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Capitolo 26

Tra il clamore della folla ce ne
stiamo io e te, felici di essere
insieme, parlando senza dire
nemmeno una parola
– Walt Whitman




Le luci si abbassano. I respiri degli spettatori restano sospesi nell'oscurità, in attesa di udire l'orchestra suonare il prologo.

«Sei pronta?» mi chiede Rhys in un sussurro. È seduto accanto a me e, nell'ombra della platea, colgo il suo sorriso elettrizzato.

«Non lo so. È la prima volta che lo vedo dal vivo.»

Le dita tremano per l'euforia e le tamburello sul braccio della poltrona per stemprare l'ansia e l'entusiasmo, mentre fisso il palco ancora vuoto. Dopo anni in cui ho potuto ammirarlo soltanto attraverso uno schermo, trovarmi qui è tanto surreale quanto esaltante. Ho l'impressione che non sia vero: forse è solo un sogno sul punto di terminare con un brusco risveglio.

«Anch'io mi sentivo così», mi rassicura. «Preparati ad un'esperienza irripetibile.»

Una voce maschile annuncia che lo spettacolo sta per iniziare, interrompendo il brusio; poi, dal silenzio emergono le prime note del prologo e, nell'ombra, le luci scolpiscono le figure degli attori che si stagliano contro lo sfondo buio.

La mia pelle viene percorsa dai brividi e trattengo il fiato, con gli occhi che percorrono voraci ogni dettaglio per fissarlo nella memoria.

I prigionieri condannati al bagno penale, dimenticati da tutti e dalla Provvidenza, implorano pietà. Tra i tanti schiavi della legge vi è Jean Valjean, il condannato 24601.

Un numero: ecco ciò che Valjean è agli occhi dell'ispettore Javert. Non ha altra identità: è un condannato che ha rubato per sfamare il nipote morente e ha cercato di fuggire dagli orrori della sua pena, protraendo a diciannove anni la sua schiavitù.

Ad ogni azione corrisponde una reazione.

La disperazione chiama a sé altro dolore. Per quanto necessaria, una sconsideratezza può solo sconvolgere la vita, e Jean Valjean lo sa bene: non aveva altra strada da imboccare, e questa lo ha condotto all'unica destinazione possibile.

È proprio quando si ignorano le conseguenze che queste ti travolgono con un impeto distruttivo.

Eppure, una luce si fa strada nel tetro inferno della sua condanna: la libertà.

Libertà... sì, ma a che prezzo? Ha con sé un foglio giallo che mostra a tutti quello che è stato. Ciò che sarà sempre per chi crede che un errore sia irreparabile e che il destino di un peccatore sia incontrovertibile.

Valjean è il risultato di quella singola azione disperata che lo ha privato del futuro, scrivendo per lui l'intero decorso della sua vita. Non c'è niente che possa fare per combattere i pregiudizi. È un ladro, l'ha affermato lo stesso Javert. Un atto di necessità – l'unica alternativa che gli restava – ha mutato la sua identità di uomo.

Jean Valjean non crede più a nulla, perché niente lo ha soccorso e, anche adesso che è libero, incontra solo porte chiuse e diffidenza. Non è un uomo rispettabile. Non merita ciò che spetta ai figli della rettitudine, e alla fine l'idea di essere un ladro si radica in lui.

Che senso ha, per lui, sforzarsi d'essere onesto, se tanto nessuno crede nella redenzione? Per quale ragione dovrebbe combattere per un futuro, se la gente scorge solo lo scorcio del momento più buio del suo passato?

Jean Valjean si lascia accecare dal risentimento e dallo stesso odio che gli altri gli riversano addosso. Ormai anche la libertà ha l'aspetto di una prigione. Credeva di aver spezzato le sue catene, ma queste lo tengono ancorato ad una vita di stenti e afflizione.

Poi, una mano si allunga e lo raccoglie da terra: il Vescovo di Digne gli offre la sua ospitalità e la sua carità, perché quel poco che si possiede va condiviso con coloro che la fortuna ha disertato. Tuttavia, chi ha percorso la diffidenza ed è stato contagiato dai pregiudizi non può riconoscere il bene. Valjean scambia la generosità del Vescovo per ingenuità e, nella notte, fugge e porta via con sé dell'argento.

