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Capitolo 5

Uomo, nessuno ha mai misurato la
profondità dei tuoi abissi; mare, nessuno
conosce le tue ricchezze segrete, tanto
siete gelosi di conservare il vostro mistero
– Charles Baudelaire


La matematica non mi è mai piaciuta. Ricordo che la detestavo a tal punto che mi chiedevo quale mai fosse la sua utilità una volta superata la quarta elementare. E mi faceva imbestialire vedere pian piano i numeri essere sostituiti da lettere dell'alfabeto.

Odiavo la matematica. Studiavo le nozioni giusto per la verifica, in modo da prendere un voto superiore alla sufficienza, per poi scordarle, lasciando che cadessero nel dimenticatoio, consapevole che vi sarebbero rimaste per sempre. Mi dicevo che erano cose che non mi sarebbero servite nel corso della mia vita: monomi, disequazioni di secondo grado, formule di trigonometria... nomi agghiaccianti che già facevano presagire quante lacrime avrei versato per comprendere perché dovevo eseguire determinati passaggi per giungere ad una soluzione insensata – e spesso nemmeno corretta.

Non sopportavo la matematica, e mi ero sempre detta che a noi comuni mortali non destinati ad entrare alla NASA sarebbe bastato insegnare le quattro operazioni.

Ora, però, mentre fisso l'armadio, penso che la matematica mi sarebbe utile per calcolare quante probabilità ci sono che un buco nero appaia all'improvviso, dal nulla, e mi inghiotta, trascinandomi via nella sua infinita oscurità imperscrutabile ed ignota. Non ricordo nulla dei calcoli probabilistici, ma ho la netta sensazione che, se anche la mia mente ne avesse memoria, il risultato non cambierebbe: resterebbero poche, pochissime.

Potrei entrare dentro l'armadio ed assicurarmi che abbia un fondo. Magari, chissà, è magico e porta a Narnia...

Potrei tentare di attraversare lo specchio e vedere se oltre ad esso c'è il giardino dove il Cappellaio Matto prende il tè con i suoi amici.

Invece no. Devo vestirmi, uscire e passeggiare per le strade di Londra con Rhys.

Preferirei chiedere ad un orso grizzly di concedermi un ballo. Tornare tra i banchi di scuola e studiare di nuovo la matematica. Preferirei guardare un documentario sui pinguini e scoprire come si accoppiano. Preferirei fare qualunque cosa piuttosto che dover trascorrere del tempo con lui.

Avremo interagito per un massimo di venti minuti da quando sono arrivata in Inghilterra. Eppure, questo poco tempo mi è bastato per capire che non lo posso sopportare: la sua arroganza mi dà i nervi, ed il suo modo di essere, così infantile, mi provoca un fastidio che mi fa prendere fuoco dalla rabbia.

Afferro una giacca in denim dall'armadio, mettendomela addosso con stizza.

Lo faccio per Shirley. Solo ed unicamente per Shirley.

Mi ripeto queste poche parole come un mantra, sperando che servano a migliorare il mio umore.

Mi prenderei a sberle. Perché ho accettato?

"Perché è il cugino di Shirley e lei ha evitato che tu finissi in mezzo alla strada o a dormire in uno scatolone sotto un ponte.", mi risponde la mia coscienza.

Vorrei che ogni tanto tacesse.

Mi spiace che Shirley creda che tra me e Rhys le cose possano andare magnificamente. Se sapesse che ci mal sopportiamo reciprocamente, ne resterebbe delusa: lei, che vede il mondo attraverso uno sguardo ingenuo che ne nota solo le bellezze, non potrebbe concepire l'odio. Forse non sa nemmeno cos'è.

Eppure la sua espressione felice quando ho accettato e quando ha creduto che Rhys fosse effettivamente contento di portarmi in giro con sé mi ha fatto stringere il cuore: ho visto quanto ci tiene che io e suo cugino andiamo d'accordo, perché forse si sente ancora in colpa per non avermi avvisato prima della sua presenza.

Nessuno dei due si aspettava che avrebbe condiviso l'appartamento con un altro sconosciuto. Solo che le mie intenzioni iniziali erano amichevoli, mentre Rhys mi ha fatto intendere esplicitamente che tra noi sarebbe stata guerra. Ne ignoro il motivo: non gli ho dato alcuna ragione per detestarmi – escludendo "l'incidente" dei biscotti.

