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Capitolo 15

Quando non sarai più parte di me,
ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole
stelle, allora il cielo sarà così bello che
tutto il mondo si innamorerà della notte
– William Shakespeare


Cammino su e giù per la stanza, con il suono della chiamata in attesa che mi rimbomba nelle orecchie ritmicamente.

Maria spesso dimentica di avere un telefono. A volte si scorda persino dell'esistenza della tecnologia, ma per questo le ho sempre voluto bene: a lei basta avere il suo amato pianoforte, il resto è superfluo. Mi ha trasmesso la sua passione per la musica attraverso la sua dedizione e il suo amore nei confronti di un'arte che per lei è pura magia.

«Rossella!» risponde finalmente, dopo numerosi squilli. «Come stai, cara?»

«Maria, sto benissimo! Anzi: devo darti una notizia stupenda.»

«Dimmi tutto, non tenermi sulle spine!»

La sua voce è trepidante e colma di eccitazione.

Mi siedo sul letto, tentennando qualche istante per aumentare la sua curiosità.

«Ho partecipato a dei casting e ho ottenuto una parte!»

Maria lancia un urletto felice, e quasi mi perfora un timpano.

«Raccontami ogni cosa!»

Le spiego tutto nei minimi dettagli, omettendo volontariamente, almeno all'inizio, di aver ottenuto il ruolo della protagonista. Le parlo dei colleghi e di come mi sono immediatamente sentita a mio agio in loro compagnia. Le descrivo il Superior Theatre, con i suoi interni splendidi, e le parlo anche di Shirley e Jason e di come mi abbiano incoraggiata a partecipare all'audizione. Le racconto di Nicole e del nostro incontro.

«Però non mi hai ancora detto che ruolo hai ottenuto», borbotta alla fine.

Sorrido serafica.

«Diciamo che tu e il personaggio condividete lo stesso nome.»

Segue un attimo di silenzio.

«Non dirmi che...» ride. «Rossella cara, non ci posso credere!» esclama, e dal tono della sua voce capisco che è felicissima.

«Anche io ero incredula all'inizio. Mi sembrava un sogno. Ancora adesso fatico a crederci pienamente», le confesso.

«Poi mandami le foto che avete fatto. Voglio vederti», dice, respirando velocemente.

«Ma stai piangendo?»

«Eh sì. Sono troppo orgogliosa di te», afferma dolcemente.

Mi si stringe il cuore.

«Mi manchi tanto.»

«Anche tu, Rossella; ma sono felice che tu stia realizzando il tuo sogno. Te lo meriti.»

Mi mordo il labbro inferiore e alzo gli occhi verso il soffitto per ricacciare indietro le lacrime di commozione che stanno minacciando di uscire.

«Ma adesso basta con i sentimentalismi», dice ad un tratto. «Com'è Tony? È carino?»

«Maria!» arrossisco: ogni tanto si comporta come una ragazzina, ma apprezzo anche questo suo lato.

«È una domanda legittima», dice, ridendo di gusto.

«Be'...» rifletto. «È... un tipo apposto.»

«Che cosa vuol dire un tipo apposto?» mi domanda, ridendo.

«Ecco... siamo coinquilini... è il cugino di Shirley.»

«Quindi vi conoscevate già! E com'è? Simpatico?»

Rhys.

Simpatico.

Un'affermazione del genere avrebbe lo stesso grado di veridicità di una pubblicità di prodotti dai miracolosi poteri dimagranti. Non è scientificamente possibile che Rhys possa essere simpatico, esattamente come non è possibile che un orso polare sia mansueto e docile come un barboncino.

«Dobbiamo ancora conoscerci bene», dico, liquidando il discorso.

Ci intratteniamo a chiacchierare a lungo: lei mi parla di alcuni suoi studenti, mentre io le racconto della mia nuova vita a Londra.

«Maria.»

«Dimmi, cara.»

«Hai... hai più visto mia madre?»

So di averla delusa, ferita e resa infelice. So di non essermi comportata bene, andandomene senza nemmeno parlarle un'ultima volta. So di essere una persona orribile. So tutte queste cose, eppure continuo a sperare che lei non abbia smesso di volermi bene, malgrado il male che ho fatto.

«Sei come tuo padre.»

Il suo sguardo brucia ancora nel mio cuore come un fuoco che non si spegne mai perché le sue fiamme sono costantemente alimentate. Le sue parole spesso si aggrappano feroci ai miei pensieri, contaminandoli e infettandoli, impedendomi di vedere la luce.

«A volte la incontro», risponde Maria. «Al supermercato, più che altro; però non parliamo quasi mai.»

«Come ti sembra?»

Maria sospira. Percepisco il suo tentennamento.

«Non sta né bene né male.»

«E la gente... parla ancora di me?»

