Capitolo 3
Un vecchio amore è come un granello
di sabbia, in un occhio, che ci
tormenta sempre
– Voltaire
Riuscire a trovare un impiego che mi permetta di vivere dignitosamente si sta rivelando arduo. Con il mio titolo di studio, l'unica cosa che potrei fare è vivere alla giornata, con la speranza di ottenere una parte a teatro.
Sii realista: non si ha qualcosa nel piatto riempiendosi la testa di sogni. E poi...
E poi cantare non fa più per me. Non dopo quello che ha significato per tanto tempo. Sarebbe come avere di nuovo Flavio al mio fianco, che mi incoraggia, mi ascolta, mi dice che potrei cantare su un palco, quando le cose invece sono cambiate. Lui qui non c'è. Non lo avrò più al mio fianco e non mi stringerà più a sé dopo che gli avrò dedicato una canzone con il cuore in mano. È stato un sogno stupendo che si è dissolto nel dolore.
Strofino gli occhi con i polpastrelli, evitando in questo modo di scoppiare a piangere.
Sono quasi due ore che scrollo siti su siti, cercando annunci interessanti, presentando la mia candidatura e inviando il mio curriculum. Ho trascorso la notte a tradurlo dall'italiano all'inglese, con il risultato che ho di nuovo due occhiaie profonde che mi fanno somigliare ad un panda e le palpebre che bruciano. Nonostante le due tazze di cappuccino che ho trangugiato con avida disperazione, continuo a sentirmi stanca.
Mando il curriculum ad una casa editrice che cerca traduttori, già rassegnata all'idea che non mi prenderanno mai: che se ne farebbero di un'italiana non qualificata, che ha studiato canto e recitazione?
Clicco il tasto invio e controllo l'ora segnata in alto sul display del computer: le dieci e mezza. Mi concedo un altro sorso di cappuccino, assaporando lentamente il gusto dolceamaro che mi ha lasciato in bocca. Osservo le poche gocce rimaste in fondo al tazzone e le bollicine di schiuma solitaria che galleggiano sul latte macchiato dal caffè. La tentazione di prepararmene un terzo è forte, ma la ragione prevale sulla gola. Mi alzo in piedi per mettere il tazzone nel lavandino e ne approfitto per sgranchirmi le gambe. Allungo le braccia sopra la testa, stringendo le mani tra loro.
Apro la credenza e, in punta di piedi, ne tiro fuori un pacco di biscotti, il cui aspetto sulla confezione è alquanto invitante: rotondi e ricchi di cioccolato fondente, all'apparenza croccanti e deliziosi.
Torno a sedermi e, tra un biscotto e l'altro, controllo la posta elettronica, nella vana, stupida ed utopica speranza di vedere una risposta da parte di qualcuno. Mi accontenterei di una semplice, asettica ed automatica conferma di ricezione della mail; e invece, nulla. Solo offerte di false aziende che hanno ottenuto i miei contatti chissà come e cercano di tentarmi a cliccare su link che mi riempiranno il computer di virus.
Chiudo la casella di posta elettronica con stizza, ma clicco più volte del necessario, aprendo una cartella sul desktop.
Il cuore, per un attimo, si ferma. O forse, riprende a battere al ritmo cui era destinato.
Dovrei eliminare questa cartella e tutte le foto che contiene. Il cervello mi suggerisce ciò che è ragionevole: la scelta migliore, quella che non mi farà soffrire; magari all'inizio, ma almeno mi libererei delle pesanti catene che altrimenti dovrei trascinarmi dietro e che comunque mi terrebbero legata a qualcosa che non esiste più e che non avrebbe dovuto nascere. Eppure, il cuore grida di non farlo: non eliminare queste foto. Conservale. Si aggrappa al ricordo e non lo lascia sfuggire perché esso diventi parte del presente.
