Capitolo 23
Era, il suo, uno di quei sentimenti
puri che non impediscono il corso
della vita, che si coltivano perché
sono rari: perderli darebbe più dolore
di quanto non dia gioia possederli
– Gustave Flaubert
«Papà?»
La bambina era in piedi, distante dalla poltrona su cui sedeva il padre. Egli era intento a fingere di leggere il giornale per evitare di essere disturbato; tuttavia, lo scricciolo biondo che si ostinava ad elemosinare quell'affetto che lui non sapeva darle si era inoltrato nel suo territorio, e ora reclamava le sue attenzioni.
«Che c'è?»
Giulia gli aveva detto di non essere scortese con la bambina. Doveva provare a smussare gli spigoli del suo carattere e addolcirsi. Doveva adattarsi a quel ruolo che lui non aveva chiesto di recitare, perché Rossella era anche figlia sua. Doveva essere più gentile con lei, che lo amava incondizionatamente. Doveva, doveva, doveva...
Si sentiva inadatto a quella vita; eppure, questa consapevolezza non gli procurava cavilli psicologici, sensi di colpa, necessità di migliorarsi. Accettava questa rivelazione con stoicismo, perché non avrebbe mutato la sua natura per una bambina che non aveva desiderato, ma che era nata.
Forse era piacevole, i primi tempi, quando ancora era piccola. Qualche volta ci giocava. Lanciava una pallina di stoffa e lei gattonava goffamente per riprenderla e spingerla con le manine paffute verso di lui. Poi aveva compreso che essere un padre vuole anche dire amare i propri figli. E lui, tutt'al più, tollerava quella bambina che cresceva e richiedeva maggiori attenzioni.
Giulia si era lasciata assorbire da Rossella. Viveva per lei e la sua intera esistenza, ormai, era votata alla cura di quella bimba che le somigliava e non aveva niente di lui: né i suoi occhi, né i suoi capelli, né la forma del volto. Forse un giorno sarebbe divenuta alta tanto quanto lui, si diceva; ma queste differenze non lo toccavano in alcun modo. Parevano quasi giustificare il distacco che nutriva verso quella creatura in cui non si riconosceva affatto.
La bimba si avvicinò con timidezza al padre. «Ho fatto un disegno.»
La sua voce era incerta. Osservava il padre stringendo tra le mani il foglio di carta che voleva mostrargli. Da tempo si aggrappava agli oggetti per sentirsi al sicuro e, quando non aveva niente tra le mani o accanto a sé, si accontentava del poco conforto che sapeva darsi da sola.
Era piccola e fragile e sentiva il senso delle cose, perché non aveva l'età per afferrarle nella loro pienezza; ma anche il semplice sentimento lacerava tanto quanto la comprensione.
L'uomo non sapeva che rispondere. Davanti a sé vedeva un'estranea che cercava ogni pretesto per farsi amare. Lo soffocava. Voleva fuggire da quel fardello di responsabilità che rifiutava di assumersi.
«Vuoi vederlo?» gli chiese Rossella.
Annuì, celando a malapena l'insofferenza. Lei la percepiva, benché non sapesse dare un nome a quel grumo di emozioni negative che emanava la figura di suo padre e che le sferzavano l'anima.
Gli porse il disegno, che lui scrutò per qualche istante. Non si prese la briga di fingersi interessato, perché non lo era.
«Siamo noi», disse la piccola, con il sorriso che si faceva più sicuro, dolce e disarmante.
Ma lui non la guardò. Le restituì il disegno, bofonchiando un commento qualunque.
«Te lo regalo, papà.»
L'ennesimo tentativo disperato. Rossella non pensava: era puro istinto quello che animava i suoi gesti. L'amore per il padre era viscerale, così come le mille iniziative che prendeva perché lui si accorgesse di lei e le volesse bene. Non era difficile, pensava. Lei lo amava e nemmeno doveva sforzarsi. Perché lui, invece, pareva disprezzarla? Forse era il suo modo di dimostrarle affetto. Forse era solo stanco. O forse era lei il problema.
Quel pensiero era nato nei meandri più reconditi della sua mente. Era una percezione. Un impressione. Sentiva le conseguenze di quest'idea, ma non la comprendeva. Non era consapevole della sua presenza. C'era e basta, e attecchiva dentro di lei, influenzando i gesti, gli sguardi, le parole.
Anche uno scricciolo come lei, in fondo, per quanto ingenuo, privo di esperienza e ancora avvolto nei tessuti dell'infanzia, poteva essere mutato dal dolore. Erano cambiamenti all'apparenza impercettibili, ma sarebbero esplosi con la violenza di un ordigno. E lei si sarebbe piegata, sotto il peso delle macerie di quel primo amore non corrisposto. Il più crudele. Quello che non avrebbe mai superato.