Non so se voglio una risposta a questa domanda. Forse non avrei nemmeno dovuto porla. Si sta meglio senza sapere. L'inconsapevolezza è uno stato che in tanti rifuggono, ma è per me fonte di conforto. La verità a volte fa più male delle menzogne. La verità non ti lascia via di scampo: le cose sono così e basta. Non ci sono alternative. Quando non sai, invece, puoi aggrapparti alla speranza.

«Sai com'è fatta la gente, qui...» Maria sospira affranta. La immagino passarsi una mano sul volto, mentre soppesa le parole da dirmi. «Presto troveranno altro di cui parlare. Non hanno niente di meglio da fare, la maggior parte dei loro pettegolezzi sono bugie e cattiverie.»

Annuisco.

Vorrei chiederle di lui, ma mi trattengo. Non ho alcun diritto di sapere come sta ora. Non sono io il suo pezzo complementare. Non lo sono mai stata.

È inutile che io continui a chiedermi se mi pensa. Anche se così fosse, io e lui ormai percorriamo due strade differenti. Non posso tornare indietro. Non devo.

«Ricordati quanto vali, Rossella. Non sono gli errori che fai a definire la persona che sei, bensì il modo in cui cerchi di porvi rimedio», dice dolcemente Maria.

«Ti ringrazio, Maria.»

Ci salutiamo, promettendoci di sentirci al più presto. Subito le invio qualche articolo riguardo all'annuncio del cast e, dopo pochi istanti, lei risponde al mio messaggio definendo Rhys un bel fusto.  Scuoto il capo, ridendo tra me e me: Maria non cambierà mai. Ha superato i cinquant'anni, ma alle volte si comporta come una ragazzina.

Poso il telefono sulla scrivania e osservo l'ora. I miei occhi, tuttavia, scivolano più in basso, fissando la data segnata dal display.

Tre giugno.

Il tempo è passato talmente in fretta che non ho fatto caso al trascorrere dei giorni, tanto da scordare che, presto o tardi, sarebbe giunto questo momento.

«Festeggeremo il mio compleanno in ritardo. L'importante è stare insieme, non importa la data.»

Flavio era nato il primo giugno. Aveva festeggiato con la sua famiglia e due giorni dopo eravamo partiti. Mi sentivo di troppo, in quell'occasione. Sua moglie e i suoi parenti venivano prima di me, ed era giusto. Che cosa c'entravo io? Che diritto avevo di celebrare il suo compleanno, sola con lui?

Ero ormai una collezionista di sensi di colpa. Ogni volta che ci vedevamo mettevo a tacere quel tarlo che si insinuava nella mia mente con inarrestabile malignità. Godevo di quei pochi attimi in cui io e Flavio eravamo noi stessi, benché nascosti dagli sguardi altrui, per poi rendermi conto di quanto fosse sbagliato amarlo.

Quando il tarlo si risvegliava, mi dilaniava con crudeltà, senza lasciarmi via di scampo. Mi mostrava i miei peccati, accrescendo la vergogna che provavo nei confronti di me stessa. Non potevo sconfiggerlo: esauriva, oltre alle mie lacrime, anche le mie forze. Non ero abbastanza tenace da oppormi alla verità.

Io e Flavio eravamo andati al mare, l'anno scorso. A entrambi piaceva, e non c'era posto migliore per festeggiare un'occasione speciale come il suo compleanno. Flavio conosceva una spiaggia isolata, frequentata di rado dai turisti. Lì potevamo amarci senza paura di essere scoperti.

Osservammo il cielo tingersi dei colori più intensi, mentre il sole scarlatto si dileguava oltre la linea dell'orizzonte. Attendemmo l'arrivo delle stelle, perché non avevamo fretta di tornare a casa: sua moglie era via per lavoro e noi, tutte le volte che ciò succedeva, ne approfittavamo per stare insieme.

Mi sento un verme se penso che la mia felicità, seppur breve, è stata costruita alle spalle di una donna ignara, che non aveva alcun sospetto.

Pensavo a lei solo dopo quei magici incontri. In quella povera donna vedevo mia madre, tradita per anni dall'uomo in cui aveva riposto la sua fiducia. E il tarlo, allora, mi divorava, mi dilaniava, riduceva a brandelli la mia felicità.

Mi dicevo che dovevo porre fine a quella relazione prima che fosse troppo tardi, ma, ogni volta che Flavio mi stringeva a sé, io mi sentivo al sicuro come mai in vita mia.

«Io ti amo, Rossella», sussurrava tra i miei capelli, mentre io mi beavo del suo dolce profumo, cullata dal suono della sua voce.

Quelle parole avrebbe dovuto rivolgerle a sua moglie, non a me. Io non ero il suo pezzo complementare, lei sì.

La mia mente gridava di fuggire perché ero in pericolo, ma il cuore era ormai incatenato a Flavio e io ero troppo codarda per sciogliere quel legame.

