Capitolo 8
Conosce l'amore solo chi
ama senza speranza
– Friedrich Schiller
Mi stringo nelle coperte, mentre la voce di Massimo Ranieri che canta Perdere l'amore si fa sempre più alta e disperata. Grida la sofferenza che io non riesco a sfogare, perché non so fare altro che chiudermi in me stessa e far tacere il dolore finché questo non esplode.
Mostrare le mie ferite agli altri non era la soluzione, ai miei occhi. Quando fai vedere che sei vulnerabile, in molti decidono di puntare sulle tue debolezze per ottenere ciò che vogliono: ti usano, giocano con te e con la tua ingenuità finché non si stufano, finché non raggiungono il loro obiettivo; e allora ti buttano via, perché non servi più a niente. Ti lasciano in un angolo, con delle ferite in più, e tu ti illudi che il prossimo passante che ti raccoglierà da terra sarà diverso da loro, non ti tratterà come un giocattolo con cui divertirsi momentaneamente per poi riportarti là dove ti ha trovato.
Mi sono sempre chiusa dietro alti portoni che avevo eretto io stessa, perché volevo nascondere il passato, nascondere ciò che mi aveva fatto male, nascondere anche me stessa.
Non volevo che nessuno vedesse l'ammasso di macerie che ero. Non volevo che gli altri provassero pena per me. Non me ne facevo niente della loro compassione. L'unica cosa di cui avevo bisogno erano dei cerotti da applicare sulle mie ferite, per celarle e lenirle.
Un po' di amore, nient'altro. Sarebbe stata la mia cura.
Mi sarei nutrita di qualsiasi attenzione, anche minima, pur di vedere cicatrizzare quei tagli che mi facevano sentire rotta, senza speranze.
Che ne sarà di me, adesso?
Nessuno sa come io vivo senza Flavio. Nessuno ha idea della pena che mi affligge.
Del resto, a nessuno interessa sapere come sta l'altra. Sono il pezzo di un puzzle estraneo che non si incastra perché ha spigoli diversi; sono la nota sbagliata in uno spartito perfetto, la macchia d'inchiostro che rovina una pagina scritta con cura.
Sono sempre stata di troppo e non mi sono mai incastrata.
Sollevo il carillon e lo osservo attentamente. Cerco in esso le sensazioni che mi dava Flavio, ma anziché sentirmi confortata, mi riempio sempre più di tormento, quasi dentro di me potesse entrarne all'infinito.
Non ricordavo nemmeno di aver infilato il carillon nello scatolone. Non saprei neanche dire perché l'ho fatto. Magari, dentro di me, nutrivo il desiderio di portarmi via qualche cosa di Flavio, per sentirlo al mio fianco anche se in realtà ora siamo a chilometri di distanza.
Mi chiedo come sta, a che cosa sta pensando, se ci sono io nella sua mente, se mi dedica qualche istante e se si chiede che fine abbia fatto.
A lui avrei potuto incastrarmi, ma aveva già il suo pezzo complementare, ed io ero di troppo.
Sono rintanata nella mia stanza da una settimana, raggomitolata nel letto, quasi a voler tenere insieme i pezzi di me che altrimenti sfuggirebbero e si sparpaglierebbero a terra senza alcun ordine.
Shirley si è preoccupata per me, ma io l'ho tranquillizzata dicendole che dev'essere il clima londinese, al quale non sono abituata. Immagino non abbia creduto alla mia presunta indisposizione, però ogni giorno mi ha portato qualche cosa da mangiare, perché non esco dalla camera nemmeno per i pasti. Mangio poco, e l'unico movimento che faccio è alzarmi dal letto per andare in bagno.
Mi sento vuota.
Lontana da casa, disoccupata, con pochi risparmi e rinnegata da mia madre.
Avrei dovuto riflettere maggiormente, prima di innamorarmi: dare ascolto al mio cervello, che mi suggeriva di non lasciarmi andare, di non legarmi a Flavio. Invece, ho dato retta al mio cuore, solo e sbriciolato, ignorando gli avvertimenti della ragione.
Sento bussare alla porta. Mi metto a sedere e biascico un avanti poco convinto.
