Capitolo 27
Il dolore ha un elemento del vuoto
non si può ricordare
quando ebbe inizio, o se ci fu un giorno
che ne fu privo
– Emily Dickinson
Dicono che ci rendiamo conto del valore delle cose quando ormai le abbiamo perse. La consapevolezza di non poterle più recuperare è lo scotto da pagare per l'ingratitudine. A volte, però, non pensiamo alla possibilità che la vita ci strappi ciò a cui teniamo. Abbiamo sempre saputo che fosse importante, ma il tempo è un tiranno che non concede grazie. Non ci avvisa. Non vi sono presagi né indizi. Succede e basta. Bussa alla nostra porta e ci mostra i risultati delle sue decisioni ineluttabili.
Ci inganniamo che tutto duri in eterno, dimenticando di essere soltanto un punto su una retta che non conosce limiti.
Le possibilità non sono confortanti. Si spartiscono il territorio della ragione, dando ciascuna una motivazione per cui sia logico sperare nel bene. Come se bastasse credere che ogni cosa si risolve sempre per il meglio, e che a tutto c'è una spiegazione. Che anche i meccanismi più crudeli ed intricati celano motivazioni che noi umani non possiamo cogliere.
A cosa serve l'illusione?
A nulla. È un semplice mantello che stendiamo sui fatti per dar loro un'apparenza ingannevole, meno dolorosa. Eppure, ci ostiniamo a bramarla, a cercare in lei il conforto che la verità ci nega.
Nell'apatia, riesco a sentire l'insostenibile peso della realtà. È immota, raccolta attorno ad un groviglio confuso di pensieri e ha l'aspetto cupo di una paura che non si affronta mai prima del suo manifestarsi.
Ogni cosa, attorno a me, ha i contorni di un sogno. Galleggio sopra un velo opaco, senza riconoscere i confini sfocati che la vista delinea.
Le lacrime bussano alle mie palpebre, ma si accumulano all'uscita e non trovano un modo per liberarsi.
Sono intrappolata insieme a loro in un limbo di negazione. Sotto ai miei piedi c'è un incubo. Ha afferrato le mie caviglie per trascinarmi giù. Resto aggrappata alla luce, perché precipitare lentamente fa più male e all'agonia preferisco il dolore subitaneo dello schianto.
• • • • •
Apro gli occhi. Un rumore sordo mi ronza nelle orecchie, ma presto svanisce sotto ad uno strato di brusio indistinto.
«Ehi.»
Mi volto, con la vista ancora appannata dal sonno. Metto a fuoco il viso di Rhys.
«Ti eri addormentata.»
«Dove siamo?»
«In aereo. Ricordi?»
Mi metto composta e mi guardo attorno, ancora spaesata. Siamo seduti nei posti centrali e attorno a noi i sedili sono occupati da altre persone. Alla mia destra ci sono Jason e Shirley, entrambi assopiti.
Lo sguardo si posa sulla mia mano: Rhys la sta stringendo.
Mi torna alla mente ogni cosa: la chiamata di mia madre, poi un lungo vuoto; mi rivedo a casa, da Shirley, che lesta si è proposta di accompagnarmi in Italia insieme a suo cugino e Jason. Ha preparato lei i miei bagagli. Non ho controbattuto quando hanno usato il mio telefono per mettersi d'accordo con mia madre e hanno acquistato i biglietti per un volo last-minute. Non riuscivo nemmeno ad avere paura dell'altezza: sentivo solo gelo.
«Eri tranquilla, prima di salire sull'aereo», racconta Rhys. «Poi, appena siamo decollati, sei sbiancata e hai iniziato a piangere fino ad addormentarti.»
Continuo a fissare le nostre mani intrecciate. «Cosa dirai al lavoro?»
«Ho chiamato e avvisato per entrambi. Non ti preoccupare.»
Mi giro, incontrando il cielo fuori dal finestrino. Lo stomaco precipita e un forte senso di nausea mi pizzica la gola.
«Rossella, guarda me», mi intima Rhys. Con i pollici disegna dei cerchi sul mio palmo. «Parlami.»
