Capitolo 28
❗[TW: questo capitolo è ambientato in ospedale. Verranno descritte situazioni delicate e sensazioni fisiche e psicologiche particolari. Se siete sensibili e il contesto risulta per voi troppo disturbante, potete saltare il capitolo ed eventualmente, se lo desiderate, scrivere un commento per chiedermi un riassunto. Risponderò con piacere]
***
E ogni angoscia che ora par mortale,
di fronte al perder te, non sarà eguale
– William Shakespeare
L'angoscia che mi opprime il petto non mi abbandona per un solo istante. Quando all'orizzonte appare l'edificio desolante dell'ospedale, devo mordermi il labbro con veemenza, nella speranza che il dolore fisico mi distragga dal lugubre terrore che mi paralizza. Mi costringo a respirare con la pancia e ad intervalli regolari, proprio come mi ha insegnato Maria tanti anni fa; tuttavia, l'aria incamerata sembra non essere sufficiente.
Mia madre parcheggia l'auto e raggiungiamo il bancone all'ingresso. Le infermiere sono sempre le stesse. Qualcuna di loro mi rivolge una lunga occhiata. Devono avermi riconosciuta. Il cuore accelera la propria corsa.
«Siamo qui per Maria Rinaldi», comunica mia madre.
Una delle infermiere osserva prima lei e me e poi i miei accompagnatori. «Non potete entrare tutti.»
«Andremo soltanto io e mia figlia», le rassicura mia madre.
L'infermiera annuisce, con indifferenza. «Piano terra, a destra. Seguite le indicazioni.»
Mi volto e guardo i miei amici. «Voi dovete restare qui.»
Shirley e Jason si avvicinano e mi abbracciano per incoraggiarmi. Rhys resta in disparte e mi si accosta soltanto quando gli altri due sono andati a sedersi nella sala d'attesa. Mi stringe le mani: contro la mia pelle gelida, le sue sembrano bollenti.
«Andrà tutto bene», sussurra.
Annuisco come un automa e lui si allontana. Mia madre posa una mano sulla mia spalla e la seguo. Un silenzio teso ed imbarazzato accompagna il nostro percorso. I muri, di un bianco ormai ingrigito, creano un labirinto desolante.
Raggiungiamo il reparto di terapia intensiva, dove incontriamo altri infermieri e dei dottori. Mia madre li conosce e ottiene senza problemi le informazioni di cui abbiamo bisogno. Alcuni mi fissano straniti e rivolgono delle occhiate compassionevoli ad entrambe. Distolgo lo sguardo, immaginando i loro pensieri: non è la situazione dolorosa a scatenare la loro pena, ma il passato ancora incastrato nella mia figura.
«Venite con me», ci intima un medico.
Ci accompagna davanti ad una porta scorrevole, che si apre dopo che lascia scorrere un badge su un monitor. Passiamo dinanzi a numerose stanze. Tengo lo sguardo fisso sulla schiena del dottore, ignorando la sofferenza che incontrerei se mi girassi: è un peso che non riuscirei a sostenere. Finalmente, arriviamo alla stanza dove si trova Maria.
La nausea mi pizzica la gola e devo mordermi il labbro per trattenere i conati.
Il viso pallido è adagiato sui cuscini e la testa è circondata da delle bende. Dalle narici escono due tubicini trasparenti. Un costante bip segnala la frequenza regolare del battito cardiaco.
«È in coma farmacologico», dice il medico. «L'incidente le ha provocato un trauma cranico e qualche microfrattura. Stiamo monitorando la situazione, ma...»
Mi volto di scatto, incontrando gli occhi esitanti del dottore. «Ma cosa?»
«Non sta rispondendo alle cure nel modo in cui ci saremmo aspettati.»
Le mie unghie affondano nei palmi, mentre una sensazione di vuoto si fa strada sotto ai miei piedi. «Che cosa significa?»
Il dottore si toglie gli occhiali e si strofina le palpebre con il dorso della mano. Il suo silenzio è una tortura. Esita, come se nella sua mente stesse selezionando le parole migliori per comunicarmi l'imminente tragedia che le sue premesse hanno tratteggiato.
«C'è la possibilità che al risveglio riporti delle serie conseguenze, anche limitanti», esala alla fine, con difficoltà. «O che non ce la faccia.»
Mi giro per osservare il viso di Maria. Le sue labbra pallide sono linee dritte prive di vita. Fisso le sue palpebre con insistenza, nella vana attesa che si aprano, rivelando i suoi occhi scuri e vispi.
