Capitolo 29
Un giorno mi perdonerò,
Del male che mi sono fatta.
Del male che mi sono fatta fare.
E mi stringerò così forte da non lasciarmi più
– Emily Dickinson
Procedo a passo spedito lungo il corridoio ormai familiare dell'ospedale. Quando raggiungo l'ingresso del reparto di terapia intensiva, mi precipito verso il medico che, durante queste settimane, mi ha tenuta aggiornata sulla situazione.
«Dottore! Dov'è? Avete chiamato mia madre...»
Il medico mi indica le sedie, per farmi accomodare. «Signorina, stia calma, la prego», mi intima con pazienza.
Annuisco con foga, prendendo un respiro profondo per placare la frenesia che mi stordisce. Sento dei passi avvicinarsi e finalmente mia madre appare nel mio campo visivo.
«Signora Conticini», soggiunge il dottore. «Maria Rinaldi è stata trasferita in riabilitazione. Lei e sua figlia potete andare a vederla, ma devo avvisarvi che è ancora molto confusa e al momento non parla.»
«Come sta?» chiedo con ansia, levandomi in piedi.
«Per adesso, sembra non aver riportato danni particolari», il dottore mi rivolge un sorriso cordiale. «Non ha più niente da temere, signorina.»
Espiro sonoramente, rilassando le spalle. Mia madre mi spinge con delicatezza verso il corridoio e, seguendo le indicazioni, raggiungiamo il reparto in cui ora si trova Maria.
Sono trascorse due settimane, in cui non c'è stato un solo giorno che io non abbia passato accanto a lei, a parlarle e ad implorarla di non lasciarmi. Ho fissato le sue labbra esangui, le sue guance sempre meno paffute e le sue mani che un tempo non trovavano mai pace, lontane dalla tastiera del pianoforte – e ho atteso un movimento, anche impercettibile, che potesse confutare le parole del dottore: queste erano un monito incessante, simile all'agonia.
Quando il telefono di mia madre ha squillato, ho temuto il peggio. L'ho vista impallidire, mentre le dicevano che stavano chiamando dall'ospedale. Ci siamo rivolte uno sguardo carico di tensione, preparate ma non davvero pronte a ricevere una notizia definitiva.
E invece...
«Siete qui per Maria Rinaldi, giusto?» ci chiede una delle infermiere del reparto di riabilitazione, dopo un'occhiata. Mia madre annuisce e lei ci sorride. «Seguitemi. Ora sta dormendo, ma potete entrare.»
Ci accompagna nella stanza di Maria. Mi siedo accanto al letto, avvicinando il mio volto al suo per sentire il suo respiro. Le stringo la mano nodosa, mentre nel mio petto esplode una gioia improvvisa e pervasiva, che mi fa tremare. Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
È viva. È qui. Non mi lascerà.
«Maria», mormoro, benché la mia voce stia fremendo per la commozione. «Sei tornata.»
Le sue palpebre si schiudono. Il suo sguardo vacuo si posa su di me, mentre dalle labbra appena protese esce un suono grave, simile ad un rantolo.
«Sono io, Rossella.»
Mi fissa a lungo, prima di richiudere gli occhi con un sospiro.
Mia madre posa la sua mano sulla mia spalla. «È ancora sotto l'effetto dei farmaci. Ci vorrà un po', prima che ti riconosca.»
«L'importante è che sia viva.»
Il suo viso stravolto porta i segni della lunga degenza; tuttavia, il pallore preoccupante dei giorni scorsi è meno marcato. La testa continua ad essere avvolta dalle fasciature e il suo corpo, un tempo prosperoso, pare così minuto tanto da perdersi in questo letto enorme.
Ma lei respira.
«Sei stata forte, Maria», sussurro contro le sue dita. «Sono fiera di te.»
«Andiamo a passeggiare sul lungomare?» propone mia madre, dopo un lungo silenzio.