"Forse, semplicemente, hai la faccia antipatica e sembri indisponente.", mi suggerisce la coscienza.

O forse è lui ad essere un bambino viziato e maleducato.

Ecco, questa mi sembra l'ipotesi più probabile.

Sospiro amareggiata: non so che cosa aspettarmi da questa giornata.

Sciolgo i capelli, lasciandoli cadere sulle spalle, dopodiché esco dalla stanza. Rimandare il momento del mio supplizio non lo alleggerirà; anzi: lo renderà ancora più insopportabile.

Rhys è seduto sul divano del salotto, con una giacca di pelle addosso e gli occhiali da sole appesi al colletto della maglietta. Ha il telecomando in mano e lo sguardo fisso sullo schermo della televisione: sta guardando un documentario sui bradipi.

Sono convinta che anche lui preferirebbe scoprire come nascono i piccoli di bradipo piuttosto che fingere di essere felice di andarsene in giro con me.

Sa recitare bene la sua parte.

Quando finalmente ho capitolato, accettando la proposta di Shirley, lui ha dissimulato così bene il suo odio nei miei confronti che avrei potuto credergli anche io che sapevo bene che stava fingendo. Ha sorriso a Shirley e pure a me. Un sorriso ampio, che gli ha illuminato il viso e ha ammorbidito la sua mascella. Un sorriso che mi ha lasciata attonita. Non sembrava affatto che mi stesse beffeggiando: pareva davvero contento di mostrarmi le bellezze della sua città, gioioso all'idea di far conoscere ad una straniera quanto Londra sappia catturare con la sua magia l'anima di chi la osserva con curiosità. Per un attimo ho stentato a riconoscerlo: quel sorriso gli donava. Sembrava quasi che non fosse nato per fare altro.

Poi, quando Shirley è uscita per andare al lavoro, lui mi ha guardata di nuovo come al solito: i suoi occhi glaciali carichi di sfida mi hanno fulminata con tutta la loro prepotenza. Il sorriso di poco prima era sparito: le sue labbra erano divenute una linea sottile e dritta, mentre la mascella era di nuovo rigida e serrata.

Si era avvicinato a me, non lasciandomi lo spazio per porre una distanza tra noi. Mi aveva intrappolata tra lui ed il muro, obbligandomi nuovamente a guardarlo negli occhi. Avevano una strana luce dentro, mentre mi fissava con durezza.

«Non pensare che io lo voglia.», ha affermato, freddo e conciso.

Avrei voluto dirgli che la cosa era reciproca, ma avevo preferito andarmene nella mia stanza per cambiarmi e mettermi addosso qualcosa di decente per uscire.

Mi schiarisco la voce per palesare la mia presenza. Rhys si volta svogliatamente. Mi squadra da capo a piedi. Non è ammirazione, né stupore, né nient'altro che possa essere lontanamente positivo: è il suo solito atteggiamento irrisorio.

Stringo i pugni, e mi trattengo da mollargliene uno in faccia perché non mi viene in mente nessuna scusa plausibile per giustificare la rottura del setto nasale davanti ai medici. Eppure, la voglia di levargli quell'espressione da pesce rosso che ha in faccia mi preme nel petto.

È il cugino di Shirley. Shirley ti ha accolta nella sua casa. Non pensare a soluzioni illegali.

«Hai intenzione di stare lì ancora a lungo?», gli chiedo con irritazione.

«Lo vorrei.», risponde, sbuffando subito dopo.

• • • • •

Non ricordavo che Soho fosse noto per il suo divertimento; specialmente quel certo tipo di divertimento. Non appena ho visto l'annuncio di Shirley, ho pensato ai teatri e a Piccadilly Circus, non certo ai negozi a luci rosse. Era un dettaglio che avevo completamente dimenticato, ma che mi torna alla mente ora che, a pochi metri dal portone di casa, me ne ritrovo uno davanti.

Rhys è in piedi al mio fianco, con le mani in tasca.

