non ha alcun senso.»

«Per te no», mormoro. «Ma per me sì.»

Fisso i suoi occhi, con la consapevolezza che è dietro ad essi la ragione di ogni mio gesto: per quanto assurda, sconsiderata e irragionevole, non c'è una sola azione che non fosse dettata dall'ingarbugliato ammasso di sentimenti che lei mi ha acceso nel cuore da quel primo sguardo che le ho rivolto.

La sua mano scivola dalla mia presa e la mia pelle, d'improvviso, sembra fredda senza il suo contatto.

«Tu capisci quello che sto dicendo, non è vero?»

Silenzio. Mi fissa, in attesa di una risposta. Ha le labbra schiuse e gli occhi incastonati nei miei.

«Sì.»

Fa un passo indietro, sempre più sconvolta e perplessa. «Non è possibile.»

«Anche questa volta vuoi sapere la verità?»

Nonostante lo spessore del cappotto, osservo il ritmo del suo respiro attraverso i movimenti del suo petto. Incrocia le braccia, per poi abbandonarle lungo i fianchi. «Rhys, io non capisco.»

Annullo la distanza che ci divide con una sola falcata, reclinando la testa per poterla guardare negli occhi. I nostri visi sono così vicini che il calore del suo respiro mi solletica le labbra, stuzzicandole. Le mie mani si aggrappano alle sue spalle.

«Ho iniziato a studiarlo poco tempo dopo il tuo trasferimento», confesso, con il corpo che trema. Non è paura, bensì il desiderio dilagante che ho di lei, che ottenebra la mente, impedendomi di controllare le mie parole: ho oltrepassato il ponte e non c'è niente che io possa fare per tornare indietro.

«Perché?»

«Perché volevo capirti senza dover tradurre la tua anima. Perché non volevo perdere un solo significato, nessuna sfumatura, nemmeno il più insignificante mormorio.»

Perché ti amo.

«Oggi è San Valentino», mormora.

«Lo so.»

«Avevi prenotato il tavolo», afferma, senza distogliere gli occhi dai miei. «Era tutto organizzato. Questo è...»

«Un appuntamento», concludo per lei.

La mia urgenza cresce, ma non reagisco.

Rossella è bloccata a metà strada tra la verità e l'accettazione. Continua a guardarmi, immobile. Solo il suo respiro e il movimento degli occhi mi assicurano che sia viva e non una statua. Dalle sue labbra, schiuse per lo stupore, sfuggono minuscole nubi opache.

La mia vista percorre quelle due linee sensuali. Sento il loro richiamo, come una preghiera cantilenante e disperata. Sono l'ultima destinazione di un viaggio burrascoso, la spiaggia a cui un marinaio punta per salvarsi, la redenzione di un peccatore pentito, la gioia a cui abbandonarsi dopo mille patimenti.

Le accarezzo la mandibola con il pollice, con un movimento lento ed estenuante. Percepisco un brivido, da parte sua. Lei non si allontana: il suo respiro è più veloce e i suoi occhi, ancora nei miei, somigliano ad una distesa di steli d'erba scossi da un vento implacabile.

«Mi sembra d'impazzire, Rossella», sussurro.

Le sue palpebre si abbassano.

E succede.

Annullo la distanza tra le nostre bocche e naufrago contro le sue labbra, che mi accolgono con calore. Assaporo questo momento, spostando la mia mano dietro la sua nuca per avvicinarla a me e saziarmi di lei, mentre l'altra le cinge la vita.

Le sue dita si aggrappano alle mie spalle e il suo corpo si abbandona totalmente contro il mio. Lo stomaco si attorciglia. Le mie labbra cercano le sue con avidità, incapaci di accontentarsi: voglio imprimere il suo sapore e la forma della sua bocca nella mia memoria.

La pace mi pervade: dopo tutte le ansie, i timori e i pensieri, il mio cuore si accoccola contro il petto, consapevole che oltre la gabbia di pelle ed ossa che lo protegge c'è quello di Rossella che galoppa contro il mio torace. Si avvicinano e si sfiorano attraverso le proprie barriere, curiosi di conoscersi e ascoltare l'uno il ritmo dell'altro per entrare in sintonia.

Ci siamo baciati tante volte: su un palco, in una sala prove, davanti a mille persone e sotto le luci di riflettori puntati su di noi, protagonisti di una storia che non era la nostra. Ho assaggiato la felicità quasi ogni sera, chiedendomi se sarebbe mai arrivato un momento in cui io, Rhys, avrei baciato Rossella. L'ho sognato, domandandomi se fosse diverso da quei contatti tra Tony e Maria, scoprendomi geloso di quegli istanti in cui, pur non essendo noi stessi, potevo amarla senza paura, all'ombra di una finzione che mi sentivo cucita addosso come la realtà.

Baciare altre donne, per quanto richiesto dal lavoro, non è mai stato tanto intimo e viscerale. Recitare al loro fianco significava compiere il mio dovere; recitare accanto a Rossella è sempre stato vivere la porzione di vita che potevo soltanto sperimentare nelle mie fantasie ardite o nello spazio della scena.

Ora, però, le sue labbra hanno un sapore diverso dal solito: questo è il primo, vero bacio. Quello che nessuno ha pagato per vedere, al quale lei si è abbandonata senza alcun obbligo. Quello che ho sognato per mesi e che supera l'immaginazione.

Il bacio che completa il cerchio e lo rende perfetto.










«Come fu che le loro labbra s'incontrarono?
Come avviene che l'uccello canta, che la
neve si scioglie, che la rosa sboccia, che
maggio dà i suoi fiori, che l'alba
imbianca dietro gli alberi neri le cime
fermenti delle colline? Un bacio,
e fu tutto.»
— Victor Hugo —

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