Una lacrima scivola giù lungo la mia guancia. La asciugo con la manica della felpa, prima di prendere un respiro profondo e lottare contro me stessa per chiudere la cartella. Solo chiuderla. La terrò là, in alto a sinistra, proprio come il cuore. Perché, nonostante tutto, è lì, solo lì, che posso amare Flavio senza distruggerlo.
Vorrei aprire ad una ad una quelle foto, guardarle, illudermi che vada tutto bene, che io e Flavio siamo ancora una cosa sola, che...
Dei passi pesanti sulle scale mi fanno sobbalzare e, presa dallo spavento, chiudo la cartella e abbasso lo schermo del portatile.
Mi volto e vedo Rhys.
Ripensandoci, ieri non l'ho sentito tornare. È rimasto fuori tutto il giorno. Shirley non ha saputo dirmi dove sparisca, certe volte.
Io e Rhys ci guardiamo.
Sembra la scena di un film western: i due duellanti, a distanza prestabilita, che si fissano in cagnesco, pronti a premere il grilletto per vedere chi è il migliore sotto il sole scottante di un mezzogiorno di fuoco. Solo che non siamo in un film western e nessuno dei due impugna la pistola per eliminare l'altro e ristabilire la propria superiorità.
Scruto la sua espressione intontita.
«Buongiorno», lo saluto, più per educazione che per reale desiderio di interloquire con lui.
Rhys non risponde, esattamente come ieri, ma entra in cucina e rovista con gesti lenti e ancora assonnati nella credenza. È talmente alto che, diversamente da me, non deve sollevarsi in punta di piedi per raggiungere gli scaffali.
Ad un tratto, si gira, con un'espressione a metà tra la stanchezza e il desiderio di uccidere. Gli occhi gli scivolano giù dal mio volto alle mie mani. Seguo la traiettoria del suo sguardo e realizzo cosa stesse cercando.
«Quelli sono i miei biscotti», sibila, con voce roca.
«Fino a prova contraria, non c'è scritto il tuo nome sopra la confezione», ribatto.
Rhys si avvicina. Posa le mani sul tavolo e mi fissa con avversione. Ora, con la luce accesa, riesco a cogliere l'azzurro chiaro dei suoi occhi, prima che i suoi capelli scarmigliati gli ricadano sopra la fronte. Forse crede di potermi intimorire, ma si sbaglia: dopo quello che ho passato, i suoi capricci infantili e la sua aria da criminale del quartiere che combatte per uno stupido pacco di biscotti sono l'ultima delle mie paure.
«Quelli. Sono. I miei. Biscotti», ripete lentamente, ma con un tono che pare non ammettere repliche.
«Non credo», sorrido beffarda. Sollevo la confezione e la apro. «Li ho finiti.»
Rhys guarda con rabbia le briciole sul fondo del pacco. Alza lo sguardo, incontrando i miei occhi. Deglutisce. Torna a fissare la confezione vuota, con un cipiglio cupo.
«Tienili, i tuoi biscotti.»
Gli lascio la confezione davanti alle mani e mi avvio verso il lavandino per bere un bicchiere d'acqua, trionfante; ma, non appena ne riempio uno, sento una presa ferma e decisa che me lo toglie di mano.
Mi volto giusto in tempo per vedere Rhys bere dal bicchiere che mi ha sequestrato. Sorseggia lentamente, il pomo d'Adamo che sale e scende con un ritmo regolare.
«Sei maleducato, viziato ed infantile», sentenzio.
Rhys beve fino all'ultimo sorso, guardandomi poi con aria soddisfatta.
Non mi risponde, ma si avvicina a me. Posa il bicchiere sul bordo del lavabo e con l'indice mi solleva il mento. Cerco di allontanarmi, ma sono intrappolata tra lui e il piano della cucina. Esercita una leggera pressione sulla punta della mandibola, costringendomi a guardarlo.
Trattengo il respiro per un istante.
Non sorride. Fissa con attenzione i suoi occhi nei miei, prima di ribbassare lo sguardo.
«Ti ringrazio per i complimenti. Magari riuscirò nel mio intento.»