Lo arrestano. È un recidivo; ma il Vescovo ha visto una piccola scintilla nel suo cuore: la fiamma della redenzione. Debole, prossima a spegnersi, ma ancora presente. Gli tende la sua mano, di nuovo, con la bontà di chi riesce a discernere l'animo umano dietro alla maschera di sbagli.

È strano; non trovi anche tu, Valjean? Il mondo intero ti condanna e trasfigura un errore in essenza, eppure qualcuno ti salva lo stesso, perché lo ritiene possibile.

Le lacrime mi pungolano le palpebre, mentre l'attore che interpreta Valjean viene inghiottito dall'oscurità.

Sul palco salgono le donne che lavorano per Monsieur Madeleine. Tra di loro, c'è la sventurata Fantine, che nel cuore ha nutrito un sogno e l'ha visto collidere con la realtà. Aveva le mani colme di speranza, ma la vita l'ha fatta inciampare nelle macerie di un futuro inesistente, che la sua fantasia aveva edificato sulle fragili fondamenta del primo amore.

La gioventù eccitante che prometteva un avvenire brillante le è stata strappata di dosso. Eppure, nonostante la paura e le responsabilità che ha verso quella bambina senza padre, Fantine serba il suo sogno: che lui, l'uomo che ha amato, torni da lei, per vivere insieme il resto di una vita incantevole.

Ma non c'è magia, né bellezza, né fortuna nella sua esistenza tragica: solo sacrificio, per il bene della sua bimba. E, lentamente, per la sua piccola Cosette, precipita in una spirale che ha le fattezze dell'inferno e non somiglia ai palazzi di chimere che in passato bramava per sé.

Ma lui, quel primo amore vissuto con ardore e ingenuità... lui resta un sogno lontano, straordinario, anche se confina con un incubo. Non è vero, Fantine? Perché, malgrado il dolore, le emozioni provate si sono cristallizate in un ricordo di felicità a cui aggrapparsi quando anche respirare sembra impossibile.

Una lacrima sfugge dal mio controllo e scivola lungo la guancia. La pena di Fantine si contorce nel mio cuore, con la voce dell'attrice che fa vibrare le corde del passato.

Mi volto di scatto, con la mano solleticata da un contatto inaspettato: Rhys sta sfiorando la mia pelle. Nei suoi occhi scorgo un curioso bagliore, a cui non ho il tempo di dare peso: la scena successiva dello spettacolo cattura la mia attenzione.

Seguo rapita le vicende dei personaggi, commuovendomi per la morte di Fantine e per il coraggio di Valjean, che rinuncia alla sicurezza guadagnata sotto falso nome per salvare un uomo innocente. Soffro insieme a Cosette, minuta come uno scricciolo, ma con il cuore appesantito dalle privazioni e dai maltrattamenti che subisce, finché non viene salvata da Jean Valjean.

Ma anche Cosette cresce e diventa una giovane donna. Quando vede l'affascinante Marius per la prima volta, ha l'impressione che la sua vita sia iniziata nell'istante in cui i loro sguardi si sono incontrati, incatenando le loro anime per sempre.

Lei, così ingenua e mesta, ha varcato le soglie del primo amore. Le pare singolare che questo possa nascere tanto in fretta. Eppure, eccolo lì, nel suo cuore: palpita, la fa arrossire, la tiene appesa ad un filo di eccitante frenesia. Per la prima volta sperimenta una felicità ineccepibile, che a lungo le è parsa troppo distante perché potesse afferrarla.

Persi nelle loro acerbe emozioni e ritrovati nei loro giovani sentimenti, Marius e Cosette si sfiorano senza paura, avvolti dalla luce di un sogno ad occhi aperti. I baci che si scambiano hanno il sapore di una promessa: un futuro radioso, dopo anni di speranze.

Dolce Cosette... il primo amore ti abbraccia con dolcezza, e tu lasci che ti stringa e sussurri melodie che hai taciuto nel silenzio delle notti più cupe. Ti trascina in una danza di cui non conoscevi i passi; ma tu, Cosette, balli, felice come non mai, ebbra di spensieratezza.

E per ogni persona che gioisce, ce n'è una che custodisce nel cuore il proprio dolore. Per ogni innamorato che brama la luce, c'è qualcuno che attende le tenebre, per nascondere i sogni sbagliati che di giorno sono destinati a sciogliersi come cera.