«Che c'è?», dal suo tono comprendo che non è affatto interessato alla risposta: ha solo fretta di concludere il giro turistico per tornare a casa ed evitarmi.

«Nulla...», rispondo, guardando dall'altra parte, ma anche lì i miei occhi incontrano un negozio per adulti.

Rhys segue i miei occhi e, non appena capisce, si lascia scappare una risatina.

«Vuoi forse entrare?», mi chiede, derisorio.

«Purtroppo non vendono armi con cui posso farti stare zitto.», rispondo piccata, sentendo le guance andarmi in fiamme.

«Non ne sarei tanto sicuro.»

Gli lancio un'occhiata omicida, cercando di celare l'imbarazzo che mi sta facendo avvampare. Lui scuote la testa e si gira, osservando l'incrocio in fondo alla strada.

«Dove vuoi andare?»

Dovunque va bene. Basta che tu non venga con me.

«Non lo so.», rispondo.

Però so benissimo dove voglio che vada tu.

Rhys torna a guardarmi, seccato. Lo osservo meglio, adesso che siamo alla luce del sole e non più nella penombra dell'appartamento.

Ha la pelle bianca e liscia, ed il suo pallore contrasta con le sopracciglia scure e folte ed i capelli neri che gli incorniciano il volto, cadendo sulla fronte e lungo le tempie.

Socchiude gli occhi, inarcando le sopracciglia. Si avvicina a me, mentre io indietreggio piano.

«Deciditi.»

La sua voce, bassa e profonda, mi fa rabbrividire per un momento. Deglutisco e penso velocemente ad un posto qualunque.

«Voglio vedere il Big Ben.»

Rhys serra le labbra. Si allontana e osserva la strada, come se stesse pensando alla mia risposta.

Vorrei capire perché deve rendere così enigmatica la sua comunicazione non verbale. I suoi gesti sono ambigui, i suoi sguardi spesso avvolti da un alone di mistero.

«Vieni.», dice all'improvviso, girandosi e cominciando a camminare nella direzione opposta.

Lo seguo, anche se stare al suo passo è quasi impossibile: è molto più alto di me, e le sue gambe lunghe gli consentono di percorrere uno spazio maggiore con poche falcate; io, invece, con i miei passi brevi rischio di restare indietro.

Dopo qualche metro, Rhys si volta e si accorge della mia fatica per stargli dietro. Scuote il capo e rotea gli occhi.

La sua impazienza mi irrita: se crede di essere l'unico a voler essere altrove, allora si sbaglia di grosso. Avrei preferito andarmene in giro da sola e perdermi per la città piuttosto che avere una guida scorbutica e indisponente come lui.

Non appena lo raggiungo, lui riprende a camminare, regolando i suoi passi alla stessa velocità dei miei.

Camminiamo l'uno di fianco all'altra, e se non fosse per i nostri sguardi seccati, la gente potrebbe anche pensare che siamo una coppia di amici che passeggia amabilmente.

«Le guide solitamente parlano.», dico con sarcasmo.

Lui, per tutta risposta, resta chiuso nel suo mutismo. Non si gira nemmeno: continua a guardare davanti a sé, come se al suo fianco non ci fosse nessuno.

Respiro sonoramente: so che dovrei almeno tentare di nascondere la mia irritazione per non dargli alcuna soddisfazione, ma il suo atteggiamento – e la sua presenza – urta il mio sistema nervoso.

Vorrei girare i tacchi e tornare indietro. Vorrei prendere Rhys a calci nel sedere. Vorrei tagliare fino all'ultimo capello che ha in testa per vederlo disperato.

Resisti. Sopportalo. Fallo per Shirley.

Prendo un respiro profondo, cercando di non pensare a lui. Mi concentro sulla strada, sui passanti, sugli edifici che mi circondano.

All'improvviso, il mio sguardo viene catturato da un'immagine sul muro alla mia destra. Mi fermo e i miei occhi si illuminano nell'istante in cui realizzo cosa ho di fronte.

Tre bambine, con gli stessi colori della bandiera francese, che osservano un punto indefinito con occhi tristi.

Resto imbambolata, a rileggere la scritta che recita "Casa del musical più longevo", mentre penso a quante volte ho cantato ogni canzone di questo capolavoro.

