Capitolo 6
Ah, memoria, nemica
mortale del mio riposo!
– Miguel de Cervantes
Pensavo che Rhys fosse infantile, ma non appena apro la credenza alla ricerca di qualche cosa da mangiare per colazione ne ho la conferma.
Prendo in mano un pacco di biscotti ancora intatto e chiuso. Sono gli stessi per i quali ho rischiato l'esecuzione immediata solo per averli mangiati senza sapere che lui li considerasse una proprietà inviolabile.
Osservo il foglio di carta appiccicato sulla confezione con dello scotch. Il suo nome è scritto a caratteri cubitali con la penna rossa, a sancire che i biscotti sono suoi e di nessun altro. Se osassi anche solo aprire un angolo del pacco, l'ira funesta dell'infantile Rhys si scatenerebbe su di me.
Ripongo i biscotti nella credenza, resistendo alla tentazione di mangiarli comunque, malgrado l'implicito avvertimento di conseguenze terribili che si cela dietro quelle quattro detestabili lettere scritte con l'inchiostro rosso.
Opto per delle fette biscottate, sulle quali spalmo della marmellata trovata in frigo. Richiudo il barattolo, mentre le albicocche raffigurate sull'etichetta mi sorridono con un piglio a dir poco inquietante.
Addento la mia colazione, stizzita e di cattivo umore.
Devo ancora metabolizzare l'idea di essere uscita con Rhys ieri e di aver trascorso più tempo del necessario in sua compagnia.
Un brivido mi corre lungo la schiena se ripenso a quello che è successo di fronte al Sondheim Theatre: lui che mi afferra il polso e mi osserva con i suoi occhi chiari ed enigmatici, prima di trascinarmi via di lì.
Mi sono sentita preda del suo sguardo, privata di ogni mia barriera e completamente esposta. Non mi era mai successo.
Questo fino a ieri.
Sono sempre stata abituata a nascondere le ferite del mio passato dietro a maschere impenetrabili oltre le quali era difficile vedere anche per me, certe volte. Nessuno ha mai compreso che cosa io celassi al di là dei miei gesti timidi, dei miei sguardi vacui, dei miei atteggiamenti schivi, dei miei occhi sempre bassi per nascondere il dolore immenso che mi assaliva troppo spesso e che mi porto dentro, come una parte fondante di me.
Nessuno ha mai voluto andare oltre. Mi sono aggrappata alla consapevolezza che alla gente importano solo le apparenze; per questo motivo ho voluto dare l'impressione di non avere niente al di là di quello che mostravo di essere: una ragazza vuota e senza nessuna attrattiva. Anche se qualcuno avesse provato a valicare il confine per raggiungere la mia anima, avrebbe dovuto affrontare la mia resistenza.
Quando sei vulnerabile e mostri i tuoi graffi, le persone ne approfittano per farti ancora più male di quello che provi. E io non volevo più soffrire. Non dopo che avevo cercato inutilmente l'affetto da chi non era in grado di darmelo – e forse nemmeno lo voleva. Ho rincorso disperatamente la speranza di essere amata da lui, quel padre che non lo è mai stato per davvero. Ne portava solo il nome, ma era un ruolo che non gli si cuciva addosso, per quanto io abbia provato a vedere le cose sotto un'altra luce; era un abito che gli stava stretto e se l'è tolto, distruggendomi quando ero troppo fragile per capire il mondo incomprensibile degli adulti.
Studiando recitazione, mi avevano insegnato a calarmi nel personaggio che avrei dovuto interpretare; e così avevo costruito un'identità parallela alla mia: ero la ragazza che stava da sola e nessuno sapeva perché fosse difficile avvicinarmi. Ero la ragazza che non usciva mai la sera e in molti hanno creduto che fossi un semplice lupo solitario. Solo io sapevo che stare tra la gente mi metteva addosso una sensazione di panico: un minimo gesto avrebbe potuto tradirmi, mostrando a tutti quanto fossi disperata e necessitassi di braccia forti che mi stringessero, facendomi sentire protetta e amata.