Per ogni anima che si è incastrata al suo frammento complementare, ce n'è una destinata a vivere la felicità soltanto tra i fragili edifici della fantasia.

Éponine è sola. Nessuno la salva dal degrado e da se stessa. Nessuno le tende la mano. Nessuno la ama davvero, intensamente.

Lei pensa a Marius, che ha già donato il suo cuore a Cosette. A Éponine non resta che l'illusione di poterlo avere accanto. Immagina la sua vita con lui, i suoi abbracci, le sue carezze, le sue parole... ma è tutto vano, falso: lui non è al suo fianco e non può darle ciò che lei desidera.

Éponine non cessa di sperare che, in fondo, il futuro abbia in serbo per loro una possibilità: l'amore rende ciechi, e i suoi occhi non vedono le porte chiuse del destino. La vita di Marius prosegue anche senza di lei, che lo ama nel silenzio, senza fare rumore, all'ombra della felicità che le è stata negata.

Triste Éponine... non tutti gli amori hanno un lieto fine. Alcuni nascono e sono sordi a qualunque avvertimento: la fiamma arde, ignara del male che ne verrà. Nemmeno il gelo spegne le scintille di una speranza tanto sincera quanto deleteria. E tu, Éponine, combatteresti per Marius e per l'amore che ti lega a lui fino alla fine...

Fino alla morte.

Trattengo un singhiozzo, commossa.

La mano di Rhys stringe la mia. Ci scambiamo un rapido sguardo, con i suoi occhi che trasudano malinconia, i miei sofferenza. Le sue dita si attorcigliano alle mie e i nostri palmi aderiscono perfettamente, salvandomi da una rovinosa caduta nel passato.

Sul palco vengono erette le barricate, maestose ed imponenti, su cui i giovani speranzosi perdono la vita in nome della libertà. Quando penso di non avere più lacrime da versare, Marius e Cosette, ormai sposati, corrono da Valjean, morente. Cosette e il suo padre adottivo si salutano, mentre lo spirito di Fantine prende le mani dell'uomo che ha salvato la sua bambina da un triste destino.

Le note dell'epilogo accompagnano i miei singhiozzi. La mano di Rhys stringe ancora la mia quando gli attori si allineano sul palco per ricevere gli omaggi del pubblico.

«Rossella, tutto bene?» mi domanda preoccupato.

Annuisco, tamponando le guance con un fazzoletto. «Sì. È stato meraviglioso.»

Sorride, lasciando la mia mano per unirsi agli applausi degli altri spettatori.

Fisso il palco, distinguendo gli attori attraverso le lacrime. Per un attimo, immagino di trovarmi al loro fianco, e affondo nelle mie fantasie adolescenziali che tante volte mi hanno vista calcare la scena del Sondheim.

• • • • •

«Sei sicura di stare bene?»

«Sono solo molto emozionata. Lo spettacolo è stato straordinario. La prima volta in un teatro come questo...» sollevo lo sguardo per osservare l'edificio che ci stiamo lasciando alla spalle.

«Lo so, non si scorda», conferma Rhys, stringendo il mio braccio per condurmi sull'altro lato della strada.

«Grazie. È il più bel regalo che abbia ricevuto.»

«Addirittura? Così mi lusinghi», bofonchia, arrossendo.

«Sono seria. Vedere gli spettacoli su uno schermo, in una qualità pessima, non è un'esperienza comparabile a quella vissuta oggi. Ti sono davvero grata.»

«Suvvia, adesso basta con i ringraziamenti», replica, sempre più imbarazzato: si gratta la testa, con gli occhi rivolti al marciapiede.

«Il tuo ego non aveva bisogno di lusinghe?» lo prendo in giro.

Mi lancia uno sguardo di scherno. «Se non la smetti di punzecchiarmi, non ti porterò in un posto fantastico che sono certo ti piacerà.»

Scatto all'istante, afferrando la sua giacca. «Dove si trova?»

«Prima devi giurare solennemente di comportarti bene.»

Metto il broncio. «Non posso fare una promessa che non manterrò.»

Rhys scuote il capo, ridendo a fior di labbra. «Andiamo, bambina pestifera. Mangiamo qualcosa e dopo deciderò se portarti in quel luogo...» afferma sibillino.