Mi alzo in piedi, abbandonando la mano di Maria sul lenzuolo. Le rivolgo un ultimo sguardo grato prima di uscire dalla stanza. Il mio corpo è più leggero e non ho l'impressione di trascinarlo come un peso pronto a crollare a terra.
«Ora non se ne andrà», ripeto, per dare maggiore consistenza ad una realtà che, fino a qualche ora fa, apparteneva ai miei sogni.
Imbocchiamo l'uscita dell'ospedale e, in silenzio, ci avviamo per i viali principali della città. Raggiungiamo il lungomare. Solo alcune persone hanno avuto la nostra stessa idea, e sfidano la brezza gelida che soffia dalla costa e schiaffeggia le nostre facce scoperte. L'odore pungente della salsedine si impone alle mie narici, avide di respirare un profumo di cui ho sentito la mancanza.
Il mare è una tavola blu che ondeggia fino alla spiaggia per poi ritrarsi con timidezza. Il mio sguardo si allontana, impavido, e si scontra con l'orizzonte che a Londra si nascondeva dietro ai tetti.
Camminiamo sul viale piastrellato che costeggia gli stabilimenti deserti, ascoltando i lamenti dei gabbiani che si tuffano nell'acqua, per poi rimanere immobili a sfidare la risacca.
«Sono felice che Maria si sia ripresa», dice mia madre, interrompendo di nuovo il nostro mutismo.
Annuisco, percependo l'argomento in sospeso che nessuna delle due sembra intenzionata ad afferrare.
Le parole di Maria attraversano la mia mente come un fulmine.
È mia madre. Dobbiamo chiarire.
Prendo un lungo respiro per trovare nell'ossigeno una molecola di coraggio e di buona volontà per affrontare questo salto nel vuoto, senza sapere che cosa celi l'oscurità: potrei schiantarmi contro il suolo o atterrare al sicuro da ogni dolore, ma lo saprò soltanto se avrò abbastanza tenacia da tentare.
«Mamma», tentenno. Ho le mani gelide, ma non è il freddo ad averle intirizzite. Mi giro e ci fissiamo, mentre ogni cosa, attorno a noi, sembra fermarsi. «Mi... mi dispiace.»
Corruga la fronte. «Per cosa?»
«Per quello che ti ho fatto passare», smetto di camminare e sbuffo nel vano tentativo di alleviare la tensione. «Per essere fuggita e per essermi comportata... come lui.»
Gli occhi di mia madre diventano lucidi. Le sue labbra si contraggono in una smorfia addolorata. Allunga il braccio e mi sfiora la spalla fugacemente.
«Non devi chiedermi scusa. Non sei come lui e non lo sei mai stata.»
«Sì, invece. Ti ho spezzato il cuore e poi me ne sono andata.»
Scuote il capo e mi prende per mano, senza alcuna esitazione, accompagnandomi alla panchina più vicina, sulla quale ci sediamo.
Rimaniamo a guardarci, private di ogni timore. Nei suoi occhi non c'è alcun rimprovero sdegnoso, né delusione.
«Rossella, sono io a doverti chiedere perdono. Ho pronunciato delle parole tremende e false», mi accarezza la guancia, con una dolcezza che mi dilania l'anima. «Avrei dovuto stare dalla tua parte, ma ho pensato solo al mio dolore e alla vergogna per quello che diceva la gente.»
Abbasso lo sguardo. «Sono stata una stupida...»
«No: eri sola e io non ero al tuo fianco. Ed è vero che ci sono rimasta male, non posso negarlo. Ho creduto di non conoscerti e di avere davanti a me un'altra persona e non mia figlia», i suoi occhi si riempiono di lacrime. «Poi ho capito che, se mi fossi comportata come una madre, allora tutto questo non sarebbe successo.»
«Non mi hai fatto mancare niente, mamma», la rassicuro, tentando di sorridere. «Io ti ammiro: mi hai cresciuta da sola e mi hai amata tantissimo.»