Qualcosa, dentro di me, si spezza all'idea di non poter più vedere il suo sorriso rassicurante.
«Non è vero... non può essere...»
«Se l'altra vettura non fosse andata così veloce, l'impatto sarebbe stato meno violento.»
«Maria non guida mai. Lei odia la macchina...»
«Mi dispiace, signorina.»
«Maria non guida mai», ripeto. «Non le piace. Dovete salvarla. Non guida, lei non guida.»
«Signorina, le devo chiedere di lasciare il reparto», mi intima il medico con pazienza.
«No! Devo stare con Maria.»
Non vedo altro che macchie che riempiono il mio campo visivo. Sento la voce del dottore, ma non ascolto una sola delle sue parole: nella mia testa risuona un'unica frase, come il rintocco sordo e funereo di una campana.
Potrebbe non farcela.
«Rossella», mia madre mi stringe le spalle e mi spinge via. «È meglio andare.»
Scuoto il capo e mi dibatto dalla sua presa, ma sono troppo debole per oppormi: tra le lacrime che mi annebbiano la vista, usciamo dal reparto di terapia intensiva e torniamo nel corridoio da cui siamo giunte.
Mi appoggio al muro, con la testa rivolta verso il soffitto. Cerco di respirare e di togliermi di dosso l'odore di disperazione e malattia che mi impregna le narici, ma a nulla valgono i miei sforzi: davanti ai miei occhi c'è il viso inespressivo e bianco di Maria. È lo spettro della persona che ho conosciuto, come un presagio dell'eventualità prospettata dal dottore.
«Non mi può lasciare», mormoro, stringendo i pugni nelle tasche del cappotto. Vorrei picchiarli contro il muro e sanguinare, farmi male e soffrire fino ad esaurire ogni forza. Dormire e svegliarmi solo quando Maria starà bene. Scoprire che in realtà era un incubo che ha malignamente torturato il mio inconscio fino a spingerlo sull'orlo della follia.
Le braccia di mia madre mi circondano. Affondo il volto tra i suoi capelli e sfogo il pianto che ho trattenuto sino ad ora. I singhiozzi mi scuotono il corpo, mozzandomi il respiro.
Non l'ho salutata. Me ne sono andata dall'Italia senza vedere Maria per un'ultima volta e spiegarle l'accaduto. Ho aspettato come una codarda di essere al sicuro, lontana dalle mie colpe, per svuotare il mio cuore dai suoi peccati. E lei, nonostante tutto, non ha mai smesso di volermi bene. Ai suoi occhi non ero il mostro, la rovina famiglie senza scrupoli: ero la sua dolce Rossella.
Mia madre mi preme contro il suo petto. Per un attimo, ho la sensazione di essere di nuovo una bambina che non ha altro che la sua mamma. Le bugie crollano: siamo solo io e lei, con il mio dolore stretto tra di noi e che mi prende a pugni lo stomaco. Un tempo, mi bastavano i suoi abbracci perché tutto attorno a me svanisse e l'oscurità si tingesse di sfumature tenui.
«Mamma...»
«Mi dispiace, Rossella», mormora, sconfitta. «I dottori faranno del loro meglio. A noi non resta che sperare.»
«È colpa mia.»
Mi prende il viso tra le mani e mi fissa negli occhi, confusa. «Che cosa dici?»
«È colpa mia. Forse questa è solo una punizione del destino per tutti gli errori che ho commesso. Sono un disastro.»
Scuote il capo, ma tace. Nel suo sguardo si condensano parole vuote ed emozioni acerbe. Rimaniamo in piedi, in precario equilibrio sopra ad un filo di scuse senza voce. Il dialogo tra di noi è solo un ricordo.
«Usciamo un attimo», mi intima con fermezza, ma nel suo tono c'è dell'incertezza. «Torniamo dopo, d'accordo?»
Annuisco: non ho le forze per ribattere e sono priva di energie per rientrare nel reparto. Se adesso vedessi di nuovo Maria, crollerei. Seguo mia madre, fissando gli occhi sul pavimento; tuttavia, ho l'impressione di osservare ogni cosa da una dimensione lontana, attraverso un vetro appannato, come se il mio corpo, d'un tratto, non mi appartenesse più.
«Vieni in cortile, hai bisogno di aria.»