«Sei insopportabile

«Qualunque cosa tu abbia detto, devi riconoscermi il merito del tuo sorriso: ora non stai più piangendo.»

«La tristezza che provavo prima non era sbagliata: ero distrutta dal finale, ma felice perché ho assistito ad uno dei miei musical preferiti. Peccato per una cosa...»

«Per cosa?»

«La compagnia», rispondo, fingendomi rammaricata. «Avrei fatto meglio ad invitare qualcun altro.»

Rhys spalanca la bocca, incredulo. «Menomale che nutrivi per me una profonda gratitudine!» mi trascina a sé, facendomi scoppiare in una risata, mentre mi solletica i polsi e il collo. «Serpe che non sei altro. Le possibilità che ti porti in quel posto diminuiscono!»

«So sempre come farmi perdonare, Rhys Aodhán Monroe.»

Mi porge il suo braccio, scuotendo il capo, e ci incamminiamo lungo Shaftesbury Avenue. Sopra le nostre teste campeggiano ancora le decorazioni natalizie, luminose e brillanti contro il cielo grigio. Gli splendidi angeli, con le loro ali maestose, sembrano vegliare sui passanti.

«Dove si trova il luogo di cui parli?»

«È un segreto.»

«Tu stai giocando con la mia curiosità. È pericoloso, rammentalo.»

«Lo faccio apposta. Mi diverto parecchio a procurarti almeno la metà del fastidio che tu dai a me, aingeal milis

Lo fisso, esasperata. «Perché continui ad usare queste parole senza senso?»

Solleva le spalle, arricciando le labbra per soffocare una risata. «Mi piace irritarti, forse.»

«Avrò la mia vendetta, ci puoi giurare.»

Raggiungiamo un locale dagli esterni eleganti. La sala è rustica e confortevole, ricca di addobbi e lucine. Seguo Rhys ad un tavolino accanto alla vetrata che dà sulla strada e ci accomodiamo.

«Ti consiglio di ordinare la cioccolata calda. È deliziosa.»

Ascolto il suggerimento di Rhys. Il cameriere appunta le nostre richieste e torna dopo qualche minuto con delle tazze fumanti e colme di cioccolata, accompagnate da un vassoio di pasticcini di varie forme e gusti.

«Potrei abituarmi alla tua cortesia, fa' attenzione», redarguisco Rhys, addentando uno dei pasticcini al caffè.

«Ho scoperto che, dandoti da mangiare, stai buona per un po'», sorride serafico. «E poi...» si schiarisce la gola e punta gli occhi sulla strada. Lo imito. «Non mi dispiace passare del tempo con te.»

Mi giro per guardarlo, ma lui sta ancora fissando i passanti fuori dal locale. «Davvero?» gli domando.

Torna a scrutarmi e annuisce.

Ora sono io ad arrossire, sorpresa per questa confessione inaspettata. Fisso gli occhi sulla tazza di cioccolata, evitando di incrociare lo sguardo di Rhys.

«Les Misérables è stato il primo spettacolo che hai visto dal vivo?» mi chiede ad un tratto.

Tolta dall'impaccio, sollevo il capo. «No. Quando avevo dieci anni, mia madre mi portò al teatro della nostra cittadina per assistere ad un allestimento amatoriale de La Bella e la Bestia», ripercorro le emozioni vissute allora: il mio sguardo era ammaliato dagli splendidi costumi e dagli effetti speciali che a me parevano magia. «Crescendo, ho visto altri spettacoli, ma per lo più prosa.»

«E cosa ti ha fatto appassionare ai musical?»

Sorseggio la cioccolata, mentre i ricordi felici mi avvolgono in un abbraccio caloroso. «Ero piccola e alla televisione trasmettevano Sette Spose per Sette Fratelli. Me ne sono innamorata. Pensa che avevo imparato a memoria le canzoni, anche se in un inglese parecchio improvvisato.»

Dalle labbra di Rhys sfugge una risata leggera. «Riesco ad immaginarti.»

«A quel punto, mia madre decise di iscrivermi ad un corso di danza. Ero abbastanza portata e mi piaceva indossare scarpette e tutù. Durante l'adolescenza ho iniziato a seguire lezioni di canto e alcuni corsi di recitazione, e poi, dopo il Liceo, ho frequentato un'Accademia.»