«Non so se ne ho le forze», mormoro, chiudendo gli occhi.
Mi abbandono all'ondata di angoscia che mi travolge. Le lacrime seguitano a pungermi le palpebre, eppure una forza incontrollabile le trattiene.
«Almeno non pensi a dove sei.»
«Vorrei poter urlare, Rhys», sussurro. «Maria...»
Il cuore si accartoccia.
«Parlami di lei.»
• • • • •
Varco la soglia della casa con il timore che accompagna un rito di iniziazione. Mi guardo attorno, intimidita eppure affascinata da ciò che la mia vista cattura.
«Benvenuta, cara. Dammi la giacca.»
Il volto affabile di Maria è ingentilito da un sorriso amorevole. I capelli corti e sbarazzini sono fermati, ai lati, da due mollette di un rosso vivace.
«Accomodati.»
Mi accompagna nel salotto, le cui pareti sono tappezzate di un caldo color crema. Libri e spartiti sono stipati in una libreria, mentre al centro troneggia un pianoforte a coda. Una luce tenue filtra dalle imposte, celate da delle tende lilla.
L'eleganza dell'ambiente, anziché mettermi in soggezione, pare accogliermi con premura, trascinandomi nel mondo di Maria.
Inspiro l'aria, inebriata da un delicato profumo.
«Ti dà fastidio la lavanda?» mi chiede.
Scuoto il capo. «Mi piace questa fragranza.»
«Ne sono felice. Andremo d'accordo, io e te: per me, le candele alla lavanda sono irrinunciabili.»
Resto in piedi, accanto alla porta, osservando il mobilio e rivolgendo un'occhiata fugace a Maria, che si è già seduta davanti al piano. Solleva il capo e sorride cordiale, facendomi cenno di avvicinarmi.
«Tua madre mi ha già raccontato alcune cose, ma ho voglia di conoscerti meglio. Siediti pure sul divano.»
«È vero che ti sei esibita al Metropolitan?» domando, rammentando le parole di mia madre.
Lei annuisce. «Non come solista, ma avevo ottenuto un buon ruolo ne Il Barbiere di Siviglia. Ho lavorato per cinque anni negli Stati Uniti, ma l'Italia mi mancava troppo per restare là.»
«New York deve essere meravigliosa...»
Maria sorride. «Lo è. Tu sogni Broadway, non è vero?»
«Immagino spesso di calcare la scena di uno di quei teatri; ma, come dici tu, forse è solo un sogno.»
«L'uomo li ha inventati apposta per realizzarli, Rossella. Scommetto che hai le capacità per riuscirci.»
«A volte penso che sia meglio tenere i piedi ben piantati a terra e non azzardare troppo.»
«Hai quindici anni, è giusto sognare. Anzi: sarebbe strano se perdessi le speranze. Nutrile con passione, dolcezza, impegno e, se hai davvero talento, i tuoi sforzi verranno ripagati.»
Con un cenno, mi invita a raggiungerla al piano. Mi siedo accanto a lei.
«Ricorda di osare sempre. Ci vuole un pizzico di sana follia», stringe la mia mano con affetto. «Hai tutta la vita davanti per costruire qualcosa di grande. Ora stai iniziando a porre le fondamenta. Lascia da parte la disillusione e il pessimismo: non ti servono e fanno male alla struttura.»
«Grazie, Maria.»
«Che ne dici di cantare qualcosa? Voglio proprio sentire la tua voce, così sapremo su cosa lavorare.»
Scegliamo alcuni brani di generi differenti, e mentre lei suona la base al piano, io mi lascio andare: non mi sento giudicata e non ho paura di commettere errori.
Sorrido a Maria, che mi rivolge occhiate di incoraggiamento. Esploro territori ignoti, permettendo alla mia voce di conoscere se stessa e di raggiungere vette che prima mi sembravano impervie ed impossibili da scalare.
«Hai talento, ma immagino che tu sappia che non basta per arrivare lontano», afferma dopo l'ultima canzone.
«Sono pronta ad imparare. Non vedo l'ora.»
«Lo so. Te lo leggo negli occhi. Sai cos'altro vedo?» mi chiede. «Una fame da lupi.»
