Rhys
Corsi via e non dissi niente, perché
se non ne parlo con nessuno forse
non è vero, pensavo
– Jean Rhys
Non saprei dire da dove ho tirato fuori tanta audacia. Io, un codardo patologico, campione olimpionico di timidezza, ho preso Rossella e ho iniziato a ballare. Vorrei dire che tutto questo è il frutto di una lunga riflessione, ma, purtroppo, non è così: è una delle decisioni meno ponderate che io abbia preso in vita mia.
Me ne sto pentendo, ma al tempo non posso non apprezzare l'idea di Rossella stretta al mio corpo, con la sua testa sul mio petto. Mi basta poco per scordare la gente che ci circonda: ci siamo solo io e lei, con la musica che accompagna i nostri movimenti lenti.
Non mi importa se è sbagliato lasciarmi andare. Non mi interessa se lei detesta la mia maschera e non riesce a sopportarmi. Voglio sentire che effetto fa stringere qualcuno per cui bruci di desiderio.
Mi sembra quasi di dondolare in un'altra dimensione. È troppo bello per essere vero. Forse è solamente un sogno dal quale a breve mi sveglierò, percependo tutta l'amarezza per questa finta realtà che mi ha illuso.
Con rammarico, mi accorgo che la canzone sta per finire. Non voglio separarmi da lei, ma ormai non ho alcuna scusa: ho gustato la mia dose di felicità, e ora devo lasciarla andare.
Si separa da me, ma, prima che si allontani troppo, afferro la sua mano e la avvicino alle mie labbra.
Sono un pazzo sconsiderato.
Osservo la sua reazione stupita, colto da una sensazione di vuoto sotto i piedi quando la vedo arrossire
E l'illusione cresce, dentro di me, come una pianta rampicante che non può far altro che elevarsi verso l'alto e invadere tutto lo spazio che ha a disposizione. Non dovrei volerla, e troppo spesso spero che sia lei a desiderare me.
Ma tu sei patetico, insulso e sbagliato.
«Cresci, Rhys.»
Serro le palpebre, prendendo un respiro profondo.
Chi mai potrebbe amare un uomo come me?
«Perché non diventi adulto?»
Stringo i pugni, sentendo il dolore delle unghie conficcate nella carne.
«Impara a comportarti da uomo.»
Abbandono in fretta la sala, con la testa che mi gira e un senso di nausea improvviso. Riesco a trovare il bagno ed entro. Mi aggrappo al bordo gelido del lavandino e guardo il mio riflesso nello specchio, scorgendo lo spettro che credevo di aver cacciato via, ma che ora mi sta fissando negli occhi: me stesso.
Perché sono io, il problema. Lo sono da sempre.
Non sono mai stato abbastanza perfetto. Abbastanza adulto. Abbastanza uomo. Solo una blanda imitazione mal riuscita.
Mi sciacquo le mani con l'acqua gelida, e lo stesso faccio con il viso. Il freddo mi riporta alla realtà dopo troppi, strazianti minuti in cui i pensieri sono annegati nei ricordi.
Le parole di Lauren, per quanto vere, mi fanno ancora male. Sono incastrate nella mia mente e non ho saputo estirparle. Avrei voluto smentirle, ma non ho potuto: non si mette a tacere la realtà.
Il cigolio della porta mi costringe a girarmi. Da uno dei gabinetti esce Jason, che mi saluta con un cenno del capo.
«Hai una faccia! Che succede?»
«Niente.»
Jason mi squadra attentamente. «Sei pallidissimo. Sei certo di stare bene?»
«Puoi smetterla, per favore? Non ho niente», sibilo.
Per quanto provi a celare i brividi e il tremore della voce, il mio corpo mi tradisce.
Ogni fibra di me mi ricorda quello che sono: un uomo patetico, insulso, sbagliato. Debole, troppo debole. Fragile, così fragile da poter crollare di nuovo.
«Smettila di frignare e cresci.»