La testa di Rhys compare da dietro la porta. Studia la stanza e poi posa lo sguardo su di me.
«Che cosa vuoi?», chiedo, infastidita.
L'ultima persona che desidero vedere in questo preciso istante è proprio lui.
«Potresti levare la musica? Non ne posso più.»
«Il volume non è eccessivamente alto.»
«Mettiti delle cuffie.», continua imperterrito, innervosendomi.
«Si sono rotte. Ti ho già detto che il volume è basso.»
«La sento comunque e non ne posso più di canzoni melense, sono giorni che non fai altro che ascoltare sempre le stesse.»
«Se ti danno tanto fastidio, allora esci di casa.»
«Sono libero di fare quello che mi pare, e se voglio restare in casa, ci resto.»
«Nemmeno comprendi le parole delle canzoni che ascolto.»
«Anche un idiota capirebbe che sono al limite dello sdolcinato.»
«Lasciami in pace.», mormoro, abbassando lo sguardo.
L'ultima cosa che voglio in questo momento è dover discutere con uno come Rhys.
Sentendo che non muove un singolo passo, sollevo la testa e noto che i suoi occhi sono scivolati sul carillon che tengo in mano. Non riesco a decifrare la sua espressione, benché realizzi che non è indifferenza quella che gli dipinge il volto.
Come a volerlo proteggere, nascondo il carillon sotto la coperta. Non voglio che lui veda l'unica cosa che mi resta di Flavio. Non voglio che si esprima a riguardo e rovini il solo ricordo materiale e tangibile che ancora conservo di lui.
«Va' via.»
«Credi di risolvere i tuoi problemi restando chiusa qui dentro come un'anima in pena?», le sue parole sono dure ed altrettanto inaspettate.
Al limite della sopportazione e punta sul vivo, lo fisso negli occhi con astio: perché lui ha colto ciò che nascondo, e questo mi fa sentire estremamente vulnerabile.
«Che cosa vuoi saperne tu di me? Sei solo uno stupido bambino viziato e nient'altro. Cosa può capirne, uno come te, delle sofferenze altrui?», sputo acida, colma d'odio.
Perché l'attacco è l'unica difesa che mi rimane, dopo che lui ha valicato le mie mura senza che nemmeno io potessi difenderle. Con uno sguardo le ha fatte crollare, e ha intravisto quel poco che basta per rendermi esposta.
Lui resta zitto. Rimane fermo sulla porta, a guardarmi, ma ad un tratto abbassa la testa. Lo sento inspirare sonoramente, pronto a dire qualche cosa; ma alla fine non proferisce una singola parola. Si volta ed esce dalla stanza, richiudendosi la porta le spalle.
Mi strofino il volto con i palmi delle mani, stanca dopo questo diverbio.
Mi stringo nelle spalle, colta all'improvviso da un brivido. Mi alzo in piedi e mi dirigo verso l'armadio per prendere una felpa più pesante, ma, non appena ne apro l'anta, incontro il mio riflesso nello specchio.
Il volto pallido, quasi ingrigito, gli occhi spenti, due occhiaie profonde e scure che risaltano sul lividore della mia pelle. Per un attimo, scorgo nello specchio lo stesso mostro che ha visto mia madre; e qualcosa dentro di me si rompe definitivamente.
Mi accascio a terra, come se le poche forze che ancora possedevo avessero abbandonato il mio corpo. Con la mano che mi trema, sfioro la superficie dello specchio, là dove questo mi rimanda l'immagine del mio viso.
Stringo il pugno. Vorrei colpire lo specchio, ma la mia mano resta sollevata e tremula, finché non si abbandona sul pavimento.
Mi manca il respiro. Scoppio a piangere con una disperazione tale da impedirmi di respirare. Boccheggio cercando di fare entrare dell'aria nei miei polmoni, ma è insufficiente. Ansimo, immobilizzata da qualche cosa che non so definire, ma che mi stringe il collo e mi preme sul petto con prepotenza.
Vorrei appoggiarmi al letto, ma le gambe tremano e mi sembra di non riuscire a controllare il mio corpo.
Le lacrime mi bagnano le guance e finiscono anche sulle labbra.