«Ho temuto di averti persa per sempre», confessa, con la voce rotta dal pianto.
Entrambe recliniamo il capo verso il mare per contemplarlo e riprendere fiato.
«Ho imparato il tuo biglietto a memoria», prosegue, con lo sguardo fisso sulle onde. «Mi sono chiesta mille volte cosa fosse giusto: lasciarti andare o venire a cercarti? Avevi scritto il tuo indirizzo e ho guardato mille volte dove si trovasse la tua nuova casa per immaginarti così lontana da me», si volta e i nostri sguardi s'incontrano. «Te ne sei andata perché non ti ho dato alternative. Sono stata io a cacciarti, condannandoti per un errore che non hai commesso unicamente tu.»
Vorrei replicare, ma ho un nodo che mi occlude la gola.
«Sono stata una madre terribile, Rossella. Dovevo affrontare questa situazione con te, anziché lasciarti da sola a combattere contro le malelingue, contro te stessa e... anche contro di me.»
Si alza in piedi e appoggia i gomiti al parapetto che separa il lungomare dalla spiaggia. Si copre il volto con i palmi delle mani ed esala un lungo sospiro che accartoccia la mia anima. Somiglia ad una bambina che al buio ascolta i mostri rintanati sotto al letto.
La vedo per quello che è: una donna, proprio come me. Una donna che ha sofferto, amato, gioito, vissuto, riso, pianto. Una donna che ha percorso molta strada e ha attraversato sentieri di cui non mi ha mai parlato, e che forse saranno sempre un mistero che apparterrà al suo passato. Una donna abbandonata dall'uomo di cui si fidava e che, nonostante il dispiacere, si è alzata in piedi e si è rimboccata le maniche per riprendere il proprio cammino. Una donna che ha saputo essere madre e padre, genitore e amichevole confidente. Una donna, ma anche un essere umano che ha commesso degli errori.
Mi avvicino timidamente e, abbattendo le mie remore, la abbraccio.
Le sue braccia mi circondano e crolla il muro insormontabile che ci divideva: un mattone per ogni secondo in cui ci stringiamo, annullando la distanza che ci ha impedito di fare il primo passo per tutto questo tempo.
La paura di essere respinta scompare, mentre ascolto i suoi flebili singhiozzi contro i miei capelli.
Torno bambina. Io e mia madre, accoccolate sul divano, strette sotto una coperta mentre fuori infuriava la burrasca e l'aria gelida era così sferzante da ululare nel silenzio. Non ci sono sbagli a separarci, né incomprensioni o assurdi timori: siamo sempre noi, una madre e una figlia che si amano e crescono insieme, ciascuna con i propri sogni, pensieri, esperienze, ma unite da un filo che va al di là del medesimo sangue che ci scorre nelle vene.
«Ti voglio bene, mamma», mormoro tra le lacrime, affondando il viso tra le pieghe della sua sciarpa.
«Anch'io, Rossella. Scusa se non te l'ho dimostrato.»
«Non importa. Ora siamo qui e conta solo questo.»
«La vera sciocca sono io, che ho perso tanto tempo prezioso perché ero troppo orgogliosa per comprendere i tuoi sentimenti», bisbiglia.
Mi scosto per guardarla negli occhi. «Ti hanno detto molte cattiverie?»
Sorride e mi accarezza i capelli. «Erano solo fatti gonfiati da tante falsità. All'inizio ci restavo male, ma poi ho capito che non ce n'era alcuna ragione.»
«Non mi interessa quello che hanno detto di me e che forse continuano a pensare. Tu non hai alcuna colpa e non si dovevano permettere di coinvolgerti.»
«Rossella», mia madre scuote il capo. «Quando tuo padre se n'è andato, non hanno criticato lui e hanno compatito noi. Chiacchieravano per poi tacere quando ci vedevano. Non ho mai sopportato la loro finta compassione, così come ora non capisco come possano accanirsi su di te e non commentare le azioni di quell'uomo.»