«Fame?» domando perplessa.
«Sì. Tu vuoi stare su un palco e vuoi cantare. Non perdere questo fuoco che hai dentro, ma ricorda che le fiamme devono essere gestite.»
Si alza in piedi e prende una candela da una scatola, recuperando dei fiammiferi per accenderla.
«Altri ti direbbero che non devi permettere a nessuno di spegnere il fuoco che hai dentro, ed è vero», prosegue. «Se questa candela cadesse, che cosa accadrebbe?»
Sbigottita dalla sua domanda, rimango per qualche istante in silenzio. «Il pavimento... prenderebbe fuoco», rispondo alla fine.
«Esatto. Divamperebbe un incendio.»
Maria posa la candela sul tavolino, accanto alle altre.
«Non capisco», confesso.
Maria torna a guardarmi. «Guida la tua fame, il tuo desiderio, la tua passione. Alimenta il tuo fuoco, ma non permettere alla brama di successo di rovinarti. Una volta che un incendio simile divampa, spegnerlo è pressoché impossibile. E anche quando ci si riesce, i danni sono incalcolabili.»
La fisso a lungo, mentre le sue parole sedimentano in me.
«Maria: voglio porre le fondamenta del mio palazzo di sogni con te.»
• • • • •
Scendo dall'autobus come una scheggia, percorrendo la strada con passi svelti. Giungo dinanzi al portone d'ingresso della casa di Maria, con il fiato corto e le gambe doloranti per la corsa. Suono il campanello e, dopo una breve attesa, lei compare sulla soglia.
«Santo cielo, Rossella! Che succede?»
«Ho una notizia da darti!»
Si scosta per farmi entrare e chiude la porta alle nostre spalle. «Respira, però, altrimenti parlare ti sarà difficile. Ti prendo un bicchiere d'acqua.»
Afferro il suo braccio prima che si possa dirigere in cucina, trattenendola all'ingresso. «Maria, non riesco a crederci.»
«A cosa?»
«Non ci crederai nemmeno tu.»
«Non posso dirtelo, finché non parli.»
«Maria», stringo le sue mani tra le mie, «ho superato l'audizione. Mi è arrivata la comunicazione poco fa.»
Ci fissiamo a lungo negli occhi, in silenzio.
«Tu...» mormora.
«Ce l'ho fatta. Ce l'abbiamo fatta!»
Emette un gridolino eccitato, al quale mi unisco. Mi stringe a sé, pronunciando frasi sconnesse tra i miei capelli e dondolando da una gamba all'altra ad un ritmo che ci fa barcollare, tanto che rischiamo di cadere.
«Maria, sono stata ammessa all'Accademia!» esclamo, per convincere me stessa: la realtà ha le sembianze di un sogno, e ripetere le stesse parole scansa la paura che io possa destarmi e porre fine a questa magia.
«Lo sapevo che ci saresti riuscita», sussurra commossa, prendendo il mio volto tra le sue mani e rivolgendomi quell'occhiata d'affetto quasi materno che ormai mi è familiare.
«Non sarebbe stato possibile, senza il tuo aiuto. Preparare quest'audizione con te è stato un privilegio.»
«Oh, suvvia: sai che non c'è alcuna necessità di adularmi!»
La stringo di nuovo in un abbraccio. «Dico solo la verità.»
«E tua madre? Cosa dice?»
«L'abbiamo scoperto insieme. Abbiamo anche deciso di andare a festeggiare con una pizza. Vuoi unirti a noi?»
«È giusto che tu condivida questo momento con lei.»
Scuoto il capo, risoluta. «Mi ha raccomandato di non desistere: hai l'obbligo di venire con noi.»
Scoppia a ridere. «Va bene, grazie per l'invito.»
«Non riesco a capacitarmene: studierò all'Accademia!» ribadisco, ancora troppo incredula per accettare questa notizia. Ho sperato per settimane, in trepidante attesa e preda dell'angoscia di aver fallito.
Maria mi accarezza la guancia, con gli occhi colmi d'orgoglio. «È un traguardo meritato. Imparerai tante cose.»
