Capitolo 2
Non puoi tornare indietro e cambiare l'inizio,
ma puoi iniziare dove sei e cambiare il finale
– C. S. Lewis
Schiudo gli occhi e incontro la penombra di una stanza. Sbatto le palpebre più volte, abituando la vista all'oscurità fino a mettere a fuoco il muro di fronte a me, attraversato da delle strisce di luce.
Sono sdraiata su una superficie morbida, avvolta da delle coperte. Mi siedo e mi guardo intorno, disorientata. Con le mani, tasto il vuoto, alzandomi e muovendomi a tentoni in questo ambiente sconosciuto e che non riesco a cogliere pienamente. Mi avvicino alla finestra e cerco il cintino della serranda e, non appena lo trovo, lo tiro, restando abbagliata dai raggi del sole.
Mi volto e osservo ciò che mi circonda: un letto, un armadio, una scrivania e qualche scaffale. Riconosco la camera: sono a casa di Shirley, nella stanza che prima era destinata agli ospiti, ma nella quale, d'ora in avanti, vivrò io.
Apro l'armadio e incontro la mia immagine riflessa nello specchio all'interno dell'anta: ciuffi biondi e spettinati mi ricadono sulla fronte e occhiaie violacee che mi ricordano le ansie di queste ultime settimane, che mi hanno tolto il sonno e la fame. Addosso ho ancora gli stessi vestiti con cui ero partita: un paio di leggings ed una felpa scolorita. Il cappuccio, le cui pieghe mi hanno segnato la guancia, è raggomitolato sulla mia spalla.
Mi giro e vedo sulla scrivania il mio telefono e, vicino alla porta della stanza, il trolley ed il borsone. Provo a sbloccare lo schermo del cellulare, ma non dà alcun cenno di vita. Sbuffo, rimettendolo dov'era prima.
All'improvviso, il mio stomaco comincia a protestare, producendo un rumore lungo ed inquietante accompagnato da una fitta.
«Hai ragione, amico. Chissà da quante ore non metto qualcosa sotto i denti», mormoro, avvicinandomi alla porta e aprendola timidamente.
Esco dalla stanza e mi immetto in un breve corridoio, illuminato dalla finestra del bagno, che si trova di fronte alla mia camera. Scandaglio ogni angolo con circospezione. Malgrado avessi visto qualche foto dell'appartamento, non posso fare a meno di sentirmi spaesata e chiedermi come sia finita qui: dopo il mio arrivo alla stazione di Londra, non ricordo nulla, se non profumo di vaniglia e luci accecanti; la mia mente brancola nel vuoto cosmico dell'oblio, alla ricerca di un particolare cui aggrapparsi per poter ricostruire tutto il resto.
Entro nel salotto. Un muretto in mattoni a vista lo divide dalla cucina. Al di là del divano c'è una scala col mancorrente metallico.
«Good morning, sleeping beauty!» esclama Shirley, spuntando da dietro il muretto con un mestolo in mano.
Impiego parecchio tempo per connettere i neuroni e realizzare ciò che non avrei dovuto dare per scontato: dovrò parlare solo in inglese, perché nessuno qui conosce la mia lingua.
Le mie cellule cerebrali si prendono qualche altro secondo prima che io pronunci un good morning indeciso, al quale, tuttavia, Shirley risponde con un sorriso.
La osservo, mentre si muove sicura tra i fornelli e il tavolo, versando in una ciotola vari ingredienti. La gioia e l'energia che sembra sprizzare da tutti i pori mi contagiano.
Mi vado a sedere al tavolo e cerco di comprendere che cosa stia preparando.
«Questo è un esperimento, non ti preoccupare», dice, quasi avesse compreso la mia tacita domanda. Si avvicina al piano della cucina e prende un piatto con delle crêpes impilate l'una sull'altra. «La tua colazione è questa, non cercherò di avvelenarti con i miei tentativi di diventare una cuoca stellata!» scherza.
Alla vista delle crêpes, il mio stomaco gorgoglia con maggiore prepotenza. Shirley se ne accorge e scoppia a ridere, mentre io arrossisco.
«Grazie mille, sembrano deliziose», affermo con sincerità. E anche se facessero schifo, credo che le divorerei comunque: la mia pancia potrebbe squarciarsi a causa dei rumori che lo stomaco sta emettendo.
«Sono una delle poche cose che so cucinare senza dare fuoco all'intero stabile.»
Addento un pezzo di crêpe e ne assaporo il gusto dolce e delicato che mi accarezza le papille gustative. Mi sembra di non mangiare da mesi e cerco di trattenere la foga con cui, in questo momento, pulirei il piatto. Negli ultimi giorni ho mangiato così poco da essermi nutrita a malapena. Non so con che forza io sia riuscita a rimanere in piedi ed affrontare un viaggio durato quasi una giornata intera senza cadere esanime al suolo.