Chiudo gli occhi per trattenere le lacrime, benché queste siano ormai sfuggite completamente al mio controllo. Reclino la testa e la mia guancia aderisce contro il palmo della sua mano.
Respiro questo istante. I sensi di colpa ruggiscono nel mio petto, ma mia madre li coccola e ammansisce la loro collera.
Intreccio le mie dita alle sue e riapro gli occhi, incontrando il suo sguardo: è dolce, materno. Non c'è più alcuna traccia della delusione con cui mi ha colpita prima che io fuggissi. Nei suoi occhi leggo il perdono: per se stessa e per me.
«Devo confessarti una cosa, Rossella. Ero venuta a Londra per parlarti, ad ottobre.»
Sgrano gli occhi, incredula.
«Maria mi aveva detto che avevi ottenuto una parte e io, fin dal principio, ho seguito i tuoi passi attraverso le foto e le notizie che trovavo in rete», sorride mestamente. «Non so con quale coraggio, ma ho acquistato un biglietto per vedere lo spettacolo, ho preso un aereo e sono venuta in Inghilterra.»
Una vertigine mi strappa per un momento dalla realtà, all'idea che tutto avrebbe potuto cambiare, quella sera.
«Ero lontana dal palco, ma ti ho vista con chiarezza: mi hai resa così fiera da voler gridare a tutta la platea che eri mia figlia. Alla fine dello spettacolo ho atteso fuori, dall'altro lato della strada.»
«Non me ne sono accorta...»
«C'erano tantissime persone che aspettavano di incontrarti e, quando sei uscita, loro erano in visibilio e tu... tu sorridevi.»
Sul suo volto si dipinge un'espressione talmente dolce che mi si stringe il cuore.
«Eri felice. Non credo di averti mai vista così nemmeno ai tempi in cui ancora frequentavi l'Accademia. Mi sono sentita un'intrusa: tu avevi trovato un nuovo equilibrio, una nuova casa, un lavoro... mentre io ti ho soltanto offerto rancore e disprezzo immotivati. Non volevo rovinare il tuo momento», sospira, come a voler raccogliere le forze per proseguire. «Ho avuto paura di essere respinta.»
«Non ti avrei mai cacciata, mamma. Ho pensato di chiamarti ed ogni volta lasciavo che i dubbi mi assalissero.»
Dalle labbra di mia madre sfugge una risata soffocata. «Siamo state così sciocche... avremmo potuto chiarirci molto tempo fa, anziché attendere un momento simile.»
«Mi sei mancata, mamma», sussurro.
Lei sorride e mi cinge le spalle con un braccio per attirarmi a sé. Strette l'una all'altra, recuperiamo tutti gli istanti che ci hanno viste lontane.
«Posso chiederti una cosa, Rossella?»
«Certo.»
«Tra te e quel ragazzo... Rhys, giusto? C'è qualcosa?»
Sollevo la testa, scioccata dalla sua domanda. «Mamma!»
«Sono curiosa!» scrolla le spalle, arricciando le labbra. «Quando sono venuta a Londra, ve ne siete andati dal teatro insieme. Sembravate in confidenza e intimi.»
Scuoto il capo, ridendo con nervosismo. «Ti posso assicurare che non c'è niente tra me e Rhys. Siamo coinquilini a causa di strane coincidenze, e per una serie di altrettanto assurde macchinazioni del destino siamo persino colleghi. Tutto qui.»
Mia madre rotea gli occhi e sorride. «Sarà come dici tu...»
Evito di sbuffare, sopprimendo il formicolio che mi attraversa lo stomaco. «È come dico io.»
«Ti dirò che non è male», continua imperterrita.