«E quale sarebbe?» gli chiedo, infastidita dalla sua vicinanza. E da lui.
Tace per qualche istante. «Mandarti via.»
Si schiarisce la gola, per poi allontanarsi e chiudersi in bagno, mentre io resto immobile ed allibita.
Mandarmi via?!
Vengo pervasa dalla furia e subito mi dirigo verso il bagno con passo sicuro, pronta a fargli la guerra, se è quello che lui vuole.
«Rhys...» mi rendo conto di non conoscere il suo cognome e di non poter enfatizzare la mia ira. Scuoto il capo. «Rhys!» esclamo.
Batto i pugni contro la porta, chiusa a chiave. Lo sento fischiettare tranquillo.
Mi sta ignorando.
«Apri immediatamente questa porta!»
Per tutta risposta, Rhys apre l'acqua della doccia.
Niente mi impedirà di aspettarlo fuori dal bagno, pronta a dirgliene quattro. Se crede di potersene andare senza darmi delle spiegazioni ragionevoli si sbaglia di grosso. E si sbaglia se pensa che io mi lasci mettere i piedi in testa.
Mi siedo per terra, con le braccia conserte. I minuti sembrano non passare, e il fischiettare tranquillo di Rhys aumenta soltanto il mio nervosismo.
Forse avrei dovuto chiedergli scusa per aver preso i suoi biscotti. Sarebbe stato educato. Ma lui con me non lo è stato.
Metto a tacere la vocina gentile disposta alla pace. Quale adulto dotato di un minimo di intelletto farebbe storie per un pacco di biscotti, come un bambino dell'asilo?
Finalmente, Rhys chiude l'acqua e smette di fischiare. Sento i suoi passi, segno che si sta vestendo. Non appena apre la porta, mi alzo in piedi. Lui, che forse non si aspettava di trovarmi ancora lì, si ferma di scatto e quasi mi finisce addosso, prima di ritrovare l'equilibrio. Ha i capelli umidi e qualche goccia mi finisce sulla fronte.
«Che cosa intendi con mandarmi via?»
«Credo sia abbastanza chiaro», risponde con tono piatto, pensando che la conversazione possa concludersi così.
Si sporge per poter tornare in cucina, ma con passo veloce mi pongo di nuovo dinanzi a lui, impedendogli di camminare.
«Rispondi alla mia domanda.»
Lo guardo decisa.
Lui, dal canto suo, fissa un punto imprecisato del mio volto. Prende una ciocca dei miei capelli e se la rigira tra le dita, con delicatezza. Mi irrigidisco, presa alla sprovvista.
«Cosa... cosa stai facendo?» balbetto, fissando con sospetto e terrore le sue dita attorcigliate attorno ai miei capelli.
Tace. Mantenere la calma si sta rivelando fin troppo complicato.
«Non mi piaci e voglio che tu te ne vada.»
Abbandona la ciocca. La sua mandibola, che prima era rilassata, è tornata ad essere dura e rigida. Senza guardarmi negli occhi, prova a spostarmi, ma io mi oppongo alla pressione leggera ma autoritaria che esercita sulla mia spalla.
«Non sono venuta qui per piacere a te», rispondo, acida, ma con fermezza.
Incrocio il suo sguardo glaciale, che sostengo con orgoglio. Si umetta le labbra e avvicina il suo volto al mio. Allontano la testa.
«Okay», mi risponde. «Almeno ti risparmi di essere delusa.»
Prendo un respiro profondo ed il petto mi si gonfia di rabbia. Il suo atteggiamento mi sta irritando oltre i limiti umani.
«E allora tu non sarai deluso scoprendo che non me ne andrò, dovessimo scannarci ogni giorno, ogni ora, ogni minuto», controbatto.
Mi scosto e me ne vado nella mia stanza, senza degnarlo di uno sguardo e impedendogli di replicare.
Lo ripagherò con la stessa moneta, fosse anche l'ultima cosa che faccio. Sarò il suo tormento, quanto è vero che mi chiamo Rossella.
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