«Cosa c'è adesso?», mi chiede Rhys, sempre più spazientito.

Io non mi volto nemmeno. Indico l'immagine sul muro, ancora esterrefatta. Mi sembra di aver appena avuto una visione.

«E allora?»

«Les Misérables.», sussurro, emozionatissima. «Questo è il Sondheim Theatre.»

Rhys non replica. Sento il suo sguardo addosso, ma non mi importa. Non gli lascio il tempo di parlare: mi incammino lungo il marciapiede, ritrovandomi di fronte all'ingresso del teatro. Sollevo lo sguardo: l'edificio mi sembra imponente. La luce del sole si riflette sulle vetrate. Mi copro la fronte per poterlo ammirare meglio.

Mi sento estasiata. Un brivido mi corre lungo la schiena pensando a quel palco, alla storia di Cosette, Fantine, Valjean, Éponine, Marius e tutti gli altri personaggi.

La tristezza vela per un attimo la gioia: io sognavo di esibirmi qui. Sognavo gli applausi del pubblico, l'adrenalina prima dell'esibizione, le risate dietro le quinte, l'orchestra che suona, i brividi nell'intravedere le persone nel buio della platea, mentre tutte le luci puntano sul palco.

Ora, però, non è questo il mio sogno.

Ora non ho più un sogno.

Qualcosa mi tocca la pelle, distraendomi dai miei pensieri. Abbasso la testa e vedo che Rhys ha le dita avvolte attorno al mio polso. Sollevo il capo e incontro i suoi occhi. Mi sta guardando con insistenza, e per un istante ho l'impressione che voglia leggermi dentro e capire a che cosa io stia pensando. Vengo assalita dall'irrazionale paura che possa riuscirci: e se potesse entrare nella mia mente e vedermi privata di ogni mio scudo, vestita solo del mio passato?

Il mio è un timore infondato. Ho eretto mura alte fino al cielo e mi ci sono nascosta dietro, lasciando soltanto un fantoccio con le mie sembianze a contatto con il mondo esterno. Ho celato tutto ciò che doveva scomparire. Ho immaginato che cosa avrei potuto dire a chi avesse chiesto una qualsiasi informazione sul mio passato. Mi sono armata di bugie da poter usare per difendermi semmai si rendesse necessario.

Ma adesso, mentre Rhys mi guarda e sembra scavare nel profondo della mia anima, ho paura che possa comprendere, che possa sospettare, che possa immaginare che nascondo qualche cosa.

Ho paura di fare orrore alle persone se qualcuno sapesse da che cosa scappo: da me stessa e dal male che ho fatto.

«Andiamo.», è l'unica parola che pronuncia.

Le sue dita sono ancora attorno al mio polso. La sua presa è salda, senza essere violenta, possessiva o autoritaria. Vuole portarmi via di lì, e per un attimo sospetto che non sia la fretta di finire il nostro giro o l'impazienza. Si volta e mi rivolge un'occhiata veloce, prima di continuare a camminare.

E se avesse intuito i miei pensieri? E se avesse letto la tristezza nei miei occhi?

Questi pensieri mi tormentano mentre attraversiamo Chinatown. Sono talmente distratta che non mi accorgo immediatamente che le sue dita non mi stanno più stringendo.

Di tanto in tanto gli lancio qualche occhiata di sbieco, stando attenta a non farmi notare: è impassibile, quasi non fosse successo niente. Scrollo le spalle, evitando di ripensare all'accaduto.

Proseguiamo il nostro cammino, passando tra dei ristoranti italiani dai quali proviene un profumo familiare che mi fa tornare alla mente ricordi piacevoli e altri che preferirei seppellire nel profondo del mio cuore. L'amarezza scompare non appena il mio stomaco, risvegliato da questo richiamo conosciuto, inizia a brontolare.

Rhys si volta e scuote la testa, ma noto che le sue labbra si incurvano a formare un sorriso timido.

Raggiungiamo Trafalgar Square e resto stupita nell'accorgermi che è ancora più grande di quanto immaginassi. L'obelisco si erge maestoso, mentre Horatio Nelson sembra scrutare la città dall'alto, con sguardo di superiorità, ricordando ai londinesi di aver impedito che Napoleone invadesse la Gran Bretagna.