E poi, osservare le vite degli altri rendeva la mia ancora più grigia; per questo evitavo gli sguardi della gente: in essi avrei visto ciò che a me mancava, e questo non avrebbe fatto altro che accrescere il vuoto che sentivo dentro di me, come un baratro profondo.
Poi era arrivato Flavio.
L'unica persona cui ho mostrato il mio cuore ferito, senza la paura che aggiungesse altre crepe e lo potesse distruggere per sempre. Glielo avevo affidato, sicura che avrebbe saputo come prendersene cura. Lui aveva colmato quel vuoto che mio padre aveva scavato.
Questo finché non si è scoperta la verità.
Viene sempre a galla.
Nonostante l'avessimo nascosta. Nonostante io avessi lasciato il resto del mondo fuori dalla mia bolla dorata di felicità, questo vi è entrato con prepotenza, sbattendomi in faccia parole d'odio che in fondo mi meritavo.
Ero diventata esattamente ciò che aveva dato inizio alla mia sofferenza. Anziché essere colmato, il vuoto dentro di me era cresciuto: l'avevo reso più grande io stessa, con le mie mani.
Nessuno mi aveva risparmiata. Ero io il mostro, e lo ero per davvero. Neanche il mio passato avrebbe potuto giustificarmi, anzi: avrebbe dovuto rendermi migliore di quello che ero diventata.
Nessuno aveva visto quello che mi portavo dentro. Si erano fermati a ciò che era chiaro come il sole. Esattamente come era sempre successo. Esattamente come avevo sempre voluto.
Ma ieri...
Il modo in cui Rhys mi ha guardata mi ha fatto tremare l'anima. Per un attimo, ho visto quanto le mie barriere poggino su fragili fondamenta. Ho sempre creduto che fossero insormontabili, ma ora temo che lui, con un semplice sguardo, possa oltrepassare il limite e vedere il mio passato.
Ho paura che ci riesca. Ho paura che possa scoprire il mostro che sono divenuta. Ho paura che a quel punto anche altre persone possano vedere chi sono davvero. Allora non potrei più scappare. Non avrei più nessuna via di fuga dinanzi a me: solo sguardi pronti a giudicarmi e dita ad indicarmi. Proprio come è già successo.
Rhys non può arrivare a tanto. Non può vedere dentro il tuo cuore.
Quando siamo tornati a casa, ha ricominciato ad ignorarmi. Si è chiuso nella sua stanza ed è riapparso solo quando anche Shirley ha fatto ritorno, dopo il lavoro. A cena ha finto che ci fossimo divertiti tutto il giorno, e Shirley era contenta.
Non ha menzionato quello che è successo davanti al Sondheim Theatre. In fondo, è stata solo una sciocchezza, almeno per lui che non era nella mia testa e non ha idea dei pensieri che la mia mente ha cominciato a percorrere, come sentieri pericolosi che dovrebbero restare ignoti, ma che si finisce sempre per scoprire.
I pochi sguardi che mi ha lanciato nel corso della serata, prima di sparire di nuovo in camera sua, non mi hanno lasciato addosso la stessa sensazione: erano semplici occhiate vacue, qualche volta cariche di sfida o astio, a seconda che Shirley ci stesse guardando o fosse di spalle.
Non può capire cosa nascondi.
Me lo ripeto, ma è tutto inutile: nella mia mente rivedo i suoi occhi che mi fissano con insistenza, che mi scavano dentro con la sicurezza di chi sa che la mia è solo un'armatura, lucida all'esterno, ma che all'interno non è altro che un covo di ombre.
Nelle sue iridi ho intravisto una luce che ha penetrato le mie barriere.
Per fortuna è durato poco. Se mi avesse guardata più a lungo avrebbe trovato il modo di aprire la serratura e di introdursi nel labirinto dei miei segreti, scoprendoli ad uno ad uno.
Sobbalzo nel sentire il suono del campanello, e quasi la fetta biscottata che stavo masticando mi va di traverso, mentre il pezzo che tenevo in mano è caduto sui miei pantaloni, con il lato ricoperto di marmellata rivolto verso il tessuto.