«Pensi che sarò all'altezza?»
«Quando porterai le insicurezze in un viaggio di sola andata alla discarica?» mi rimprovera con un cipiglio severo che scompare poco dopo, sostituito da uno sguardo affettuoso. «Puoi fare qualunque cosa, Rossella. L'importante è che tu ci creda fino in fondo.»
«Ti voglio bene, Maria.»
• • • • •
«Non ti piace questa nuova tisana?»
Mi riscuoto dai miei pensieri, accorgendomi che Maria mi sta fissando con contrarietà. «Cosa?»
Scuote il capo. «Non mi stavi ascoltando.»
«No, io...»
«Non c'è bisogno che tu menta: ti conosco troppo bene.»
Scrollo le spalle con afflizione. «Hai ragione, perdonami.»
Beve un altro sorso di tisana, socchiudendo gli occhi, per poi riprendere a scrutarmi. «Qualcosa non va?»
«È tutto apposto.»
«Problemi in Accademia?»
«No, va splendidamente.»
«Con tua madre?»
«Affatto.»
O forse, raccontarle menzogne poco verosimili ma a cui lei crede senza ombra di dubbio costituisce un problema?
«Allora perché sei così pensierosa?»
«Non lo so...»
Conosco la risposta, ma pronunciare ad alta voce i miei dilemmi concretizzerebbe il rimorso latente che cresce dentro il mio cuore.
«Sai che puoi dirmi ogni cosa», mi rassicura Maria, con un tono confortante che, in passato, avrebbe abbattuto la mia più salda reticenza; ora, però, i suoi tentativi sono vani: vorrei poter gridare al mondo che ho toccato con mano la felicità, ghermendo la sua natura sfuggente, ma il prezzo da pagare è il mio silenzio.
Amarci nell'ombra, come criminali. E forse lo siamo, io e Flavio: due incoscienti, peccatori senz'anima, destinati alla clandestinità perché anche la luce avrebbe ribrezzo della nostra coscienza macchiata da un amore adultero.
«Non c'è niente da raccontare», liquido il discorso, bevendo un sorso di tisana per nascondere il volto dietro alla tazza.
Sul viso di Maria, tuttavia, non scompare l'interrogativo al quale non ho risposto, né la sincera preoccupazione cede il posto alla rassegnazione.
Sa che non parlerò, ma è testarda.
E mi vuole bene, sogghigna il tarlo, crudele e senza scrupoli. Come se non avesse già alimentato mille rimorsi, cibandosi di ogni grammo di gioia: avido, affamato, ma assennato e conscio della mia follia
«Sembri diversa, Rossella», constata Maria ad un tratto, senza spostare lo sguardo dal mio volto. «Vedo nei tuoi occhi una scintilla che prima non c'era.»
Mi lascio scappare una risatina nervosa, scuotendo una mano come a voler scansare la sua curiosità materna. «Nei miei occhi hai sempre visto tante cose.»
«È vero. Forse perché sono la via privilegiata dell'anima.»
«Va tutto bene», ripeto con quanta più fermezza possibile. «Non ti devi preoccupare.»
Sospira. «È più forte di me, lo sai. Lasciami dire un'ultima cosa, prima di parlare d'altro: se ho riconosciuto quel bagliore – gioia, ne sono certa – ebbene, credo che non si accompagni alla preoccupazione che sembra turbarti.»
«Non sono turbata», replico, ma troppo in fretta.
«Forse», è la sua risposta sibillina.
Mi stringo nelle spalle, quasi a voler nascondere ulteriormente la verità. «Tu mi vuoi bene, non è vero?»
Trasecola, ma si riprende subito, riservandomi uno dei suoi soliti sorrisi affettuosi. «Certo, Rossella», poi, come se avesse letto nella mia anima il dubbio che mi dilania, aggiunge: «Qualunque cosa succeda, questo non cambierà: ti vorrò sempre bene.»
Me ne vorresti ancora, se sapessi che amo un uomo sposato? Se conoscessi i pensieri che mi tengono sveglia ogni notte? Se percepissi il desiderio che ho di lui?