I singhiozzi mi scuotono il petto, mentre l'ossigeno continua a mancarmi.
Con uno sforzo immane, mi avvicino al letto, nonostante le braccia formicolino. Mi appoggio al materasso e provo a raddrizzare la schiena. Nonostante il dolore insistente al petto, tento di respirare regolarmente, ma ho la percezione di avere la gola serrata.
«Respira con la pancia.»
La voce di Maria mi risuona nelle orecchie e mi illudo per qualche secondo che lei sia accanto a me, per calmarmi.
Afferro il telefono e con gli occhi appannati scorro la rubrica, cercando di mantenere il controllo. Clicco sull'icona della chiamata e attendo. Gli squilli sembrano infiniti.
«Pronto?»
«Maria...», sussurro.
Non riesco a frenare le lacrime, che continuano a scendere veloci lungo le mie guance. Singhiozzo disperatamente, ansimando.
Dall'altra parte, sento il silenzio. Maria non ha riattaccato. La conosco: sta aspettando che sia io a parlare. Non mi ha mai forzata. Per lei le parole sono come la sua amata musica: qualcosa di spontaneo che deve nascere da solo.
Passano minuti interminabili, durante i quali né io né Maria parliamo.
Finalmente ritorno a respirare, anche se ancora i singhiozzi mi fanno vibrare il petto.
«Maria...»
«Sono contenta di sentirti, Rossella.»
Dal tono capisco che è sincera. La sua dolcezza mi tranquillizza.
Nella mia mente prende vita una domanda che ho paura di farle, ma voglio conoscere la risposta.
«Hai... hai saputo?»
Segue un attimo di silenzio.
«Sì, ho saputo.»
La gente parla e le voci sono giunte anche alle sue orecchie. Speravo non sapesse. Speravo non scoprisse che dentro di me si cela un mostro.
«E come fai a non odiarmi?», le domando, afflitta.
«Perché sei come una figlia per me.»
«Ma ho sbagliato. Non avrei dovuto innamorarmi di Flavio.»
«Tutti sbagliano, tesoro, ma adesso non colpevolizzarti. Anche lui ha ceduto anziché respingerti.»
«Avrei dovuto fermarmi io per prima. Ho ignorato totalmente il fatto che fosse sposato e ho pensato solo a me stessa.»
Avrei dovuto desistere. Avrei dovuto girare alla larga da lui. La mia mente gridava il pericolo, ma il mio cuore già gli apparteneva.
Cercavo di non guardare la fede che portava al dito perché era un ostacolo, era il segnale che doveva farmi capire che non dovevo provare dei sentimenti per lui. Cercavo di non sentirla quando mi sfiorava, e spesso ci riuscivo: non percepivo sulla mia pelle quella fede, simbolo di una promessa che lui non aveva fatto a me e che non mi aveva mai frenata.
Lui aveva già una moglie. Ed io ero di troppo, come lo ero sempre stata.
«Non sono tagliato per fare il padre.»
Ricordo bene l'attimo esatto in cui mio padre pronunciò queste parole. Mia madre lo aveva fissato a lungo, e solo ora comprendo che in realtà lei lo sapeva già: non aveva bisogno che lui glielo confermasse. Lo aveva capito dai suoi atteggiamenti, dal modo in cui mi faceva sentire: di padre, lui, possedeva solo il nome.
Io ero nascosta dietro il divano. Ero piccola, fragile. Avevo solo sei anni, ma ero già piena di ferite: perché lui non c'era mai. Stava via per ore e tornava tardi, e a volte non tornava proprio. Vedevo i padri degli altri bambini sempre sorridenti, sempre presenti. Il mio, invece, era solo un'apparizione scostante che si faceva vedere di tanto in tanto, e quando c'era speravo ardentemente che mi notasse, che mi amasse, che restasse per me.
Facevo l'impossibile perché lui si accorgesse di me e mi rivolgesse una parola gentile.
Non ci aveva neanche provato. Avevo ricordi vaghi della mia infanzia, ma in ognuno di essi mio padre spiccava per la sua assenza; e in quei pochi, invece, in cui era presente, io soffrivo perché mi faceva sentire inutile, un peso che gli gravava come un mattone sul petto.