«Sono strepitose!» esclamo, con la bocca ancora piena.
Shirley mi regala un sorriso ampio e batte le mani come una bimba felice cui hanno appena regalato la bambola che tanto desiderava. «Sono contenta che ti piacciano!»
«Comunque... grazie per tutto quello che stai facendo. Davvero.»
«Figurati, tesoro. Ho subito capito che sei una brava persona», mi prende la mano libera e si accomoda sulla sedia accanto alla mia, dimenticandosi del suo esperimento culinario e lasciando la ciotola sul lato opposto del tavolo.
La sua stretta è affettuosa e un'onda di calore mi pervade il petto. La sua fiducia e il suo ottimismo mi fanno sembrare le cose più semplici, benché io sappia molto bene che non è così.
«Ma...» mando giù un boccone, «che ore sono?»
«Le undici.»
Sgrano gli occhi. «Quanto ho dormito di preciso?»
Shirley mormora qualche calcolo. «Credo quindici ore circa.»
«Quindici ore?!»
Per un attimo, temo di aver frainteso le sue parole, ma lei annuisce, fugando ogni dubbio. «Ti sei addormentata mentre eravamo in macchina. Ti stavo parlando e, quando mi sono resa conto che non rispondevi, mi sono girata e ho visto che dormivi come un ghiro.»
«Perdindirindina.»
«Cosa?» Shirley corruga la fronte confusa.
«Cosa?» replico a mia volta.
«Hai detto una cosa strana.»
«Oh, nulla. È un'espressione italiana», finisco ciò che resta delle crêpes e mi massaggio la pancia con soddisfazione, sentendomi finalmente sazia. «Certo che devi avere una schiena fortissima per avermi portata in casa mentre ero un peso morto.»
Shirley sorride imbarazzata e annuisce. «Ecco... a proposito di questo... ieri sera ti stavo per dire una cosa, prima che ti addormentassi.»
Mi tornano alla mente alcuni dettagli: io nell'auto di Shirley, il trolley sistemato alla meglio tra le mie gambe, Shirley che parla, io che non riesco ad ascoltarla e sento soltanto il suono della sua voce che mi giunge da lontano, come un'eco incomprensibile.
«Perdonami, ero stanchissima», cerco di scusarmi.
«Non importa, lo immaginavo», sorride. «E comunque...»
«Hi.»
Scatto in piedi come una molla nel sentire una voce maschile provenire da dietro le mie spalle.
«E tu chi sei?!» chiedo terrorizzata, avvicinandomi al piano della cucina e ai cassetti dove credo possano trovarsi le posate. Ho letto libri e visto film a sufficienza per sapere come difendermi dagli aggressori che penetrano all'improvviso nelle case per rubare e uccidere. Anche un cucchiaio può diventare un'arma.
Lo sconosciuto rimane in silenzio, avvolto dalla penombra dell'ingresso.
«Rosela, non è un malintenzionato!» mi rassicura Shirley, forse leggendo il terrore nei miei occhi mentre con la mano cerco di aprire il cassetto dietro di me. «È proprio quello di cui ti volevo parlare!»
Finalmente posso deglutire e respirare normalmente, ma non mi allontano dal mobile. «Credo... credo di avere bisogno di spiegazioni», balbetto.
Shirley annuisce, imbarazzata.
«Lui è Rhys, mio cugino. Vive qui da qualche giorno, ha dovuto lasciare il suo vecchio appartamento e non sapeva dove altro andare. È successo dopo che ci siamo viste online e non mi sembrava il caso di dirtelo con un messaggio. Oltretutto, ormai avevi spedito le tue cose e avevi probabilmente i bagagli pronti. Però, se la cosa dovesse darti fastidio, sappi che lo capirò e ti aiuterò a cercare un altro posto», confessa tutto d'un fiato. «È lui che ti ha portato qui in casa: ti ha presa in braccio e messa a letto.»
Alla fine del suo racconto mi sento stordita. Faccio cadere il mio sguardo prima su di lei e poi su questo suo cugino.
Come ha detto che si chiama? Russell? No... Rhys! Non credo di aver mai sentito un nome del genere.
Quello che poco fa credevo un assassino intrufolatosi nell'appartamento per ucciderci mi sta osservando attentamente, con le sopracciglia alzate e uno sguardo torvo. Con le mani si sistema la sua chioma nera e folta, senza distogliere i suoi occhi dai miei.
Certo che a primo impatto non sembra affatto amichevole e pronto a collaborare.
Shirley, dal canto suo, sembra pronta a gettarsi ai miei piedi pur di ottenere la mia indulgenza e vedo nella sua contrizione un sincero dispiacere per non avermi avvisata prima dell'arrivo improvviso di questo fantomatico Rhys.