«Voglio stare da solo», imploro Jason, con un sussurro flebile.
«Posso anche riaccompagnarti a casa, se stai male.»
«No. Lasciami in pace, ti prego.»
Il dolore si dimena nel mio petto. Le lacrime sono proprio dentro ai miei occhi, pronte a sgorgare. Sono spilli che pungono le mie palpebre, mentre i ricordi mi travolgono come una valanga improvvisa. Mi mordo le labbra con veemenza per trattenere la nausea.
«Sei un uomo, Rhys. Cresci.»
Crescere. Comportarmi da uomo. Da adulto. Perché non lo ero, non abbastanza. E Lauren non mi voleva più. Perché ero patetico, insulso, sbagliato, e non ho mai imparato ad aggiustarmi. Ero rotto e imperfetto. Qualcosa non andava in me, e lei me lo rammentava costantemente.
«Sei troppo pallido, Rhys. Sei certo di non aver bevuto o mangiato qualcosa di strano?»
«Ti ho detto di lasciarmi in pace», latro, mentre la sofferenza mi esplode dentro come una bomba. «Va' via. Torna di là ad ubriacarti e lasciami da solo.»
Jason mi guarda sconvolto, immobile. «Io... io volevo solo aiutarti...» mormora.
«Pensa ad aiutare te stesso, prima di stressare me.»
Mi accorgo troppo tardi del peso delle mie parole: lo vedo dipinto sul volto di Jason, che incassa il colpo in silenzio, fissandomi così intensamente da aumentare il peso del macigno che mi grava sul cuore. Malgrado il suo sguardo deluso e ferito, l'ira e il dolore mi impediscono di ragionare e chiedergli scusa.
Scuoto la testa ed esco dal bagno, attraversando la sala alla ricerca di un luogo dove sedermi in solitudine per placarmi, lontano dal frastuono della musica e delle chiacchiere: è sufficiente il caos dei miei pensieri, che infuriano nella mia mente come un temporale estivo.
Perché sbaglio sempre?
I ricordi affiorano di nuovo, martellanti.
Vedo Lauren, che prende il mio cuore e lo calpesta. Vedo il nostro amore andare in frantumi, come un pezzo di cristallo scagliato contro il muro. E poi vedo me stesso: insulso, sbagliato, sciocco. Troppo poco per essere degno di chiunque.
«Cresci, Rhys.»
Stringo i pugni. Vorrei picchiare il muro per sentire il dolore sulla pelle e nelle ossa, perché nell'anima fa troppo male.
Scoppio a piangere. Mi rannicchio su me stesso, seduto sui gradini di una scala al buio. Sia fuori che dentro di me ci sono ombre che mi avvolgono, e mi stritolano nella loro morsa.
«Cresci, Rhys.»
«Impara a comportarti da uomo.»
Le lacrime scendono copiose. Le ho trattenute a lungo, insieme alla sofferenza che ho represso nell'angolo più recondito di me. Vorrei stare meglio, ma una strana sensazione di rammarico e malinconia mi grava sul petto.
Cerco di smettere di piangere, ma non riesco: è più forte di me, quasi un istinto primordiale e incontrollabile. Mi sembra di essere arenato nel bel mezzo delle onde, che mi sbalzano con la loro impetuosità.
Prendo un altro respiro profondo, mentre i brividi si attenuano.
«Rhys?»
Mi volto e intravedo la figura di Shirley, controluce e in piedi davanti ad una porta aperta.
Mi asciugo le guance con un gesto svelto.
«Va tutto bene?» mi domanda, avvicinandosi e sedendosi accanto a me. «Ti stavo cercando da un po'.»
Alzo le spalle. «Credo di sì.»
«E allora perché sei qui da solo?» sorride piano e mi cinge le spalle con un braccio. «Ti conosco. So capire quando stai male.»