Passiamo di fianco a numerosi edifici la cui architettura mi affascina; tuttavia, evito di domandare a Rhys che cosa siano, ben sapendo che la sua risposta non sarebbe all'altezza delle mie aspettative.

In lontananza intravedo il palazzo di Westminster e la torre con l'orologio. Procediamo ancora per qualche metro, immettendoci nella zona pedonale del Westminster Bridge. Mi appoggio alla balaustra, osservando la vista che si apre dinanzi ai miei occhi: le finestre del Palazzo riflettono la luce del sole, mentre il Tamigi scorre languido lungo il suo letto, riempiendo l'aria di una dolce melodia. Il cielo azzurro, con le sue nuvole morbide, si specchia nell'acqua.

Il Big Ben mi ricorda il Viandante sul Mare: solitario, ma solenne, scrigno di storie che appartengono al passato ma che premono per vedere la luce.

Mi perdo nelle onde che increspano la superficie del fiume. Ignoro il rumore delle macchine che passano proprio dietro di noi e ascolto quella che a me pare una musica armoniosa.

«È stupendo.», mormoro.

Londra ha una bellezza che cattura l'anima. In ogni strada, la sua storia si mescola con la modernità; si incastrano perfettamente, come solo due pezzi complementari sanno fare. Non è come l'Italia: Londra ha qualcosa che la rende unica. La sua atmosfera vittoriana le conferisce un fascino inimitabile. Si ha quasi l'impressione che, da un momento all'altro, dall'angolo della strada debba comparire qualche eroina di Jane Austen giunta in città con gli zii per potersi scordare i pasticci successi a casa.

Fingo per qualche istante di essere anch'io come le donne dei libri che ho divorato durante l'adolescenza: alla ricerca della pace, lontana da ciò che può danneggiare i miei nervi. Solo che, nei libri, le protagoniste incontrano l'uomo della loro vita, mentre io ho dovuto lasciar andare l'amore per non fargli più male di quanto già gliene avessi causato.

Mi gratto la testa, come se questo gesto potesse cancellare i pensieri ed i ricordi. Mi volto e mi accorgo che Rhys mi sta osservando. Il sole gli illumina gli occhi, che sembrano ancora più chiari del solito. Ha la mascella contratta e la fronte corrugata.

Ancora una volta, vengo pervasa dalla sensazione che lui stia cercando di scavare dentro di me, alla ricerca di risposte, di indizi. Mi sento debole e vulnerabile, attanagliata dal terrore che riesca a comprendere. Non capisco come mai all'improvviso lui mi faccia sentire così, ma ciò mi porta ad odiarlo ancora di più: detesto questi sentimenti nuovi e sconosciuti che mi fa provare; detesto essere esposta ed indifesa, preda del suo sguardo; detesto l'impressione che le mie barriere siano troppo fragili per resistere ai suoi occhi indagatori.

Prima che io mi volti, lui sposta lo sguardo altrove e si infila gli occhiali da sole.

Lo osservo interrogativa.

È strano. Particolare. Enigmatico.

Mentre io temo di essere come un vetro trasparente attraverso il quale lui sia in grado di vedere il mio passato, lui resta opaco: si frappone tra ciò che mostra e ciò che invece è realmente. Non so nulla di lui. Non ho idea di dove sparisca per ore. Non conosco il motivo per cui abbia dovuto trasferirsi da Shirley.

Rhys è un immenso punto interrogativo: odioso, insopportabile, ma misterioso al tempo stesso. È un'immensa domanda cui per il momento non possiedo alcuna risposta.

Persa tra le mie elucubrazioni, vengo riportata bruscamente alla realtà dai rumori emessi dal mio stomaco.

«Ho fame.»

«Io no.», risponde drastico Rhys.

«Non mi interessa. Non ti ho chiesto se anche tu l'avessi.»

Lui non ribatte. Continua a tenere la testa alta, lo sguardo nascosto dalle lenti scure degli occhiali, i gomiti poggiati sulla balaustra.

Sbuffo, ma poi realizzo che so esattamente come ricattarlo. Sorrido serafica.