Sussurro una serie di improperi a bassa voce, pulendo velocemente i pantaloni con il tovagliolo.
Mi dirigo verso la porta e controllo dallo spioncino. Emetto un grugnito poco amichevole mentre la apro.
«Rhys non c'è. È uscito e non so dove sia.»
Jason mi fissa confuso.
«Non ero qui per Rhys...»
«Sempre meglio portarsi avanti.»
Lui corruga la fronte, annuendo debolmente e con poca convinzione.
«In realtà ero qui per te.», dice.
«Mi sento terribilmente onorata.», commento sarcastica: tra l'uscita con Rhys e i pantaloni macchiati di marmellata di albicocche, l'unica disgrazia che mancava all'appello di oggi era proprio Jason.
Mi accorgo solo ora che tiene in mano un portatile aperto e che lo schermo gli illumina la faccia.
«Posso entrare o dobbiamo parlare sulla porta?»
Sbuffo, scostandomi per lasciarlo passare. Lui si siede sul divano e poggia il portatile sul basso tavolino da caffè.
«Ti piace leggere?», mi chiede, cogliendomi di sorpresa.
«Sì.»
«Te ne intendi di racconti erotici?»
«Cosa?»
Per un attimo penso di aver compreso male le sue parole: del resto sono in un Paese straniero e nonostante anni di serie tv e film in inglese il mio orecchio potrebbe ancora confondersi. Poi Jason ha un leggero accento Cockney ed io sono abituata alla pronuncia americana.
Jason si gira lentamente, come un gufo che ruota la testa, e mi fissa con estrema serietà.
«Ti ho chiesto se te ne intendi di racconti erotici.», questa volta scandisce le parole come se stesse parlando con un alieno.
Resto immobile: non ho capito male.
«Che razza di domanda è mai questa?»
«Senti: rispondi sì o no. Non è così difficile.»
«No. Non me ne intendo. Io leggo classici.»
«Non c'è nulla di male nel leggere racconti erotici.», si risente Jason, tornando a fissare lo schermo del computer.
«Posso sapere perché diamine mi hai fatto questa domanda?»
«Sono un ghostwriter. O meglio: sarei uno scrittore, ma nessuno vuole pubblicare quello che scrivo e devo campare in qualche modo.»
«E che cosa c'entrano i miei gusti letterari in tutto ciò?», chiedo, ancora confusa.
«Ho bisogno di sapere se una scena funziona.»
«Dovresti capirlo da solo visto che sei uno scrittore.»
«Non sono una donna, che ne so che cosa provate a letto?»
«Quindi?»
«E quindi non posso chiedere a Shirley dettagli sulla sua vita sessuale. È la mia migliore amica.», risponde, quasi fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Di conseguenza preferisci sembrare un maniaco con una perfetta sconosciuta?», chiedo, allibita.
Lui annuisce e batte la mano sul cuscino del divano ripetutamente, facendomi capire che devo sedermi vicino a lui.
«Non ti preoccupare, la tua innocente castità è al sicuro.»
«Come posso esserne sicura, vista la tua domanda da pervertito?»
«Innanzitutto perché sono un gentiluomo e poi perché non mi interessi.»
«Menomale che eri gentiluomo.»
«Non hai capito.», scoppia ridere. «Sono gay.»
«Ok, va bene. Ma se non ti intendi di relazioni eterosessuali, perché hai accettato di scrivere un racconto che riguarda quello?»
«Perché i soldi non crescono sugli alberi.»
«Non puoi chiedere a Rhys?», provo ad aggrapparmi alla mia ultima speranza.
«Certo che no!», risponde scocciato, tornando a guardare il computer.
Lo osservo attentamente e nella mia testa si accende una lampadina.