Restiamo in silenzio a lungo. Ascolto il suo respiro calmo e ritmato, e mi tranquillizzo. Shirley è pace, allegria, positività. È il ritratto di chi riesce a farsi scivolare addosso il male e, nonostante tutto, continua a credere nella felicità; eppure, anche lei ha conosciuto le tenebre.
«Ti ricordi quando ti rifugiavi in soffitta perché volevi restare solo?» dice ad un tratto.
«Succedeva spesso.»
«E non volevi essere disturbato. Quando Rachel ci ha provato, mia madre ha dovuto separarvi», rammenta ridendo.
«Le avevo chiesto educatamente di lasciarmi in pace, ma non ha voluto ascoltarmi. Tua sorella è impossibile.»
«Non permettevi neanche a me di entrare», prosegue Shirley, tornando seria. Abbassa la voce, quasi timorosa di profanare i nostri ricordi. «Poi, però, uscivi dalla soffitta e mi venivi a cercare.»
Prende una pausa, durante la quale entrambi contempliamo il buio davanti a noi.
«Io non posso nemmeno immaginare quanto sia stato difficile, per te, quel periodo», conclude.
«Lo è stato. Moltissimo.»
«Perché non mi dici cosa ti passa per la testa?»
Lo vorrei, ma le parole sono attorcigliate attorno al mio cuore e lo tengono prigioniero della sua stessa confusa agonia.
«È complicato.»
Shirley annuisce. «Ti manca Lauren?»
La sua domanda mi stupisce: da quando mi ha lasciato, Shirley non l'ha mai nominata.
«All'inizio si. O meglio: mi mancava l'idea che mi ero fatto di lei. Ora non più, perché era, appunto, solo un'idea.»
Ma fa ancora male.
Shirley sembra comprendere i pensieri a cui non ho dato voce. Mi rivolge un sorriso di incoraggiamento.
«Hai ancora intenzione di cercare un altro appartamento?»
Sarebbe più semplice, se lo facessi. Mi allontanerei da Rossella, quel chiodo fisso che ormai invade i miei pensieri, ma non potrei evitare di incontrarla al lavoro.
«No. Tanto so che non cambierai idea.»
«Infatti. La tua stanza non mi serve più», conclude svelta. «Anzi: potrei buttare tutto, per liberare dello spazio.»
«Non farlo, Shirley. So che te ne pentiresti.»
Sospira sonoramente, mentre la tristezza le incupisce il volto, per poi alzarsi in piedi. «Io torno di là.»
Annuisco. Una volta che se ne va, rimango nuovamente da solo.
Dopo l'ennesimo respiro profondo, mi decido ad alzarmi. Ho dato troppo potere ai pensieri negativi, ed è giunto il momento di tornare con i piedi per terra.
Rientro nella sala. Mi aggiro senza meta, salutando qualche collega, con la consapevolezza che, in fondo, ho una destinazione, e questa ha un nome: Rossella.
Perché Lauren mi ha distrutto e ha oscurato ogni raggio di speranza, come un'eclissi eterna che nasconde il sole; ma poi è arrivata lei.
«Rhys.»
Mi giro, ritrovandomela davanti. Studio la sua espressione torva, le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure di rabbia.
«Che cos'hai detto a Jason?»
«Niente.»
«È inutile che tu faccia il finto tonto», sentenzia con astio. «Mi ha raccontato tutto.»
Le immagini confuse di quanto successo in bagno mi tornano alla mente: io che tremo e sento il mondo crollarmi addosso di nuovo, e Jason che mi offre il suo aiuto; io che lo rifiuto, comportandomi come una feccia, e lui che ci rimane male.
«Mi dispiace», mormoro.
«Non è con me che devi scusarti, ma con lui. È il tuo migliore amico, merita un trattamento migliore.»
«Lo so...»
«No, tu non sai proprio un bel niente», sibila, avvicinandosi a me.
Malgrado io la sovrasti in altezza, ha comunque un'aria minacciosa. Eppure, nonostante i sensi di colpa che le sue parole stanno facendo nascere in me, riesco a provare un poco di tenerezza nel vederla sotto questa nuova luce: combattiva, preoccupata per un amico e pronta a difenderlo con le unghie.