«Ho fame.», ripeto.

«Vai a mangiare.»

«Non so dove.»

«Cerca.»

Non sai di avermi appena spianato la strada per ricattarti, stupido bambino viziato?

«Se dovessi perdermi, che cosa diresti a Shirley?»

Lui si gira di scatto. Ha la mascella contratta, le labbra serrate e pallide.

Sorrido beffarda, esattamente come lui. Dal modo in cui le sue labbra tremano quasi impercettibilmente capisco di aver colpito e affondato il bersaglio.

• • • • •

Mi sembra di essere tornata in Italia: l'atmosfera della pizzeria in cui ho obbligato Rhys a portarmi ha un che di familiare ed ospitale. Potrei anche credere di trovarmi in un locale a Napoli, con le strade rumorose gremite di gente e le persone all'interno che chiacchierano ad alta voce, ma senza infastidire gli altri.

Tutto emana una sensazione di convivialità.

Il cameriere che ha preso l'ordine, un ragazzotto italiano con qualche problema con l'inglese, è stato felicissimo nel vedere una compatriota, tanto da chiedermi come andassero le cose in Italia, quasi fossimo stati parenti.

Mentre attendiamo di essere serviti, mi guardo intorno, con un calore che mi pervade il petto: alle pareti sono appese delle foto, alcune a colori ed altre in bianco e nero, che mostrano monumenti celebri delle città più importanti d'Italia. Osservandole con attenzione, mi accorgo che sono state fatte da qualcuno inesperto, non da un fotografo professionista; forse addirittura dal proprietario stesso della pizzeria.

Rhys scruta le fotografie con attenzione, con le mani incrociate sotto il mento. Seguo il suo sguardo e sorrido.

«Quella è la cattedrale di Firenze.»

Lui si volta, attirato dalle mie parole.

«La cupola è un vero capolavoro dell'architettura. Forse è addirittura più famosa della cattedrale.»

Rhys non risponde. Resta impassibile, con gli occhi puntati nei miei.

Non comprendo se nel suo sguardo vi sia celato il disinteresse per ciò che ho appena detto oppure è il suo modo bizzarro per mostrarsi incuriosito.

Mi giro, tornando a guardare le foto. Una morsa improvvisa di nostalgia mi stringe il cuore: mi manca l'Italia, con le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, le sue bellezze, i suoi difetti, la sua storia. So che non potrò tornarci, forse mai più. So che non rivedrò il suo mare azzurro, le sue città d'arte, i suoi tramonti infuocati dietro la linea dell'orizzonte, le sue montagne alte ed imponenti, come regine maestose che proteggono il confine.

L'arrivo del cameriere che porta due piatti enormi in mano mi distoglie dai miei tristi pensieri.

«Buon appetito.», ci augura, con un sorriso ampio e sincero.

Mangiamo in silenzio. Rhys non solleva gli occhi dalla sua pizza: mastica lentamente ogni pezzo, e mi pare lontano anni luce da qui.

Malgrado io lo detesti con tutta me stessa, sono incuriosita e al tempo stesso intimidita dai suoi atteggiamenti così singolari.

Gli lancio qualche occhiata di sottecchi, provando a comprendere i suoi silenzi, i suoi sguardi, i suoi gesti.

Lo osservo mentre si gratta la guancia destra con i polpastrelli, evitando due nei chiari, piccoli e tondi. Lo osservo mentre si pulisce la bocca sporca di passata di pomodoro, passando il tovagliolo con delicatezza.

Mi accorgo che due ragazze, sedute ad un tavolo non troppo distante, lo guardano, mormorando delle frasi che non riesco a cogliere.

Forse sentendosi i loro occhi addosso, Rhys solleva il capo e le guarda per qualche secondo, impassibile. Le due ragazze si girano dall'altra parte di scatto. Una di loro trattiene a stento una risatina nervosa.

Squadro attentamente il volto di Rhys: nessuna emozione pare attraversarlo, quasi non gli interessasse nulla al di fuori di se stesso e della pizza che ha nel piatto.

O forse sa di avere fascino.

Benché io non lo riesca a sopportare, devo ammetterlo: Rhys esercita un fascino particolare.

E non passa inosservato. 

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