Rossella porse nuovamente il disegno al padre. Quasi gli stava offrendo il suo cuore. Prendilo, papà, pensava. Prendilo, perché ti voglio bene.
L'uomo la fissava. Alternava le sue pupille dapprima su quel foglio di carta scarabocchiato, poi sulla bambina, che sorrideva.
Sorrideva spesso, Rossella. Il padre lo constatò e si innervosì. Voleva essere lasciato in pace. La bambina lo disturbava.
Afferrò il disegno, nella speranza di levarsela di torno. E allora, lei provò il sentimento più dolce, eppure più nocivo per chi è destinato alla disillusione: sperò.
Qualche tempo dopo, la bimba trovò il disegno sulla scrivania, sepolto da svariate scartoffie. Decine di pieghe attraversavano i volti che aveva provato a ritrarre con la sua mano inesperta. Anche la sua anima, come quel disegno, si accartocciò. Un lembo dopo l'altro, si piegò su se stessa.
Strinse il foglio contro il suo petto. I polpastrelli percorrevano le pieghe della carta e ogni millimetro scolpiva le crepe del suo cuore. Scavava solchi abissali da cui, come magma, fuoriusciva una tristezza troppo grande per lei.
Di nuovo, si aggrappò a se stessa.
* * *
Era nascosta dietro al divano. Ci si rannicchiava spesso, in quell'angolino angusto tra il muro e lo schienale. Le dava conforto. Si sentiva protetta e non aveva bisogno di stringersi a sé per non percepire quella bizzarra sensazione che la inquietava. Non era una sofferenza fisica, bensì un dolore annidato in profondità, a tal punto che non sapeva collocarlo con esattezza.
Ancora non conosceva il nome di molte cose, ma era in grado di capire quando uno scontro tra i suoi genitori si sarebbe scatenato; e allora si nascondeva dietro al divano, dove non poteva vederli. Tremava. Ascoltava le loro parole benché ciò acuisse le sue inquietudini, eppure rimaneva immobile in quel suo rifugio.
Spesso non si accorgevano di lei. Iniziavano a parlare, lanciarsi accuse, fino a che la discussione degenerava.
«Devi smetterla di trattare Rossella come se non fosse tua figlia. Potevi degnarti di presentarti alla sua recita.»
«Smettila, Giulia. Pensi che le possa importare? Ha sei anni.»
«Ha chiesto di te. È il suo ultimo anno di asilo, sai quanto ci teneva a questa recita.»
«Sarà per la prossima volta, che ti devo dire?»
«No, non sarà per la prossima volta. Dici sempre così e alla fine ti comporti alla stessa maniera. Ferisci tua figlia.»
«Non sono tagliato per fare il padre.»
«Non sai fare altro che giustificarti. Ti ritenevo più maturo di così.»
«Prima che nascesse Rossella eravamo felici, Giulia.»
La piccola, per un attimo, smise di respirare. Rimase a fissare il muro a pochissimi centimetri dal suo volto. Colse il significato di quelle parole. Non fu una percezione: divenne consapevolezza. Ed era amara, come quelle medicine che la mamma le faceva prendere per guarire dall'influenza; solo che, anziché stare meglio, la gola si chiuse e gli occhi si appannarono.
«Non accusare nostra figlia della tua irresponsabilità.»
«Accuso noi, che abbiamo agito senza riflettere sulle conseguenze.»
«E adesso cosa staresti facendo? Stai agendo e riflettendo sulle conseguenze?»
«Non capisco cosa intendi dire.»
«Stai distruggendo Rossella.»
L'uomo rimase in silenzio. Non sapeva come rispondere, e non perché riconobbe la propria colpa: semplicemente, non aveva più niente da dire.
* * *
La bimba si svegliò e sgattaiolò fuori dal letto. Non aveva dormito molto. Per tutta la notte, le parole di suo padre erano riecheggiate nella sua testa, insinuando il coltello sempre più in profondità. Aveva pianto, in silenzio, rannicchiata tra le coperte e con la testa premuta contro il cuscino per non singhiozzare.
La quiete non aveva lenito il suo dolore. Nell'assenza di rumore, quella frase aveva assunto significati universali che Rossella non conosceva; eppure, questi si erano incastonati nel suo cervello, modificando per sempre il modo in cui esso avrebbe pensato.
La bambina scese le scale. Era ancora presto: la luce penetrava dalle imposte con ritrosia, pallida e assonnata proprio come lei.
Trovò sua madre in cucina. Seduta al suo solito posto, fissava la tazzina dinanzi a sé, mescolandone il contenuto con un cucchiaino che di tanto in tanto sbatteva contro la porcellana, producendo un tintinnio sordo.
Suo padre non c'era. Rossella guardò l'ingresso e notò che le sue scarpe erano sparite, così come la sua giacca e le chiavi della sua macchina. Era domenica.