Superiamo una portafinestra e l'impatto con l'aria gelida mi trascina bruscamente indietro, alla realtà. Socchiudo le palpebre, abbacinata dalla luce naturale. Le lampade bianche conferiscono ai corridoi dell'ospedale un'aria orrorifica simile ad un incubo; l'unico spazio in cui l'alone di dolore e infelicità non riescono a dominare è il giardino della struttura: è ampio e attraversato da vialetti piastrellati, con aiuole spoglie di fiori ora che è inverno, e circondato ai quattro lati dai muri scrostati dell'edificio. Ha le sembianze di un luogo ameno, se paragonato al dedalo da cui siamo appena uscite.
Respiro a pieni polmoni, alla disperata ricerca di un sollievo che nemmeno l'ossigeno è intenzionato a regalarmi.
«Sediamoci su quella panchina.»
Obbedisco. Mia madre si accomoda accanto a me e posa la sua borsa sulle ginocchia. Rovista all'interno fino ad estrarre un involucro colorato. «Uno snack al cioccolato.»
«Non ho fame, mamma.»
«Sei pallida come un lenzuolo. Hai bisogno di zuccheri.»
Afferro lo snack per accontentarla. Lo mangio lentamente, con il sapore del cioccolato che mi accarezza il palato secco. Mi costringo a deglutire, un boccone dopo l'altro, fino all'ultimo pezzo.
«Ora sei un po' più rosea», constata, prendendo la plastica dalle mie mani per gettarla nel cestino a pochi passi da lei.
Rimaniamo in silenzio, sedute e con gli occhi fissi su un punto imprecisato davanti a noi. Una cortina di tensione è di nuovo calata tra noi due, ma, malgrado il cioccolato appena ingerito, non ho le risorse fisiche e psicologiche sufficienti per tentare di dissiparla con un gesto o una parola. Siamo distanti, ciascuna persa nelle sue buone ragioni per non andare incontro all'altra.
Sospiro. Maria avrebbe saputo come agire. Ma lei, pur essendo qui, non può che resistere e aggrapparsi alla vita con tenacia.
«È tua madre, Rossella. Sono certa che non ti odia. Non potete continuare a non parlarvi.»
Me l'avevi detto, Maria: mi avevi raccomandato di fare il primo passo, ma ho lasciato che il tempo scorresse.
Osservo mia madre di sottecchi e la sua tristezza rassegnata mi colpisce l'anima, già piegata da troppi schiaffi violenti.
A Capodanno ti ho pensata, mamma. In realtà, ti penso sempre, ma quel giorno la nostalgia mi ha spinta a provarci, come a Natale: ho preso il telefono e ho cercato il tuo nome sulla rubrica. Solo che poi...
Poi ho avuto paura. Un terrore paralizzante, che prende per mano rimpianti e rimorsi e balla con loro al ritmo di melodie tetre.
«Sappi che io sono al tuo fianco. Qualunque cosa tu decida di fare.»
Non ho mai meritato Maria e il suo affetto incondizionato. E ora sono tornata perché lei è appesa ad un filo e potrebbe lasciarmi per sempre, sola in un mondo in cui per tutti e per me stessa sono il mostro che rovina quanto di più bello era stato costruito dagli eroi. Sono la cattiva nella loro storia: per mia madre, per Flavio, per sua moglie. Eppure, Maria mi aveva accolta nel suo cuore anche quando la verità era ormai sulla bocca di tutti, comprovata e indubbia. Davanti ad ogni specchio cancellava le brutture, rivelando la sua realtà. Quella che per nessun altro, se non lei, io potevo indossare.
«Ci sarà un processo contro l'altro automobilista?» chiedo, ricacciando le lacrime.
«Sì. Era ubriaco e gli avevano già ritirato la patente poche settimane fa. Comunque vadano le cose, la giustizia provvederà.»
Comunque vadano le cose.
• • • • •
Allontano dalla mia mente qualunque ricordo o pensiero. Se mi concentro, riesco a sentire l'eco distante delle onde che si infrangono sulla spiaggia. Il mare borbotta, infuriato e scuro. Nel buio della notte, deve somigliare ad una macchia d'inchiostro che si confonde con il cielo.
È irrequieto e rabbioso. Accarezza i miei tormenti e li abbraccia, partecipe della mia inquietudine.
Il mio udito annega tra la schiuma. A volte ho creduto di amare il mare a tal punto da immaginarne il suo moto melodioso, come una ninna nanna capace di cullarmi nel mondo dei sogni.
È troppo lontano perché possa udirlo. Eppure, lui c'è. È l'unica cosa che conta.
«Rosela, stai dormendo?»
Taccio, indecisa se parlare o fingere di dormire per restare sola con i miei pensieri.
«No», sussurro infine. «Non riesco.»