Vorrei tapparmi le orecchie con le mani e canticchiare per infastidirla come facevo un tempo, quando le raccontavo le notizie più accattivanti che potessi riportare dalle mie lunghe giornate tra i banchi di scuola e lei ipotizzava scenari degni di una telenovela. Ora, però, non posso che ascoltarla e osservarla, ripetendomi che non è un sogno: stiamo parlando di nuovo, proprio come allora. L'ultimo anno non è che una breve parentesi priva di importanza. Non abbiamo scordato come amarci: è un sentimento che ci è sempre appartenuto, malgrado le avversità.
«Mamma, ripeto: non ho nulla da dichiarare.»
L'espressione sorniona che si dipinge sul suo viso mi costringe a mordermi le labbra e rivolgere la mia attenzione altrove. Non è la prima volta che sento una simile insinuazione, ma ora mi fa un diverso effetto: ripenso a me e Rhys in quella caffetteria, a battibeccare per chi dovesse pagare il conto fino a quella domanda spiazzante e inaspettata.
«È così complicato, per te, accettare l'idea che io possa... volerti bene?»
Una parte di me evita di lambiccarsi troppo sulle sue parole, come in una corsa ad ostacoli da cui dipende la mia esistenza.
«Va bene, la smetto», solleva le mani, in segno di resa. «Però sono felice che tu abbia trovato degli amici. Si vede che ti vogliono bene.»
«Mi dispiace che Shirley e Rhys siano dovuti tornare a Londra a causa del lavoro. Avrebbero potuto conoscere Maria.»
«Jason è stato dolce a restare. Peccato che non parli un poco d'italiano come Rhys.»
Mi giro di scatto, confusa. «Rhys non conosce l'italiano», la correggo.
Lei scuote la testa. «È stato lui a chiamarmi per organizzare il viaggio. Siamo riusciti ad intenderci, parlando un po' in italiano e un po' in inglese», mia madre mi fissa. «Non lo sapevi?»
Deglutisco a fatica, incerta se sia la memoria a ingannarmi.
Abbozzo un sorriso titubante. «Ho ricordi confusi di quel giorno.»
• • • • •
Non avrei mai creduto di poter ridere in un ospedale; eppure, adesso mi sento così felice che dimentico il luogo in cui mi trovo.
«Che bello vedervi», mormora Maria.
Benché ora riesca a parlare, dopo giorni di silenzio e versi affannati, è ancora molto provata e debole. Sentire di nuovo la sua voce è un privilegio che in passato ho dato per scontato e che adesso, invece, mi appare come il più dolce dei doni che la vita potesse farmi.
Io e mia madre sorridiamo.
Accarezzo la mano di Maria. «Come ti senti?»
«Ho male alle gambe e sono intontita», bofonchia.
«Ti riprenderai presto», la rassicura mia madre.
Maria solleva la mano, ancora tremante, e mi accarezza la guancia. «Sei più bella di quanto ricordassi. Londra ti ha fatto bene.»
Arrossisco e scuoto il capo. «Sono potenti, quei medicinali, visto che continui a farneticare.»
Una risata sottile le sfugge dalle labbra. «Quando starò bene, verrò a vederti a teatro», reclina il capo per guardare mia madre. «Che ne dici di accompagnarmi?»
Mia madre annuisce. Siamo noi tre, di nuovo insieme come un tempo: le due donne della mia vita, i fari che hanno illuminato i giorni di tempesta, entrambe al mio fianco. Proprio come in passato.
«Dovrai presentarmi i tuoi amici», prosegue Maria.
«Rhys e Shirley sono tornati a Londra, ma Jason è qua fuori. Se le infermiere non hanno niente in contrario, posso farlo entrare e presentartelo già adesso.»
Esco in corridoio per parlare con le infermiere e chiamare Jason, che entra nella stanza di Maria con un sorriso cordiale stampato sul volto. Pronuncia un ciao caloroso.
«Io Jason», dice, porgendo la sua mano a Maria, per poi grattarsi la testa e rivolgersi a me. «Non so dire altro in italiano.»
«Tradurrò io per entrambi», lo tranquillizzo, ripetendolo anche a Maria e mia madre.