«Mamma.»
Giulia si riscosse immediatamente, con naturalezza. «Buongiorno, piccola. Dormito bene?»
Il suo tono era dolce, ma l'atmosfera che percepiva non la convinceva. Qualcosa non andava.
Rossella non rispose alla domanda della madre. Oltrepassò la soglia della cucina e si arrampicò sulla sedia, guardandosi attorno con circospezione: la tazzina di suo padre non era nel lavello; non vi erano stoviglie a testimoniare la sua presenza.
«Cosa vuoi per colazione?»
«C'è ancora la torta?»
«Sì. Te ne taglio una fetta grande grande, che dici?»
Rossella annuì, ma sua madre rimase immobile a fissare la figlia. Fu felice, per un breve attimo, di trovare conferma a ciò che tante persone avevano sempre puntualizzato: la piccola non somigliava affatto al padre. Non era come lui. Non aveva la sua carnagione ambrata, i suoi occhi scuri, i suoi capelli neri, né il suo carattere. Rossella era diversa. Si aggrappò a quest'idea e al corpicino della bimba. La strinse a sé perché era l'unica cosa bella che le restava in quel cumulo di macerie che era la sua vita.
Non glielo disse. Non sapeva come fare, che parole usare, come consolarla semmai avesse pianto, perché nemmeno lei concepiva un modo per aiutarsi a non crollare. E anziché sopravvivere a quell'abbandono che aveva presagito ma che ora si era concretizzato, decise di vivere per Rossella. Per renderla felice e migliore di quel padre che non era stato degno del suo animo puro.
* * *
«Tesoro, già sveglia?»
«Sì.»
«Sei sempre la solita curiosona.»
La madre le sorrise con affetto e le scompigliò i capelli biondi. La bambina rispose al sorriso, perché sapeva di non potersi mostrare triste. O meglio: avrebbe potuto, ma non voleva che il suo dolore gravasse sul fardello che già pesava sul cuore della sua mamma.
Non l'aveva mai vista piangere: i giorni erano trascorsi, fino ad accumularsi e divenire mesi che aveva strappato dal calendario. Mesi trascorsi senza l'uomo che Giulia aveva amato e che l'aveva delusa. Mesi che Rossella aveva trascorso con la consapevolezza che lui, questa volta, non sarebbe tornato com'era sempre successo dopo le liti tra i suoi genitori.
Rossella scrutava la madre e con l'orgoglio ingenuo e sincero dell'infanzia pensava a quanto fosse bella.
«Vuoi scartare almeno un regalo?»
«No», rispose la bimba. «Dobbiamo aspettare gli ospiti.»
Era piccola, ma aveva sviluppato la furbizia di nascondere ciò che davvero pensava per esprimere soltanto quello che gli altri si aspettavano di sentire. Ciò che agli altri avrebbe fatto meno male.
Tornò a guardare la poltrona. Vuota.
Vuota proprio come il suo cuore, in quel momento, dopo che per settimane aveva sperato.
È un sentimento birbante, la speranza: la si coltiva, annaffiandola di illusioni, in un vaso di dolci sogni; e questa cresce, bella e profumata. Quello che serba in sé appare così reale da credere di averlo già tra le mani. La speranza matura, ma può anche appassire, benché la si curi con dedizione. Essa non ha doveri, e chi la prova non ha diritti da rivendicare: stolto è colui che l'accusa dei propri disinganni. Perché la speranza non è altro che nebbia fallace in cui siamo certi di intravedere una realtà già formata; e quando pensiamo d'averla afferrata, ci ritroviamo col nulla tra le mani, lo stesso che stringevamo prima d'esserci defraudati.
Rossella non smise di osservare la poltrona. Credeva che se l'avesse guardata a lungo, allora suo padre sarebbe comparso, per chissà quale strabiliante incantesimo.
Non aveva altro che illusioni, nelle sue tasche. Che se ne faceva di una realtà deludente?
Perché in fondo, per quanto imperfetto, quell'uomo che l'aveva abbandonata restava suo padre, e quegli istinti viscerali e incontrollati gridavano il suo nome e la dilaniavano per la mancanza. Seguitava a vederlo indossare la veste che lui si era strappato di dosso con le parole e con i fatti: testarda, triste, ma speranzosa. Perché Babbo Natale non le aveva portato il suo papà in dono, però, forse, l'anno prossimo, chissà...
Decise di allontanarsi da quel vuoto fisico che la turbava. Si affacciò alla finestra per ammirare il cielo plumbeo, le case circostanti, la collina che scendeva fino ad incontrare la distesa d'acqua all'orizzonte.
Il mare era troppo distante perché lei ne udisse la risacca; eppure, ebbe l'impressione che nelle sue orecchie non vi fosse altro che il dolce rincorrersi delle onde.