«Si vede che, oltre alla passione, c'è una grande preparazione.»

«Ho sempre richiesto il meglio da me stessa.»

«Mh, una perfezionista», commenta.

«Forse... ma adesso voglio sapere come hai iniziato tu.»

Rhys infila in bocca un pasticcino e lo mastica lentamente, con lo sguardo assorto. «Avevo nove anni, se non sbaglio. Mio padre aveva preso dei biglietti per andare a vedere Wicked: aveva aperto da poco a Londra e mia madre adorava Il Mago di Oz», stringe il tovagliolino di carta tra le dita, che tremano per un istante. «Ogni occasione era buona per... trovare una distrazione. O provarci, quantomeno.»

Osservo i suoi muscoli contratti e il suo volto amareggiato, con la mandibola serrata che tende i suoi lineamenti in un ritratto di dolorosa asprezza. Ripenso alle sue parole, la notte di Capodanno.

«Lei e Londra sono come te e il sonno: non proprio amici.»

Gli occhi luminosi di Erin e il suo sorriso raggiante mentre parlava della sua terra; l'improvvisa malinconia che le aveva offuscato lo sguardo; la sua partenza dopo una brevissima permanenza. Questi dettagli si sommano, fino a comporre un'immagine che mi fa stringere il cuore: quella di una donna infelice, perché lontana dalla sua casa – l'unico luogo in cui la sua anima riesce a dimorare, trovandovi pace e sollievo.

Sfioro la mano di Rhys, riscuotendolo dal suo mutismo inquieto. Distoglie lo sguardo dal vuoto e fissa i suoi occhi nei miei. Cerco di trasmettergli conforto, insinuando le mie dita nel tovagliolo per intrecciarle alle sue. Mi regala un sorriso timido, ancora adombrato dalla mestizia.

«Quindi, ti sei innamorato del palco in quell'occasione?» gli chiedo, per distrarlo dai cupi pensieri in cui rischia di affogare.

Lui annuisce, e la gioia torna a dipingergli i tratti, distendendoli. «Gli effetti speciali, la musica, la storia... l'idea di combinare tante arti in un'unica forma... sono uscito dal teatro inebetito, confuso, esaltato.»

«Da come la descrivi, sembra un'esperienza mistica», lo prendo in giro, giocherellando con le sue dita.

«In un certo senso, è andata così: mi ha fatto scordare tutto ciò che mi rendeva triste, lasciando un'unico chiodo fisso su cui meditare. Ho trascorso giorni a ripensare allo spettacolo. È stato... non saprei definirlo», continua, estasiato. Dai suoi occhi trabocca una sincera passione. «Potrei paragonarlo al primo amore», conclude, rivolgendomi uno sguardo serio. «Quello vero

«Ciò che hai detto è... bellissimo.»

Rhys alza le spalle, giocando a sua volta con i miei polpastrelli. «È la verità.»

«Il pianoforte, invece? Quando hai cominciato a suonarlo?»

«A sei anni. Un collega di mio padre ci aveva invitati a casa sua. C'era un pianoforte maestoso nel salone e io ne fui attratto irrimediabilmente. Mi chiese se volessi provarlo e io strimpellai una melodia stonata e priva di senso. Mi piaceva molto e lui si propose di insegnarmi a suonarlo, finché i miei non riuscirono a trovare un professionista che venisse a darmi lezioni a casa.»

«Dovevi essere adorabile», commento, immaginando un piccolo Rhys che si diletta a suonare il piano, con le manine paffute che cercano di raggiungere i tasti più lontani dalla sua portata.

«Fortunato, soprattutto. Sono immensamente grato ai miei genitori per quello che hanno fatto. Mio padre se lo poteva permettere ed io ho realizzato i miei sogni. Ad altri ragazzi di mia conoscenza, purtroppo, non era concessa nemmeno la possibilità di pensare ad un futuro diverso da un lavoro d'ufficio.»

«Di cosa si occupa tuo padre?»

«Lavora presso una multinazionale. Quando lui e mia madre si sono separati, ha accettato una promozione che lo ha portato a viaggiare per il mondo.»

«Quindi vi vedete di rado», constato.

Scrolla di nuovo le spalle. «In videochiamata, più che altro.»