«Scusate se vi interrompo.»
Ci voltiamo entrambi verso il fotografo.
«Avrei bisogno di un'ultima foto.»
«Certo!» esclama Rossella, rivolgendogli un sorriso smagliante e talmente falso che mi vengono i brividi.
Seguiamo il fotografo, raggiungendo la postazione in cui abbiamo già realizzato altri scatti.
«I responsabili delle pagine social mi hanno chiesto una foto in cui vi baciate.»
Trattengo il respiro.
Un bacio.
«Nessun problema», è la risposta di Rossella.
Dà le spalle al fotografo per qualche secondo, fulminandomi con lo sguardo e bofonchiando qualcosa che però non riesco a comprendere.
«Metti le tue mani sui suoi fianchi», mi ordina il fotografo. «Tu, invece, devi mettere le mani sulla sua schiena.»
Rossella obbedisce, scoccandomi un'ultima occhiata truce, per poi sorridere.
Vorrei che fosse più facile. Vorrei non trovarla così tremendamente splendida. Vorrei che non mi detestasse, che fossimo partiti con il piede giusto fin dal principio.
«Bene, sorridete così!» esclama il fotografo, realizzando un primo scatto. «E adesso è il momento del bacio.»
Vedo Rossella farsi incerta, ma io non esito un solo istante e poso le mie labbra sulle sue.
La mia vita è una tortura, da quando lei ne fa parte, ma è un supplizio troppo dolce perché io possa rinunciarvi; e ogni bacio, per quanto finto, obbligato e non voluto da lei, è per me pura gioia. Bramo le sue labbra come un elisir in grado di rinvigorirmi.
Mi chiedo se lei può sentire l'effetto che mi fa: il cuore che galoppa, le farfalle nello stomaco, le labbra che vorrebbero esplorare maggiormente le sue e approfondire questi baci, le mani che tremano per il desiderio di stringerla più forte.
«Perfetto!»
Rossella si separa da me e saluta il fotografo, andandosene via. Rimango immobile, frastornato.
È durato troppo poco.
Dura sempre troppo poco.
Forse ha ragione Jason: mi sto innamorando di Rossella, dei suoi sorrisi rari e dei suoi occhi verdi. Mi sto innamorando del suo orgoglio, della sua fierezza e del mistero dietro al quale si nasconde. Mi sto innamorando della gentilezza che riserva a tutti meno che a me, perché ho voluto che fosse così per proteggermi, ma ho finito per entrare nel suo labirinto e apprezzarlo a tal punto da perdermici dentro.
E ora non so più come uscirne.
Perché alla fine, quando ci imponiamo di non innamorarci di qualcuno, sappiamo già che succederà, e in fondo nutriamo la speranza che accada: che quella persona ci entri nell'anima e ne conquisti ogni centimetro, combattendo contro i nostri principi, eliminando ogni barriera eretta per renderla inespugnabile.
Mentre mi allontano dalla postazione, incontro lo sguardo di Jason: è seduto in un angolo, e mi sta fissando. Decido di raggiungerlo, per chiedergli scusa.
«Ehi.»
Lui esita, senza però distogliere lo sguardo da me. «Ehi.»
Indico la sedia accanto alla sua. «Posso?»
Lui solleva le spalle con indifferenza.
«Mi dispiace per prima.»
«Se l'hai detto, probabilmente lo pensi per davvero», ribatte con freddezza, distogliendo gli occhi.
«No, te lo posso assicurare. Ero... ero fuori di me. Avevo bisogno di stare da solo e me la sono presa troppo», studio la sua reazione, ma lui resta impassibile. «Volevi solo aiutarmi e sono stato scortese.»
Jason si morde il labbro inferiore. «Tu non hai idea delle battaglie che combatto.»
«E perché non me ne parli?»
Si volta per guardarmi. L'indifferenza ha lasciato posto alla malinconia.