L'acqua era grigia, proprio come il cielo che la sovrastava. Pensò a quanto sarebbe stato bello confondere il mare con il bianco candido della neve.
Si perse tra le onde. Credette di annegarvi; eppure seppe restare a galla.
* * *
Rossella sfogliò quel libro ricco di immagini che da settimane sostava sul comodino di sua madre. Le piacevano le foto colorate che riempivano le pagine. Leggeva i nomi dei luoghi raffigurati e si chiedeva dove fossero. Non era mai stata al di fuori del suo paese se non quelle volte in cui lei e la mamma salivano in macchina per andare in spiaggia.
«Che fai, piccola?»
«Guardo le foto.»
Giulia si sedette sul letto, accanto alla figlia. Le accarezzò i lunghi capelli biondi e percorse il profilo del suo volto: il nasino all'insù, le labbra arricciate in una smorfia di curiosità, gli occhi sognanti e ammirati.
«Mamma, dov'è l'Odalna?»
«Odalna?»
«Sì», la bimba indicò il nome accanto alla foto di un mulino affogato in un mare di papaveri sgargianti. «È scritto qui.»
«Si chiama Olanda. È un Paese molto lontano da qui.»
«Ci sei mai stata, mamma?»
Rossella fissò i suoi occhietti vispi in quelli della madre.
«No, purtroppo. Ma ho visto qualche foto in questo libro e anche un documentario alla televisione.»
«Wow...»
«Sai cosa facciamo? Un giorno faremo un bel viaggetto insieme e andremo in Olanda.»
«Davvero?» la bimba guardò la madre, gioiosa ed incredula.
Giulia annuì e strinse a sé la figlia. Non aveva nient'altro a cui aggrapparsi e avrebbe fatto qualunque cosa pur di farla felice. Credeva di sostituire quell'assenza a forma di padre con sforzi e promesse di un futuro migliore. Colmava la mancanza con la sua presenza, votandosi alla cura di Rossella che, adesso, le pareva ancora più piccola e indifesa.
* * *
Giulia e Rossella erano sedute l'una di fianco all'altra sul divano. La bimba si accoccolò contro il fianco della madre, che la cingeva con il braccio. Avevano fatto pranzo e, giacché fuori pioveva, si erano rintanate in casa, sotto una coperta.
Si bastavano l'un l'altra e vivevano nella loro semplicità come se al mondo non vi fosse nient'altro che meritasse d'essere sperimentato.
«Qui sta per iniziare un film. Ho letto la trama e va bene anche per te.»
«Come si chiama?»
«Sette spose per sette fratelli.»
Rossella annuì e fissò lo schermo della televisione con interesse.
La prima cosa che la colpì fu la musica: allegra e diversa da quella che sentiva alla radio. Poi fu la volta dei colori, che l'affascinavano tanto. Ma quando vide tutti quegli attori ballare e cantare, un'estasi singolare prese i suoi sensi. Il suo sguardo seguiva Milly che, fasciata nel suo vestito azzurro, cantava in una lingua che lei non conosceva. Non leggeva i sottotitoli perché la distraevano dai movimenti che a lei parevano tanto naturali. Mosse i piedini come se anche lei stesse danzando con i fratelli Pontipee in quella casetta dell'Oregon.
L'estasi crebbe a dismisura: ogni passo di danza ed ogni canzone l'alimentava.
Nacque così quella passione pura che l'avrebbe salvata tante volte. Prese radici nel suo animo e le diede la gioia di cui aveva bisogno. La distrasse dalla speranza deleteria che l'abbatteva quando si rendeva conto che il suo papà se n'era andato.
Concepì in sé il primo, grande amore della sua vita. L'unica certezza che sarebbe rimasta in quel mare di incognite a variabili nel quale iniziava a nuotare.
* * *
Giulia aveva notato da qualche tempo che Rossella spendeva gran parte delle sue giornate a ballare e cantare. La sua vocina era insicura e ancora acerba, ma le dava gioia saperla spensierata.
«Vorrei essere come Milly», le disse un giorno.
«Milly?»
La madre già non pensava più a quel film visto insieme.
«Sì. È tanto bella e tanto brava.»
Giulia comprese cosa la figlia intendesse dirle. Lo capì prima ancora di Rossella. Tuttavia non poteva sapere che cosa il futuro avrebbe riservato alla sua bambina.
È diversa da suo padre, si ripeté per l'ennesima volta. Era la sola sicurezza che avesse.
Le due donne si guardarono negli occhi, sorridendo, ciascuna persa nei propri pensieri.
Giulia aveva davanti a sé l'unico amore della sua vita. Lo stesso che avrebbe ferito per salvarsi dalle ingannevoli illusioni che aveva costruito per guarire.
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