Le lenzuola frusciano e poco dopo il mio materasso si abbassa. Mi metto a sedere e accendo la lampada sul comodino, ritrovandomi faccia a faccia con Shirley.
La luce bagna il resto della stanza con il suo pallore, scolpendo con candore i contorni familiari dei mobili e delle suppellettili che ho lasciato qui prima di partire. La scrivania è in perfetto ordine: nel portapenne sono incastrati più pennarelli colorati, accanto ai quali svetta una pila spropositata di post-it variopinti. La libreria, dalla quale mancano i volumi che ho portato a Londra, è così vuota da apparire desolante.
Lo specchio vicino all'armadio rimanda il mio riflesso. Il mio sguardo è smarrito, benché mi trovi in una camera che mi ha vista crescere e che ha assistito ad ogni momento cruciale della mia esistenza. Questi muri, di un tenue azzurro pastello, potrebbero raccontare migliaia di aneddoti, memori di pomeriggi interi trascorsi a sognare una vita piena d'amore, soddisfazioni e desideri realizzati.
Socchiudo gli occhi, concentrando il mio udito sul silenzio quieto di quello che, mio malgrado, è il mio paese. La mia casa. Per quanto io resti in ascolto, non odo un singolo rumore, che sia una macchina che passa per la strada a tarda notte, dopo una serata di divertimento in città, o una comitiva di ragazzi che girovaga per le vie, per godersi la febbrile eccitazione della gioventù.
Così abituata ai suoni di Londra, questa pace mi pare innaturale.
Sono a casa mia. Eppure, ogni dettaglio mi ricorda che sono un'esule, un'estranea. Un'anima fuggita. Non potevo pretendere di appartenere a qualcosa che non ho reputato abbastanza.
«So che è una domanda banale, soprattutto in un momento come questo, ma... come stai?» mi chiede Shirley.
Scrollo le spalle. «È tutto così... surreale. Non so neanche se sia la parola adatta.»
«Non hai parlato affatto, quando siamo tornati dall'ospedale. Avevi l'aria sconvolta e hai toccato a malapena la cena.»
«Vederla sdraiata in quel letto, pallida e priva di vita... è stato troppo.»
Sollevo le ginocchia, appoggiandole al petto come uno scudo, e circondo le gambe con le braccia per raggomitolarmi su me stessa. Vorrei che il mondo restasse fuori, ma non fa altro che picchiettare le sue dita gelide contro la mia spalla per rammentarmi con dolorosa costanza che Maria potrebbe non farcela.
«Ho paura che se ne vada», mormoro, con le lacrime agli occhi. «Il medico ha detto che non sta reagendo alle cure.»
Shirley rimane in silenzio, a fissarmi con tristezza. Si avvicina a me e mi cinge le spalle, avvicinando il mio capo al suo petto. Mi ritrovo in una posizione scomoda, con i muscoli tesi, ma non mi muovo: non c'è alcuna sofferenza fisica, ora, che possa prostrarmi.
«Non voglio perderla. Non può andarsene. Ama vivere. Trovava il lato positivo di ogni stagione e anche gli avvenimenti negativi, per lei, avevano un aspetto positivo.»
«Dev'essere una persona straordinaria», commenta Shirley, mentre le sue dita scorrono con affetto tra i miei capelli.
«Lo è. Mi ha insegnato tante cose, non solo a cantare.»
Mi ha mostrato scorci esistenziali che altrimenti non avrei scoperto. È stata più di una migliore amica; ha camminato al mio fianco, accompagnandomi lungo la strada impervia della vita: lei alla mia destra e mia madre a sinistra, come due guardiane che mi proteggevano dalla crudezza della realtà.
«Adora la lavanda. Non c'era una sola cosa, a casa sua, che non ne avesse il colore o la fragranza. Penso che andreste d'accordo: le piaceva tanto sorridere e aveva sempre una buona parola per illuminare le mie giornate.»
Una scia calda mi attraversa la guancia: ho ripreso a piangere.
Shirley continua a tacere, come ad invitarmi a parlare e aprire quell'angolo di cuore in cui custodisco i ricordi legati a Maria. Mi tuffo nel passato, insieme a lei, galleggiando tra i momenti che, nonostante il tempo, sono ancora vividi. Rivedo Maria, seduta al pianoforte, mentre conforta le mie paure e tiene a bada i miei demoni; sento la sua voce che con pacata saggezza mi tranquillizza il giorno dell'audizione per l'Accademia; riascolto le sue parole commosse, la sera del mio primo spettacolo.