«Non avete un bel rapporto?»

«Cosa?» scoppia a ridere. «Non ci incontriamo spesso, è vero, ma ci vogliamo bene. Lui non è espansivo come mia madre: dimostra l'affetto in maniera diversa», arriccia le labbra in un sorriso. «Però so sempre di poter contare su di lui, nel momento del bisogno. Solo che preferisco camminare con le mie gambe, piuttosto che dipendere dal suo denaro.»

«Sei davvero tanto fortunato», mormoro, volgendo il capo verso la vetrina. «Hai una famiglia stupenda.»

«Rossella», il suo indice sfiora il mio mento e mi costringe a fronteggiarlo. Mi fissa intensamente. «Ognuno ha una fortuna diversa tra le proprie mani. Anche tu, se guardi bene, troverai la tua, e ti sorprenderai della sua unicità.»

Mi accarezza la guancia, regalandomi un sorriso che mi fa tremare. Deglutisco, scacciando l'improvvisa e sconosciuta sensazione che mi attorciglia le viscere.

«Quando mi porti in quel posto?» domando, con la voce che a stento riesce a mostrarsi sicura.

Mi perdo nei suoi occhi, nei quali si specchia la persona che lui crede di conoscere, ma che in realtà ha gettato al vento la fortuna di cui parla per qualcosa che sembrava più grande del nulla che l'avvolgeva. Leggo nelle sue iridi un messagio che, però, non ho gli strumenti per decifrare.

La mia pelle brucia contro la sua e non riesco a concentrarmi su altro.

Perché?

«Trattenere la curiosità non è il tuo forte, aingeal», mi canzona, tirandomi una ciocca di capelli.

Evito di dirgli che, in realtà, il mio è uno sciocco tentativo di fuga da questo locale: l'atmosfera è cambiata e io non riesco a formulare un solo pensiero che sia razionale.

Prendo le mie cose e mi avvicino al bancone, ma lui mi trattiene. «Offro io», afferma.

«Hai già preso i biglietti, non è giusto.»

«Considera questa giornata come il resto del tuo regalo di Natale.»

«Insisto», mi impongo, superandolo.

Ho bisogno di controllare qualcosa – qualunque cosa – perché ho l'impressione che tutto il resto stia sfuggendo dalle mie mani senza che possa trattenerlo.

«Posso pagare la mia parte?» persevera, ignorando la mia risolutezza.

«No. Voglio sdebitarmi in qualche modo.»

«Non devi sdebitarti: erano un regalo e mi ha fatto piacere acquistare quei biglietti.»

Avvampo. L'imbarazzo mi serra la gola, ma cerco di apparire disinvolta. «Pago io lo stesso.»

«Rossella.»

Prendo un respiro profondo: devo essere impazzita tutto ad un tratto, perché il modo in cui ha pronunciato il mio nome ha scatenato in me una scossa elettrica. La mia sicurezza vacilla.

C'era qualcosa nella cioccolata. Non sono in me. Non posso essere in me.

Devo smettere di consumare bevande preparate, offerte o consigliate da lui: l'esperienza dimostra che il mio cervello, poi, cessa di essere padrone delle sue facoltà.

«Puoi darmi retta per un secondo, testona che non sei altro?» mi implora Rhys.

Mi decido a voltarmi. Lo squadro con cautela, soffermandomi sul suo volto afflitto.

«Ti ascolto.»

«Non sei in debito con me. Non voglio che tu lo creda, nemmeno per un secondo. Ho preso quei biglietti perché desideravo che tu li avessi. Non era un favore e non deve tornare indietro in alcun modo.»

«Io–»

«Rossella, ascoltami: mi ha fatto piacere regalarti qualcosa che potesse renderti felice. Mi basta sapere che hai apprezzato quest'esperienza, perché mi hai già concesso l'opportunità di viverla con te.»

Resto pietrificata dalle sue parole, senza sapere cosa dire; rimbombano nella mia testa e, nella confusione, non riescono a trovare un senso. O forse sono io a non volerlo: dare un significato a quello che ha appena detto comporterebbe delle conseguenze che non credo di essere pronta ad affrontare.

«Ti ha... fatto piacere?» chiedo titubante. È l'unica parte del suo discorso che voglio considerare, al momento.