«Sono sciocchezze, alla fine», dice, con scarsa convinzione.
Rimaniamo in silenzio ad osservare la sala.
«Sei sicuro? Insomma, io ti tormento sempre, e se anche tu vuoi sfogarti...»
«No, non importa», taglia corto lui.
Mi torturo le mani. «Va bene. Però... spero che tu possa perdonarmi per prima.»
«Eri visibilmente scosso», dice infine, dopo una lunga pausa. «Non avrei dovuto insistere come una sciocca crocerossina.»
Mi lascio scappare un sorriso. Gli prendo la mano, che lui stringe titubante.
«Io non avrei dovuto dirti quello che ho detto. Mi sento in colpa.»
Jason mi rivolge una lunga occhiata, ma poi scuote il capo e inspira. «Lasciamo perdere, ok? Abbiamo sbagliato entrambi, fine della storia.»
«Io soprattutto.»
«Questo è innegabile.»
Scoppio a ridere, e Jason mi imita.
«E poi avevi appena ballato con la tua dama. Strano che tu non fossi in iperventilazione», aggiunge.
«Non riesci proprio a non dire idiozie, vero?»
«Ti ho perdonato e ora riprendi il pacchetto completo.»
«Ad averlo saputo prima...»
«Dai, non cambiare discorso! Ho visto come l'hai guardata, appena siamo entrati.»
«E come l'avrei guardata?»
«Come un uomo innamorato», risponde con ovvietà.
«Tanto, ormai, è inutile che io provi a ribattere.»
«Perché sai che ho ragione.»
Sì. Eccome se ha ragione; eppure, dentro di me, continua a smaniare un istinto di sopravvivenza che mi spinge a negare quello che provo. So che mi piace, che la curiosità si è trasformata e che la desidero più di quanto sia disposto ad ammettere; ma parlarne è difficile: questo sentimento diventerebbe vero, autentico. Ci sarebbe e non potrei più ignorarlo.
«Si vede che provi qualcosa per lei.»
Lo fisso, terrorizzato. «Dimmi che non è vero.»
«È verissimo. Io lo noto, e magari anche altri se ne accorgono.»
«E... lei?» domando timidamente, timoroso di conoscere la risposta.
«Non credo l'abbia capito. Non gliene dai modo.»
«Ed è meglio così.»
Jason mi rivolge una strana occhiata, per poi tornare a concentrarsi sulle persone davanti a noi, che chiacchierano ignare dei miei sentimenti intricati quanto una foresta di rovi.
«Sai... prima sembrava triste», riprendo ad un tratto.
«Lo era.»
«Avrei voluto chiederle il perché... avrei voluto...» scuoto la testa, sospirando sonoramente. «Lascia perdere, sono solo patetico.»
«Volevi baciarla?» mi domanda, dopo un lungo silenzio, fissandomi negli occhi.
«Sì», mormoro, sentendomi sconfitto dalla consapevolezza che non posso più lottare contro le emozioni che Rossella mi fa provare. «Mi fa uno strano effetto quando è triste.»
Le sue lacrime smuovono in me tanti ricordi. Ricordi di un bambino che avrebbe voluto fare di più, ma che era troppo piccolo per prendere in mano la tristezza e sostituirla con la felicità.
« Angolo autrice »
Finalmente, dopo un mese di attesa, ho aggiornato! È stato un periodo pieno di impegni scolastici e... Scolastici :')
Durante le vacanze di Natale riprenderò gli scambi, perché adesso sono ancora in alto mare. Ho però approfittato di qualche momento libero per terminare il capitolo e pubblicare, anche perché i miei sensi di colpa erano direttamente proporzionali al mio sonno arretrato.
Ebbene: Lauren. Questo essere sta prendendo forma, pian piano. E l'infanzia di Rhys sta assumendo un ruolo centrale. Sarei curiosa di conoscere le vostre teorie!
A presto (spero)!
S. H.
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