È come un film che scorre su uno schermo. Ma il finale che avevo in programma allora è ben diverso dal presente: è incerto e non sarò io a scriverlo.
«Rosela», sussurra Shirley, dopo un mio lungo silenzio. Le sue dita stanno ancora pettinando le mie ciocche con una delicatezza quasi materna. «Non so quali siano le parole giuste per una situazione simile. Ho tante domande che, però, non è giusto porti adesso.»
«Immagino cosa tu voglia chiedermi.»
Perché sono scappata. Perché io e mia madre ci parliamo a malapena. Perché la maggior parte delle persone che incontriamo mi guarda con commiserazione.
«Non pretendo risposte. Hai cose più importanti di cui preoccuparti e rispetterò sempre la tua volontà di non parlare del passato. Quello che so è che Maria ti vuole bene. Lo capisco da come ne parli.»
Sollevo la testa, incrociando il suo sguardo carico di affetto.
«Non posso prevedere il futuro, né cambiarlo; però ho una certezza: lei lotterà per vivere. Farà del suo meglio.»
«Mi sento impotente», confesso, con la voce che si spezza.
Shirley mi stringe la mano per infondermi coraggio. «Torna da lei, domani, se te la senti. Parlale. Sentire la tua voce la aiuterà più di quanto tu possa credere.»
• • • • •
«Londra ti piacerebbe molto più di New York. So che ti eri innamorata dei colori di Central Park in autunno, ma ti posso assicurare che anche l'Inghilterra è magica.»
Scruto l'espressione di Maria: le labbra sono una striscia sottile e pallida dalla quale non trasuda alcuna emozione. Le guance cadaveriche hanno perso il colore che le imporporava. Tra le sopracciglia nere noto dei fili bianchi.
Mi mordo il labbro inferiore e respiro per non scoppiare in lacrime. Stringo il bordo del camice che i medici mi hanno fornito all'ingresso del reparto, spendendo tutta me stessa per concentrarmi sul flusso dei miei pensieri ed ignorare il bip insistente. Sentire il battito cardiaco di Maria dovrebbe confortarmi: lei è ancora viva, malgrado l'apparenza; eppure, ascoltare il rumore dei macchinari mi mostra l'altro lato della realtà, che si cela dietro alla speranza.
Maria potrebbe non farcela.
Il dottore, oggi, mi ha confermato quanto aveva già detto ieri. Avrei molti motivi per smettere di credere e rassegnarmi; tuttavia, mi aggrappo allo spiraglio di luce che è riuscito a squarciare la fitta tela di pessimismo.
«Ce la farai, Maria», sussurro. «Devi riuscirci. Abbiamo ancora tante cose da vedere insieme. Verrai a Londra, per assistere allo spettacolo: non puoi perdertelo, ora che mi esibisco in un grande teatro. E poi ti presenterò i miei amici. Loro sono fantastici e ti piaceranno. Ti porterò a Trafalgar Square per guardare Horatio Nelson, e poi sul Westminster Bridge.»
Tra le lacrime, mi sfugge una risata debole.
«Vorrai salire sul London Eye e io urlerò terrorizzata. Tu non temi le altezze. Alla fine, ci salirai da sola, mentre io ti aspetterò seduta al tavolino di un bar, in ansia per te, ma con una brioche ripiena tra le mani per distrarmi.»
Percepisco il vento tra i capelli. Il rumore del Tamigi accarezza il mio udito, cancellando il chiacchiericcio indistinto dei turisti che mi circondano. Il sole è alto nel cielo terso e ceruleo. Londra, di solito grigia e malinconica, è vivace e briosa, e la luce colpisce la struttura metallica della ruota panoramica, costringendomi a stringere le palpebre. La fragranza della brioche mi distrae dal terrore che una delle cabine possa staccarsi e schiantarsi contro il suolo. Se la matematica non fosse mia nemica, calcolerei le probabilità che questo mio pensiero intrusivo possa realizzarsi.
Finalmente, dopo tanta attesa, l'ansia scompare quando nel mio campo visivo metto a fuoco la figura di Maria che mi viene incontro: ride e ha il volto arrossato dalla contentezza. I ciuffi corvini le ricadono sulla fronte, scarmigliati come sempre.
Allarga le braccia...
Mi ridesto dalle mie fantasie.
La stanza d'ospedale, inodore e di un bianco asettico ed anonimo, mi accoglie di nuovo nella realtà. Maria è sempre stesa sul letto, con l'aspetto di un cadavere. Non ci sono voci, né flutti, né risate: solo un silenzio assordante, interrotto dal respiro di Maria e dal bip.
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