«Prima che nascesse Rossella eravamo felici, Giulia.»
«Non accusare nostra figlia della tua irresponsabilità.», aveva ribattuto con freddezza mia madre.
Lo stesso identico tono con cui mi aveva paragonata a lui.
Dopo il divorzio, aveva finto di essere forte per me, ma dentro soffriva perché aveva fallito: aveva sposato l'uomo sbagliato credendolo diverso, migliore.
Io avevo ripercorso le stesse orme di mio padre, benché mai l'avrei voluto. E lei, allora, non mi aveva risparmiata. Mi aveva sputato in faccia la peggiore delle condanne: essere come mio padre.
Forse lo sono. Forse davvero, dentro di me, sono stati plasmati gli stessi sbagli che ha commesso lui, la medesima predisposizione a rovinare tutto, anche le cose che dovrebbero essere le più belle.
Se n'era andato il giorno dopo quel litigio. Mi ero svegliata la mattina e lui non c'era. Non era tornato nei giorni successivi, e avevo compreso, anche senza che mia madre me lo dicesse, che non avrebbe più messo piede dentro quella che per anni era stata pure casa sua.
Ero ormai abituata alla sua assenza che l'abbandono non fu un trauma più grande di quelli che già mi portavo dentro; ciononostante, anche questo aveva lasciato un segno indelebile in me.
Mia madre ci aveva provato ad essere presente, a farmi anche da padre, a non farmi mancare nulla; ma la verità era che, nel profondo del mio cuore, ci sarebbe sempre stato un tassello in meno che niente avrebbe potuto sostituire: era l'idea che io, un padre, non lo avevo. Quell'uomo che aveva contribuito a mettermi al mondo aveva minato la mia anima di bambina con la sua indifferenza.
Ho trascorso notti intere a chiedermi come sarebbe stata la mia vita se lui fosse stato diverso: se si fosse presentato alla mia recita all'asilo; se mi avesse fatto i complimenti per quel disegno un po' bruttino che ritraeva me, lui e la mamma davanti alla nostra casa; se mi avesse, di tanto in tanto, raccontato la favola della buona notte, anziché salutarmi frettolosamente prima che andassi a dormire; se mi avesse abbracciata e mi avesse detto "ti voglio bene".
Invece non c'era mai, anche quando fisicamente era presente.
Ero di troppo.
Prima che nascessi era felice: lui e mia madre, una coppia contenta ed affiatata. Io, nella sua mente, non facevo parte di quel quadro. Ero una figura che avrebbe preferito non inserire.
Dopo poco tempo, scoprii che stava con un'altra donna. Non la conoscevo, ma avevo capito, dai discorsi di mia madre che ero riuscita ad origliare, che era una relazione che andava avanti da un po', da prima ancora che se ne andasse.
Io ero solo il capro espiatorio a cui aveva addossato ogni colpa.
Non aveva saputo amarmi, e aveva abbandonato la sua famiglia per un'altra donna.
Non mi aveva mai cercata, né io lo feci. Avevo smesso di elemosinare il suo affetto.
Non riuscivo a provare rancore nei suoi confronti. Avrei potuto detestarlo, e nessuno mi avrebbe biasimato; sentivo solo un'immensa tristezza. Era come una profonda nostalgia, malgrado ciò che me la faceva provare non era mai davvero esistito.
La chiamano saudade: la nostalgia delle cose che avrebbero potuto essere e che non sono state.
Avevo nostalgia di un affetto che non avevo ricevuto.
«Ormai il passato non si può cambiare.», dice Maria.
«Avrei potuto evitare che le cose andassero in questo modo. Mi odio. Sono orribile, sono un mostro.»
«Non sei un mostro, Rossella. Hai solo sofferto tanto e speravi di trovare conforto.»
«Proprio per questo non avrei dovuto cercarlo in Flavio. Non mi sono fatta problemi solo perché non aveva figli.»
Perché se ne avesse avuti, allora sarebbe stato più facile: non avrei rubato un padre a qualcuno che avrebbe sofferto come avevo patito io. Non sarei stata come quella donna che mio padre aveva preferito a me e mia madre.