«Grazie per essere rimasto in Italia con Rossella», esordisce Maria.
Jason attende che io gli riporti le sue parole, dopodiché risponde: «Nessun problema. Posso lavorare ovunque e non avrei mai lasciato la mia biondina italiana preferita da sola», mi cinge la vita con affetto e scompiglia i miei capelli.
Sebbene vincolati dall'impossibilità di comprendersi senza le mie traduzioni, Maria e Jason entrano in sintonia.
Un'infermiera irrompe nella stanza e si rivolge a Maria. «Ora deve riposare.»
Lei annuisce e prende la mia mano per portarsela all'altezza del cuore. «Sono felice, Rossella. Ti voglio bene.»
Mi chino per lasciarle un bacio delicato sulla fronte. «Anche io. Ci vediamo domani.»
Usciamo dalla camera. Mia madre si congeda per tornare al lavoro, mentre io e Jason ci avviamo verso l'esterno per prendere la corriera che ci riporterà a casa mia.
«Maria è molto dolce. Andrebbe d'accordo con Shirley», commenta.
«Già», replico, distratta.
«Ehi, Rosela, va tutto bene?»
Mi fermo e incrocio le braccia. Jason si arresta, preoccupato.
«Chi ha organizzato il viaggio in Italia?»
Jason smette di respirare e sgrana gli occhi. Spalanca la bocca, dalla quale tuttavia non esce alcun suono.
«Perché me lo chiedi?» balbetta, in evidente difficoltà.
«Mia madre ha detto di aver parlato con Rhys. Credevo che Shirley si fosse occupata di ogni cosa. Ho temuto di essere scioccata a tal punto da non ricordare cosa fosse accaduto.»
Jason si gratta nervosamente la guancia e fissa lo sguardo oltre la mia spalla. «Non vedo quale sia il problema: non è una cosa tanto grave...»
«Jason», lo richiamo. È sempre più nervoso: la sua fronte aggrottata è un reticolo di rughe d'espressione e i suoi occhi mi evitano con un'accuratezza che non è affatto casuale. «Dimmi il motivo per cui non mi avete detto la verità.»
Scuote la testa, ma gli afferro il mento con delicatezza e, siccome non incontro alcuna resistenza, lo costringo a guardarmi. «Parla.»
«Cavolo, Rosela! Sei malvagia!»
«Risparmiati i commenti per dopo. Ora voglio sentire i fatti.»
«Avevi un futuro da avvocato», borbotta, ricevendo da parte mia un'occhiata truce. «E va bene: non è stata Shirley a proporre di venire in Italia con te. L'idea è stata di Rhys: quando siamo riusciti a capire l'accaduto, ci ha presi in disparte per dirci che tu hai paura delle altezze e che non saresti mai salita su un aereo, tantomeno da sola, e che in treno rischiavi di perdere troppo tempo prezioso.»
Lo fisso, sconvolta. «Perché mi avete nascosto questa cosa?»
Jason mi guarda negli occhi. La sua espressione enigmatica mi incute una certa ansia. «Rhys non ha voluto che te lo dicessimo.»
«Non capisco...»
Provo a pensare ad un motivo per cui avrebbe dovuto celarmi un gesto simile, ma, per quanto io mi sforzi, non trovo una spiegazione logica o sensata che possa giustificare una scelta del genere.
«Jason... perché?»
Lui tace per un lungo momento. Vedo alternarsi sul suo viso delle emozioni contrastanti. «Non lo so», risponde infine.
Calcio un sassolino con la punta delle mie scarpe, stizzita. «Non lo riesco a comprendere. È insopportabilmente odioso e testardo. E misterioso», sbotto.
Percepisco la risata sommessa di Jason. «Se lo dici tu...»
Sollevo la testa e lo fisso di sbieco. «A te piace ancora?»
Si irrigidisce e le sue labbra si contraggono in una smorfia. «No.»