Magari sì. Perché sei buona. Perché vedi in me la luce che l'ombra ha oscurato.
«Grazie, Maria.»
• • • • •
Dopo lo scalo e il breve viaggio in treno, raggiungiamo la stazione della città. Il tempo sembra essersi cristallizzato in un oblio di cui ho ricordi confusi. Mi muovo come un automa, spingendo il mio corpo ad avanzare malgrado l'apatia che dilaga nel mio animo. Scanso le emozioni in una corsa ad ostacoli per non crollare.
Osservo le persone che si affollano sulla pedana accanto ai binari, alla ricerca della chioma bionda di mia madre. Alcuni passeggeri svaniscono nel sottopassaggio, lasciando libera la mia visuale. Mi soffermo su una figura familiare. Si gira e, per un attimo, mille sensazioni si affollano nel mio cuore, rompendo il ghiaccio nel quale le avevo imprigionate.
Non è cambiata. È sempre lei, la mia mamma: bella come una principessa, con lo sguardo coraggiosamente gentile per celare la tristezza. I capelli sembrano non essere cresciuti e sono ancora attraversati da riflessi dorati come il grano.
Vorrei che sorridessi, mamma. Io sono qui, sono tornata. Dovremmo gioire, abbracciarci, piangere insieme per la commozione. Ma non accadrà: come seppellire anni di menzogne, le ferite della delusione e una fuga durata tanto a lungo?
Vorrei ridere come un tempo, mamma; ridere fino alle lacrime, con una leggerezza tanto lieve che ci pareva di volare sopra le difficoltà.
La raggiungo, fermandomi a qualche passo di distanza da lei. Combatto contro il desiderio dirompente di allungare le braccia per stringermi al suo petto, dove ho sempre trovato conforto. Avrei bisogno delle sue carezze e delle parole che, ogni volta, lenivano le ferite.
Ci fissiamo a lungo, senza parlare.
Anche tu non sai che fare, che dire; non è vero, mamma?
Immaginavo un incontro diverso. C'erano notti in cui mi chiedevo se sarebbe mai stato possibile chiarire e ricostruire quella frattura che ci aveva divise. Quando mi azzardavo a crederci, sognavo di ritrovarla in altro modo: le avrei parlato, rinunciando alle bugie, mettendo a nudo i sensi di colpa senza alcuna giustificazione a proteggermi.
Invece, siamo ancora due persone che si scrutano come estranee, atterrite dal peso di un destino crudele.
«Rossella», sussurra debolmente.
«Mamma», la mia voce trema, schiacciata dal fardello delle parole non dette.
Forse anche tu desideri abbracciarmi; ma tra di noi ci sono troppe questioni ad ostacolarci.
Mia madre solleva la mano con esitazione, ma la ritrae in fretta. «La macchina è nel parcheggio.»
«Seguitemi», intimo a Rhys, Shirley e Jason.
Ci incamminiamo fuori dalla stazione, con il rumore delle ruote dei nostri trolley che sovrasta il fragore di un silenzio carico di tensione. Mia madre non fa domande, né i miei accompagnatori osano parlare.
Raggiungiamo l'auto, dove carichiamo i bagagli. Mi siedo davanti, accanto a mia madre, mentre gli altri prendono posto dietro.
Partiamo, ciascuno chiuso nel proprio mutismo. Osservo le case che si profilano fuori dal finestrino e l'edificio della stazione che svanisce dalla mia vista. La vita che ho sempre conosciuto riemerge dall'oblio in cui l'avevo sepolta. Riconosco i muri, le finestre, le porte, le vetrine dei negozi, le strade, i marciapiedi; persino le persone hanno tratti familiari.
Sono in Italia.
Dopo un anno di lontananza, l'esule è tornata. Fuggita dalle malelingue e dal peccato. Accolta dal dolore.
«Prima di vederla, vi porto a casa», comunica freddamente mia madre, senza distogliere gli occhi dalla strada.
Non controbatto, troppo stanca per affrontare un diverbio sterile proprio ora: non so se sono pronta per ritornare al paese e rimettere piede nella mia stanza.