Lei la odiavo. Disprezzavo quella donna più di quanto avrei potuto aborrire mio padre: era lei ad essere di troppo, non io. Eppure, lui aveva comunque preferito lei a me.
Io, che conosco il dolore come un vecchio amico, ho fatto soffrire troppe persone: mia madre, Flavio e sua moglie. Lei, la tradita. Quella che tutti avrebbero compatito perché suo marito aveva preferito una ragazza giovane a lei.
«Sono come mio padre perché ho deluso la mamma. Me l'ha detto che sono come lui, ed ha ragione.», proseguo, tra un singhiozzo e l'altro.
«Non sei come tuo padre.», dice dolcemente Maria. «Perché tu stai riconoscendo i tuoi sbagli e, se potessi, torneresti indietro. Lui non si è fatto scrupoli: se n'è andato e non si è mai voltato. Sei migliore di lui.»
«Vorrei tanto riuscire a crederti. Lo vorrei davvero.»
«Credici.»
Il suo è un invito. È una mano tesa, anche a distanza, che afferra la mia per salvarmi dal baratro.
«Mi spiace... non averti detto nulla.», sospiro. «Me ne sono andata... e tu hai scoperto la verità dalla gente.»
«Non importa. Ciò che conta è che tu stia bene.»
«Non sto bene.», ammetto. «Sto malissimo, ed in fondo me lo merito.»
«Non so se lo meriti o no, ma so che ti vorrei felice.», resta in silenzio per qualche secondo, prima di parlare di nuovo. «Non cercare negli altri quello che puoi trovare unicamente in te stessa.»
Tiro su con il naso, ascoltandola attentamente.
«Hai tanto amore dentro di te. Per questo sei speciale. Donalo a te stessa e sii felice anche da sola. Solo allora potrai essere felice anche con gli altri.»
Le sue parole mi illuminano per un attimo il cuore di speranza.
Potrei davvero essere felice, se lo volessi.
Potrei, anche senza Flavio, anche se la felicità adesso mi sembra un miraggio lontano destinato a sparire.
Potrei lenire definitivamente le ferite.
«Ho paura di non farcela.»
«Ce la farai. Sei forte, io lo so.»
La sua voce è un abbraccio che mi avvolge e mi culla delicatamente. Sento tutto l'amore e il candore che mi ha sempre dato senza chiedermi nulla in cambio.
«Sono contenta di averti.», dico con sincerità, sperando che lei possa cogliere l'affetto che mi lega a lei.
«Anche io, tesoro»
Nonostante non la veda, so che sta sorridendo, e lo faccio anche io: è un sorriso debole, marchiato dall'amarezza, ma è pur sempre un piccolo raggio di speranza che squarcia il buio totale nel quale mi sembrava di annegare.
«Hai... sentito la mamma?», le chiedo, timidamente e timorosa della risposta.
«L'ho incontrata, l'altro giorno. Ci siamo solo salutate.»
«Me ne sono andata lasciandole uno stupido biglietto. Sono così codarda che non le ho neanche parlato faccia a faccia.»
«Hai solo avuto paura di quello che avrebbe potuto dirti.»
«Come fai a vedere del buono in me?»
«Perché, indipendentemente dal bene che ti voglio, so che c'è.»
Altre lacrime mi pungono gli occhi, ma questa volta per la commozione: mi sento fortunata ad avere una persona come Maria nella mia vita. Per me è molto più della mia maestra di canto: è il mio punto fermo.
«Ora forse hai da fare... meglio che ti lasci andare.»
«Sai che puoi chiamarmi quando vuoi.», dice, premurosa.
La saluto, prima di interrompere la chiamata e abbandonare il telefono sul pavimento.
Sospiro e chiudo gli occhi. Li riapro e, da sotto le lenzuola dietro di me, tiro fuori il carillon. Lo apro e lo lascio suonare.
Se solo fosse possibile lasciare andare il passato, buttarlo nel mare come una bottiglia che contiene un messaggio che si lascia trascinare dalle onde fino ad esserne inghiottito e sparire per sempre negli abissi; ma so bene che ciò non succederà.
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