Jason e Rhys stanno insieme. Non so perché la mia mente formula questo pensiero, ma la mia ipotesi spiegherebbe il totale disinteresse di Rhys nei confronti delle due ragazze che ieri lo stavano divorando con gli occhi; non erano niente male, eppure lui le ha guardate senza grande curiosità. Spiegherebbe l'atteggiamento di Jason adesso: geloso all'idea del suo ragazzo tra le braccia di una donna e che ripensa al periodo in cui ancora non aveva accettato la sua natura per paura dei pregiudizi. E forse spiegherebbe anche il perché Rhys adesso viva da Shirley: ha fatto coming out e i suoi genitori non hanno saputo accettare l'idea di un figlio omosessuale?
Avrebbe potuto trasferirsi da Jason, scema.
Ma magari la sua casa è troppo piccola, oppure non voleva affrettare le cose tra loro due. O forse deve ancora accettarsi completamente.
«Allora: vuoi aiutarmi o no?», mi riscuote Jason.
«Va bene.», capitolo, sedendomi accanto a lui, sapendo di non avere altre alternative.
«Sei già andata a letto con qualcuno, vero?»
«La finisci con le domande da maniaco?!»
Mi sento punta sul vivo: in realtà non mi va di ricordare, di riportare a galla dei momenti magici. Non vorrei ricordare Flavio ed il nostro amore. Non vorrei risentire le sue mani sulla mia pelle e le sue labbra sulle mie, le sue carezze ed i suoi baci.
Mi farebbe troppo male.
«Va bene, va bene, la smetto. Però dimmi se questo pezzo funziona.», dice, evidenziando due paragrafi di un file con il cursore del mouse.
Cerco di concentrarmi sulle parole scritte da Jason, reprimendo i ricordi che scalpitano per rivedere la luce. Respiro a fondo, recuperando il controllo delle mie emozioni.
«Jason, sembra che alla ragazza non importi nulla di lui.»
«Tu dici? Dovrebbe essere il contrario invece.»
«Ho quasi l'impressione che sia finita nel suo letto per pura casualità, senza pensarci e senza volerlo.»
«E come posso far credere ai lettori che lei sia pazza di lui?», mi chiede sconsolato.
Il cuore comincia a battere più velocemente quando un flash mi abbaglia la mente. Per un attimo mi sembra di essere di nuovo tra le lenzuola morbide di quell'albergo a Roma, con Flavio che mi stringe e scherza sul fatto che dalla nostra stanza non si vede il Colosseo.
«Il mio anfiteatro.»
Aveva detto così, ed io ero scoppiata a ridere.
Era stata la nostra prima volta. La mia prima volta. Ed era stata magnifica perché malgrado le mie insicurezze lui mi aveva rassicurata, facendomi sentire bella, amata ed importante.
Ed io, guardandolo negli occhi, avevo sentito un brivido: non avrei voluto essere in nessun altro posto. Mi bastava lui per dimenticare i mali e per colmare il vuoto che a lungo aveva dilagato in me.
«Per lei non è un'avventura: rendilo chiaro. Lei vive dei suoi sguardi, si sente al settimo cielo quando lui le sfiora la pelle. Non darlo per scontato.», dico di getto.
Jason soppesa le mie parole, rileggendo a bassa voce i due paragrafi che ha evidenziato.
«Hai ragione... hai ragione!», esclama, balzando in piedi. «Allora te ne intendi di romanzi erotici!»
Prende il computer e si dirige verso la porta, ma prima si volta e mi sorride felice.
«Grazie Rosela!»
Esce dall'appartamento, lasciandomi sola, seduta sul divano, a lottare contro me stessa.
Io vivevo degli sguardi di Flavio. Nessuno mi aveva mai guardata come lui. Nei suoi occhi leggevo l'amore che ci legava e che era tutto ciò che per me contava. Mi ero aggrappata ai nostri sentimenti con una tale disperazione da non accorgermi che non avrei mai dovuto innamorarmi di lui.
Il campanello suona di nuovo, ma questa volta non mi infastidisco: chiunque sia, mi ha salvata dai miei pensieri.
Non vedendo nessuno attraverso lo spioncino, provo a sollevare la cornetta del citofono.
«Una consegna per la signorina Contisini.»
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