«È così complicato, per te, accettare l'idea che io possa...» si blocca, fissandomi a lungo. Sembra in conflitto con se stesso. «... volerti bene?» esala alla fine, in un sussuro strozzato.

Deglutisco. A fatica. Inspiro. Spalanco la bocca, ma taccio. Espiro. «Non so... non so cosa dire.»

«Potresti, per esempio, dirmi se tu mi vuoi bene», bofonchia, con un tono che immagino voglia essere scherzoso, ma suona dubbioso.

«Io...»

Ripenso ai momenti condivisi insieme: i primi scontri, scatenati da un'insofferenza reciproca nata forse senza che ce ne fosse motivo; le ore sul palco e in sala prove e gli attimi in cui stare con lui risultava così piacevole che la sua compagnia non era più un fardello insopportabile; quel pomeriggio in cui ci siamo addormentati nel suo letto, abbracciati l'uno all'altro.

Il primo momento in cui mi ha aperto il suo cuore, mostrandomi una stanza dall'inaspettata bellezza che non avrei mai creduto di poter trovare in una persona così scostante come Rhys.

Il suo cuore che batteva, durante la festa, e il modo in cui mi ha trascinata via dai bui cunicoli del passato benché non lo sapesse; le notti insonni trascorse in cucina, a parlare di tutto e di niente davanti ad una tazza di latte.

È davvero la bevanda a favorire il sonno? O magari, con l'animo alleggerito, è più facile trovare pace in un riposo senza demoni?

Per quanto io ora lo conosca meglio, continuo a vedere in lui un mistero inspiegabile. E le domande crescono. Eppure, nonostante questo, mi sono abbandonata al conforto del suo calore e della sua comprensione. Nel momento del bisogno lui c'era. Non ho mai gridato perché qualcuno mi soccorresse, ma Rhys ha saputo trovarmi comunque.

Mi ha teso la sua mano ed io l'ho afferrata, affidandomi alla sua gentilezza e ai sorrisi timidi che sa regalarmi quando tutto il resto, intorno a me, sembra sul punto di crollare.

«Sì. Ti voglio bene, Rhys.»

Ricambia il mio sorriso. Muove dei passi per raggiungermi, porgendomi la mano.

«Ciò non significa che ti consentirò di pagare», puntualizzo.

• • • • •

«Dove stiamo andando?»

«Lo scoprirai.»

Rhys stringe la mia mano, guidandomi lungo il marciapiede affollato. Costeggiamo edifici che non conosco, passando per strade che non ho mai attraversato. Benché mi trovi a Londra da quasi un anno, ancora fatico ad orientarmi.

«Ora chiudi gli occhi», mi intima. Davanti alla mia perplessità, abbozza un'espressione sibillina. «Non ti preoccupare: ti guido e ti sostengo. Non è mia intenzione farti cadere.»

Rassicurata dalle sue parole, obbedisco, domando la curiosità di scoprire all'istante il luogo in cui mi sta conducendo.

«Puoi aprire gli occhi.»

Li spalanco e vengo subito investita dal fascino che si para dinzanzi a me: una via breve, su cui si affacciano piccoli negozi e botteghe le cui vetrine sono un tripudio di luci e decorazioni. Sopra le nostre teste si profilano delle luminarie che richiamano antichi lampadari, innestati in ghirlande intrecciate attorno a fili di led dorati. Nell'aria si respira un delicato profumo di zenzero e cannella.

«Benvenuta a Cecil Court.»

Rimango senza fiato, davanti alla bellezza di questo posto. «Sembra una cartolina di Natale. È così che ho sempre immaginato Londra durante le feste.»

«Spero che non ti dispiacciano le botteghe di antiquariato e... le librerie.»

Mi illumino all'istante. «Possiamo entrarci?»

«Puoi trascinarmi in tutti i negozi che desideri.»

«Grazie!» mi getto addosso a lui, stritolandolo in un abbraccio.

«Basta davvero poco per ammansirti», commenta, ricambiando la stretta.

Mi scosto da lui per entrare nella prima libreria. Non appena ne varco la soglia, sono investita da un senso di pacifica familiarità: ho l'impressione di essere tornata indietro nel tempo e di trovarmi in una biblioteca del diciannovesimo secolo. La confortante fragranza della carta penetra le mie narici.