«Mi sento tremendamente in colpa...» dice infatti.
«Non ti preoccupare», la rassicuro. «Vedremo come andranno le cose e poi deciderò.»
Shirley solleva lo sguardo e le sorrido per confermarle ciò che ho appena detto. Mi si avvicina e mi abbraccia, stringendomi con affetto. Vengo nuovamente inondata dal suo profumo forte alla vaniglia, che mi pizzica le narici.
«Ora devo scappare perché a mezzogiorno inizia il mio turno in negozio!» esclama, sparendo dietro al divano e prendendo una giacca in pelle e una borsa. «Avete tutto il tempo per conoscervi, voi due», cerca di infilarsi le scarpe, saltellando su un solo piede. «Mi raccomando, Rhys, non fare lo scortese, altrimenti ti caccio via! Ah, Rosela: ti ho lasciato uno scaffale in bagno per mettere i tuoi effetti personali. Per qualunque cosa, chiedi a lui, oppure chiamami.»
Esce dall'appartamento come un fulmine, senza darmi il tempo di ringraziarla e lasciando dietro di sé un silenzio carico di imbarazzo – mio, perché Rhys continua ad avere la stessa espressione di prima: indecifrabile e tutt'altro che affabile.
Lo studio con attenzione, avvicinandomi al muretto con lentezza. Lui mi sta fissando, senza smuoversi di un millimetro. Non riesco a capire di che colore siano i suoi occhi. Ha le labbra carnose e serrate mentre mi osserva con l'attenzione di un'aquila che studia da lontano la sua preda prima di avventarsi su di essa.
«Io ora vado a svuotare i bagagli», dico, tanto per smorzare la tensione che comincio a sentire nella stanza.
Lui non risponde. Si schiarisce la gola, per poi allontanarsi e salire le scale dietro al divano, sparendo dalla mia vista.
Menomale che dovevamo fare conoscenza.
Torno nella mia stanza e frugo nel borsone, alla ricerca del caricabatterie. Non appena lo trovo, collego il telefono al cavo e attacco l'adattatore alla presa. Lo schermo si illumina, mostrandomi la grafica viola con la percentuale di carica.
Zero.
Mi rassegno all'idea di dover svuotare i bagagli in silenzio, senza un sottofondo musicale che mi impedisca di pensare.
Prendo gli indumenti dal borsone e li metto sul letto, dividendoli in base alla stagione e al tipo di occasione per cui possono essere indossati: casa, uscita, lavoro...
«Lavoro!» esclamo, dandomi uno schiaffo sulla fronte.
Mi accascio per terra, presa da un senso di desolante scoramento: comprendo solo ora di quanto sia stata insensata la mia scelta di andarmene via – addirittura all'estero! – in fretta come una fuggitiva. In tasca non ho altro che pochi risparmi e la consapevolezza di essere un mostro.
Se solo non fossi stata così stupida...
Le lacrime mi pungono gli occhi, ma li alzo prontamente al soffitto, cercando di ricacciarle.
Se tornassi indietro... no, non posso dire che non mi sarei innamorata di Flavio. Lui avrebbe preso il mio cuore anche se l'avessi protetto con mille lucchetti. Sarebbe stato in grado di scardinarli ad uno ad uno; gliel'avrei concesso, perché ormai ero priva di difese: aveva saputo come abbatterle.
Prendo un respiro profondo, prima che l'ossigeno cominci a mancarmi. Distendo le gambe per permettere ai miei polmoni di riempirsi d'aria.
Provo a svuotare la mente e, per un attimo, mi illudo di riuscirci; mi illudo che non ci sia nessun pensiero annidato negli angoli più reconditi, pronto a saltare fuori come un bambino che cerca di spaventare la sua mamma per giocare.
Deglutisco. Inspiro. Chiudo gli occhi. Espiro.
Riapro gli occhi e mi volto per osservare la finestra, velata dalle tende. Fuori è soleggiato. Sembra una giornata di tarda primavera come tutte le altre. Mi alzo in piedi e mi avvicino alle imposte. Scosto le sottili tende rosate e giro la maniglia per sbloccare la serratura e aprire la finestra. Il sole mi colpisce il volto, accarezzandomi le guance.
Le macchine passano per la strada, mentre alcune persone passeggiano lungo i marciapiedi.
Di fronte a me si erge un altro palazzo, con le imposte a distanza regolare, e molte di esse sono aperte, lasciando intravedere tende variopinte che danzano mosse dall'aria tiepida di questa mattina.
Per un attimo dimentico chi sono, da dove vengo e perché mi trovo qui: ci siamo solo io, il sole, il calore e questa magica città.
Scandaglio l'orizzonte, vedendo solo tetti. Il mare è lontano da qui; ma, anche se ci fosse, sarebbe un oceano sconosciuto e non la distesa d'acqua che mi era tanto familiare e nel quale il mio sguardo naufragava per trovare la pace.