La vettura procede e ci lasciamo la città alle spalle. Mentre saliamo, diretti al paese, rivolgo uno sguardo ai pini marittimi che lentamente diradano, rivelando la distesa che si stende fino all'orizzonte.
Alla vista del mare, il mio cuore ha un tuffo. Il mio sguardo si perde tra le onde, che si rincorrono fino a raggiungere la spiaggia. Scosse dal vento, si ingrossano come giganti grigi, furiosi e imperanti. Le ali bianche dei gabbiani che si librano in volo si stagliano contro il cielo livido. I loro garriti sono grida strozzate che si disperdono nell'aria.
Nulla è cambiato. L'aspetto di questo posto è rimasto immutato, tanto che ho la sensazione di non essermene mai andata via.
Mi nutro dei minimi dettagli, in astinenza da questo spettacolo che in passato era per me la quotidianità. Da bambina credevo che sarei vissuta per sempre qui, a pochi passi dal mio mare. Che motivo avrei mai avuto per andarmene via?
Imbocchiamo la strada principale del paese, mentre la mia mente intraprende il suo viaggio nel tempo. Prendo un respiro profondo: le vie sono deserte, ma un insistente batticuore mi ricorda che gli occhi, qui, sono ovunque.
Diranno che sono tornata. E parleranno del passato.
Chino il capo in avanti, per nascondere il volto. Perché gli occhi sono sempre all'erta e notano tutto.
Mia madre posteggia davanti al cancello d'ingresso, oltre al quale c'è casa nostra. Mi soffermo sulla finestra della mia stanza. Le persiane sono chiuse e mi chiedo se mia madre le abbia mai aperte, da quando me ne sono andata.
Scendiamo dalla macchina per scaricare i bagagli.
Varcata la soglia di casa, una valanga di ricordi mi travolge. I frammenti del passato si sovrappongono agli oggetti: le scale da cui sono caduta a quattro anni; il tavolino su cui la posta si accumulava; l'arcata all'ingresso del salotto che cercavo di raggiungere allungando le braccia, chiedendomi perché la genetica mi avesse privato dell'altezza; la porta del ripostiglio in fondo al corridoio, cimitero di chincaglierie che io e mia madre stipavamo in quello stanzino pur di non buttarle, convinte che un giorno avrebbero avuto una seconda vita.
«C'è un bagno a sinistra e anche al piano di sopra. Se volete qualcosa da bere prima di andare, la cucina è oltre il salotto. Attenti al gradino», annuncia mia madre.
«Non capiscono l'italiano», puntualizzo.
Emette un sospiro imbarazzato. «Hai ragione...»
«Loro sono Shirley, Jason e Rhys», li presento. «She's my mother.»
Stringe le loro mani, studiandoli a lungo.
«Sono miei amici. Mi hanno accompagnata per non lasciarmi sola.»
Lei non commenta, ma noto un tremito sulle sue labbra. «Tu e... Shirley, giusto? Voi dormirete nella tua camera. I due ragazzi si possono sistemare nella stanza degli ospiti.»
«Non importa, possiamo andare altrove.»
«Ho già preparato i letti», dichiara, senza lasciarmi altra via di scampo.
Annuisco e poi traduco per gli altri.
«Faremo in fretta», mi rassicura Shirley, abbracciandomi prima di sparire in bagno.
«Immaginavo che volessi andare subito da lei, nonostante la stanchezza», constata mia madre. Rimane immobile, dall'altra parte del corridoio. Ci scambiamo uno sguardo carico di tante emozioni e parole, ma si perdono a metà strada. «Mangia qualcosa, prima di uscire.»
«Non ho fame.»
Indugia. Sposta l'equilibrio da una gamba all'altra: è agitata. «Nella mia borsa ci sono degli snack, se dovessi cambiare idea.»
Stringo i pugni nelle tasche del cappotto. Certe cose non cambiano e ciò dovrebbe placare le mie ansie, ma la paura si sta ridestando dal suo sonno.
Rhys, Jason e Shirley tornano. Mia madre rivolge loro un'occhiata per poi riprendere a guardare me. «Sei pronta?» mi chiede, con tono esitante.
No. «Andiamo.»
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