«Salve!» ci accoglie con cordialità un anziano allampanato e con due folti baffi bianchi.

Ricambiamo il saluto e osserviamo i volumi esposti sugli scaffali.

«Avrei potuto comprare qui, il tuo regalo, se solo avessi saputo dell'esistenza di questo posto.»

«Ora sai dove andare per rendermi felice.»

«Oltre che a quel paese?» gli domando.

Mi tira una ciocca di capelli. «Is tú mo ghrá

«Lo prenderò come un », afferro una breve raccolta di poesie americane. «Hai già iniziato a leggere i libri che ti ho regalato?»

Annuisce. «Non sono un esperto di poesia spagnola né italiana, ma i componimenti letti fino ad ora mi hanno affascinato. È stato un pensiero azzeccato.»

«Modestia a parte, sono la maga dei regali di Natale.»

«La tua umiltà mi commuove ogni volta», è il suo commento sarcastico.

«Di' quello che vuoi, ma è la verità.»

«Come sapevi che amo la poesia?»

«I versi di John Donne nell'orologio da taschino che Jason e Shirley ti hanno regalato per il compleanno sono stati un ottimo indizio; le raccolte di Keats, Shakespeare, Lord Byron e Whitman disseminate per la tua camera hanno confermato i miei sospetti.»

Una volta acquistati alcuni libri, usciamo dal negozio. L'aria è più frizzante e dal cielo cadono minuscoli fiocchi di neve. Respiro a pieni polmoni il profumo dell'inverno, con la stessa gioia che da bambina mi pervadeva l'anima alla vista di questo spettacolo della natura.

«Vuoi che torniamo a casa?» mi chiede. «Hai freddo?»

«No; voglio godermi questa giornata finché potrò.»

Rhys circonda le mie spalle con il braccio, avvicinandomi al suo petto. Restiamo in silenzio, al lato della strada, ad osservare lo scorcio di cielo che incombe su di noi. La neve sfiora i nostri volti come una carezza gelida ma piacevole.

«Anche il cofanetto ti è piaciuto?» mi domanda ad un tratto.

«Sì, ma è ancora vuoto. Non so cosa metterci dentro.»

Reclina il capo e mi guarda negli occhi. «Lo riempiremo insieme.»

Intreccia le sue dita alle mie, mentre nelle sue pupille cresce una luce diversa, a me incomprensibile.

Cosa c'è dietro a questi sguardi, Rhys? Quanto pesa la tua malinconia? Quanti segreti nascondi dietro alle parole che non pronunci?

Il cuore inizia a battere più veloce, mentre alterno le mie iridi nelle sue. Mille domande si affollano nella mia mente.

Che cosa mi prende? Che sta succedendo?

«Rossella», mormora, con la voce che trema. «Io...»

La suoneria del mio telefono lo interrompe, facendo sobbalzare entrambi.

«Scusami», balbetto a disagio, allontanandomi da lui per rispondere.

Prendo il cellulare dalla tasca del cappotto e il cuore perde un battito. Sullo schermo è apparso un nome che non avrei creduto di poter leggere.

Dev'essere un sogno.

Le dita tremano, ma mi costringo a recuperare la calma. Scorro il tasto di risposta e, seppur esitando, avvicino il telefono all'orecchio. Rimango in silenzio, non sapendo cosa dire.

«Rossella.»

Stavo per dimenticare la sua voce. È trascorso quasi un anno dalla mia fuga.

Non ero pronta a ricevere una sua chiamata. Non avrei immaginato che potesse succedere, non oggi. Mai, addirittura. Non merito, in fondo, di essere cercata, perché sono stata io a scappare per il bene di tutti.

Mi chiedo se il suo volto sia mutato e se il dolore che ha provato a causa mia abbia spento il suo sorriso.

«Mamma...» mormoro, ancora troppo incredula per essere certa che sia vero. «Mamma, come stai?»

Le gambe sembrano non sostenermi più, pertanto mi appoggio all'esile lampione al mio fianco.

«Rossella, devo dirti una cosa.»

Colgo nella sua voce una nota di sofferenza. La mia sopresa diviene preoccupazione.

«Che succede? Mamma?»

Un lungo silenzio si protrae dall'altra parte.

«Maria ha avuto un incidente.»

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