L'unica costante nella mia vita di incognite e variabili.
Ammiro la bellezza di Londra mentre la nostalgia mi graffia il cuore, sollecitando i ricordi a danzare il loro ballo di dolore sulle note della mia sofferenza.
Non so quanto tempo trascorro affacciata alla finestra, ma all'improvviso sento un rumore provenire fuori dalla mia stanza.
Esco in corridoio, incuriosita.
Di nuovo silenzio.
Entro in salotto, per controllare che – questa volta – non sia entrato un ladro. Tutto è esattamente dove si trovava prima che io me ne andassi nella mia camera.
Un trillo squillante.
Non ci sono telefoni in giro, perciò mi avvicino alla porta e controllo il pianerottolo attraverso lo spioncino.
Eureka.
Apro di pochi centimetri la porta, senza però togliere le catene di sicurezza. Mi sporgo leggermente.
«E tu chi sei?» mi chiede quasi con sconcerto un tipetto pelato e dalla pelle color cappuccino.
«Chi saresti tu, questa è la domanda», ribatto, piccata.
Fatta eccezione per Shirley, mi sto facendo l'idea che gli inglesi siano un popolo di scortesi: prima Rhys, ora questo tizio che viene a suonare alla porta.
«Dov'è Rhys?» mi domanda.
«Prima mi dici chi sei.»
Lui sbuffa. «Sono Jason. Vivo lì», indica la porta di fronte a questa. «Ora, se la cosa non ti turba, vorrei sapere chi sei e dov'è Rhys.»
«Sono Rossella, la nuova coinquilina di Shirley. Rhys è in casa. E tu sei alquanto scortese.»
Jason mi fissa spazientito. «Che dici di farmi accomodare?»
Chiudo la porta per togliere le catene di sicurezza. La riapro e mi faccio di lato per permettere a Jason di entrare. Lui si siede sul divano, con scarsa eleganza ed estrema tranquillità, come se vivesse qui e non fosse un semplice ospite. Lo fisso con sconcerto, benché lui non mi stia degnando di alcuna attenzione.
Reprimo gli istinti primordiali che mi suggeriscono di mandarlo a quel paese e salgo le scale che portano a quella che credo sia la stanza di Rhys. Giungo dinanzi ad una porta e busso.
Nessuna risposta. Appoggio l'orecchio contro la porta: silenzio. Busso un'altra volta, senza ottenere risultati diversi.
«Rhys?» lo chiamo.
Giro la manopola, sapendo che sto per invadere la privacy di un perfetto sconosciuto, ma devo assicurarmi che non sia morto, svenuto, esanime... invece, la risposta è molto più semplice e meno tragica: semplicemente, non c'è. La stanza è in preda al caos: vestiti sparsi su qualsiasi superficie, il letto sfatto, scarpe lasciate in giro. La scrivania è ricoperta di fogli e libri.
«Perdindirindina», esclamo, sorprendendomi che almeno l'aria non sia impregnata di cattivo odore. «Sembra che qui sia appena stata combattuta una battaglia.»
Solleticata dalla curiosità, mi avvicino alla scrivania e sbircio i titoli dei volumi. Prendo in mano una raccolta di poesie di Keats, sfogliando le pagine immacolate, prive di annotazioni o pieghe agli angoli. Poso il libro dove l'avevo trovato, per dare un'ultima occhiata al resto della stanza. Trattengo la tentazione di metterla in ordine, temendo che Rhys possa non gradire l'intrusione, e scendo di nuovo in salotto, chiudendomi la porta di quell'inferno alle spalle.
Jason è sdraiato sul divano e gioca sul telefono.
«Rhys non c'è», gli annuncio, sperando di levarmelo di torno.
«Prima hai detto che c'era», ribatte, senza distogliere gli occhi dallo schermo, sul quel picchietta le dita con veemenza.
«C'era», sottolineo. «Ora non c'è.»
Immagino sia uscito mentre disfacevo i miei bagagli, silenzioso come un gatto pronto all'agguato.
«Va bene», si rimette il telefono in tasca e si alza in piedi. Mi fissa a lungo, squadrandomi da capo a piedi. «Come hai detto che ti chiami?»
«Rossella.»
Annuisce. «Sì, forse Shirley mi ha parlato di te... da dove vieni?»
«Italia.»
«Italia...» si gratta il mento rasato, con lo sguardo concentrato. «Ah, quel posto dove c'è quella costruzione vecchia, con i buchi... non ne ricordo il nome.»
Sgrano gli occhi, esterrefatta e senza parole. «Costruzione... con i buchi?»
«Non importa. È stato bello conoscerti», si dirige autonomamente verso la porta, uscendo dall'appartamento e lasciandomi interdetta.
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