«Sicuro?» tiro la manica della sua giacca per invitarlo a guardarmi.
Lui annuisce. «Certo, a volte è difficile, ma ho capito di non avere speranze. Non potrei mai piacergli e non è colpa sua, né mia, né di nessun altro», sospira con rassegnazione. «Mi passerà.»
Lo abbraccio con uno slancio che lui ricambia. «Un giorno troverai l'uomo della tua vita. E, se non dovessi riuscirci, te lo presenterò io: un bel fustacchione dolce come il miele, degno del mio migliore amico.»
«Sei tremenda, ma ti voglio bene», bisbiglia, stritolandomi contro il suo petto a tal punto che rischiamo di cadere.
• • • • •
Ascolto la voce della risacca. Ho sempre creduto che mi parlasse e mi consigliasse, ed io mi affidavo alla sua saggezza millenaria. Questa spiaggia mi ha vista crescere, sognare, sospirare. Dopo un anno di lontananza, la sabbia umida è ancora qui, pronta a custodire le orme dei miei passi; il mare si avvicina alle mie scarpe per trascinare via con sé i miei pensieri e conservarli nei suoi abissi.
«Rossella.»
Non mi volto. Mia madre mi affianca e rimane in silenzio a contemplare la foschia cinerea che cancella la linea dell'orizzonte.
«Mi era mancato», bisbiglio.
«Questa è pur sempre la tua casa.»
Le parole muoiono sulle mie labbra. Il mio sguardo torna a cavalcare le onde lontane.
Casa.
Ho cercato il mare oltre i tetti di Londra. Come ogni esule, ero un lenzuolo teso oltre la propria resistenza e ho finito per squarciarmi a metà: una parte di me è rinata in Inghilterra, ma l'altra è sempre rimasta qui.
«Tornerai mai?»
Rivolgo un'occhiata a mia madre, che ora mi sta fissando intensamente. Leggo nel suo sguardo ciò che intende con la sua domanda.
«Non è più il mio posto. Non potrei tornare per restare», ammetto con sincerità.
«Sei felice, a Londra?»
Sorrido. La dolcezza di Shirley mi accarezza l'anima e la rivedo davanti ai miei occhi mentre si impegna per preparare dei biscotti. Sento Jason sbuffare al di là della porta del suo appartamento, sempre troppo impegnato per non essere stizzito, ma mai assente nel momento del bisogno. Percepisco la tenerezza di Rhys, capace di prendere il cuore degli altri nelle sue mani senza scheggiarlo, benché sia testardo e infantile come pochi.
Londra non ha il mio mare. Continuerò a spingere il mio sguardo oltre i tetti con la nostalgia a tenermi per mano; eppure, tra le sue strade caotiche ho gettato le mie radici, trovandovi un terreno abbastanza fertile da poter ricrescere.
«Sì, mamma. Sono felice.»
Sorride anche lei: mesta, ma orgogliosa e pronta a dirmi arrivederci. Questa volta non è una fuga.
«Puoi venire quando vuoi, Rossella.»
Ci stringiamo, entrambe commosse.
«Andiamo?» mi chiede.
«Ti raggiungo subito.»
Annuisce. Non ha bisogno di farmi domande e mi lascia da sola sulla spiaggia. Cerco di rubare ogni dettaglio per imprimerlo nella mia mente prima di salire sul treno che mi porterà lontana da qui.
«Ciao, mare», sussurro.
Le onde proseguono con il loro moto inesorabile, ma so che mi stanno ascoltando.
«Mi mancherai, ma questa volta non mi fa male andarmene. Tornerò, qualche volta, e so che tu sarai sempre così maestoso da lasciarmi senza fiato.»
Raccolgo una pietra incastonata nella sabbia e me la rigiro tra le mani prima di lasciarla scivolare sulla battigia, nell'istante esatto in cui la risacca avanza. «Ricordati di me, mare. Io non ti posso dimenticare.»
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