Vagavo tra piacere e tormento. I sensi di colpa crescevano, accumulandosi come la polvere sulle superfici di una casa abbandonata.

Spesso l'amore si rivela il più grande degli sbagli. Lo consideriamo come una potente panacea in grado di lenire la nostra afflizione, ma a volte è un veleno mortale. Ci inebriamo del suo dolce sapore, ubriacandoci di fantasie; arriva però il momento in cui la realtà spodesta l'immaginazione, che, come un re che non è abbastanza forte per imporsi sul trono, deve accettare il suo triste destino, arrendendosi. Non vi è antidoto: ormai il veleno è entrato in circolazione e non gli resta che agire, consumando e distruggendo lentamente.

Credevo di volare nel cielo, tra le nuvole, libera dai fantasmi del mio passato. Mi sentivo leggera, al suo fianco. Non sapevo che stavo scavando attorno a me la fossa nella quale sarei precipitata, trascinando anche Flavio nella mia caduta: l'errore l'avevamo commesso entrambi, spinti dal destino e dalla nostra volontà.

Non eravamo senza colpe. Niente avrebbe potuto giustificarci, nemmeno l'amore. Ora dobbiamo pagare lo scotto per la nostra sconsideratezza, e la lontananza è una tortura che spesso mi piega.

Mi manchi, Flavio. Mi manchi anche se so che è sbagliato. Non ero il tuo pezzo complementare, ma resterai per sempre l'unico ad essersi incastrato perfettamente a me. E ora mi sento vuota senza di te.

Mi accorgo di avere gli occhi pieni di lacrime perché la vista si appanna. I contorni di ciò che mi circonda si fanno sempre più sfocati. Me li asciugo rapidamente e subito mi chino per aprire l'ultimo cassetto della scrivania. È lì che custodisco il carillon. Lo prendo tra le mie dita, sfiorando la superficie liscia.

È uno scrigno di ricordi dai quali non riesco a separarmi. Per il mio bene, dovrei dimenticare, o perlomeno provarci; ma la parte irrazionale di me continua a sperare: esistono un luogo e un tempo per me e Flavio, solo che dobbiamo ancora trovarlo.

Noi, che ci siamo amati nell'ombra, perché la luce del sole avrebbe mostrato al mondo intero quanto fosse sbagliato quel sentimento che ci legava. Noi, che abbiamo ferito le persone che ci stavano attorno. Noi, un errore.

Ero come mio padre: nemmeno io mi ero fatta troppi scrupoli e avevo fatto del male a mia madre e alla moglie di Flavio. Potevo fermarmi, avrei potuto essere migliore del mostro nel quale mi ero trasformata; ma bramavo amore ed ero accecata dalle mie cicatrici.

Apro il coperchio del carillon, sdraiandomi sul letto mentre le note de La primavera penetrano nel mio cuore.

Flavio era calore, dolcezza, affetto. Era tutto ciò che mi era sempre mancato. Era come un giorno di primavera, in cui la natura si risveglia dopo il rigido torpore dell'inverno. Lui era la mia rinascita.

La vita sa essere tremendamente ingiusta: avevo finalmente trovato il mio porto sicuro, ma sono stata investita dalla tempesta e trascinata alla deriva.

Mi manchi, Flavio.

Rimango ferma nella stessa posizione a lungo, a ricordare il passato, finché non vengo avvolta dal silenzio. Mi metto a sedere, senza lasciare il carillon.

Non sta più suonando.

Chiudo il coperchio e lo riapro poco dopo, ma ancora non emette alcun suono. Colpisco con delicatezza il carillon con le dita

Niente.

Silenzio.

Mi alzo in piedi, terrorizzata.

Non può essersi rotto.

Non deve rompersi.

Cammino per la stanza con foga, implorando il carillon di funzionare di nuovo.

È l'unica cosa che mi resta di Flavio.

Impreco ad alta voce, guardandomi attorno con ansia. Non ho la benché minima idea di come si aggiusti un carillon.

Esco dalla mia stanza e vago per la casa, pensando ad una possibile soluzione. Continuo a chiudere e riaprire il coperchio, nella vana speranza che, miracolosamente, il carillon si sistemi da solo.

Mi guardo intorno, disperata, fino a che i miei occhi incontrano le scale.

Il mio sconforto deve aver raggiunto dei livelli inimmaginabili se sto pensando di mettere il mio orgoglio sotto le scarpe e abbassarmi a chiedere un favore a lui che, probabilmente, si rifiuterà persino di ascoltarmi.

È l'unica soluzione, al momento; discutibile, ma pur sempre una soluzione.

Mi avvio verso le scale e salgo i gradini ad un ad uno, pentendomi della mia decisione. Potrei tornare indietro e rinunciare al carillon, tenendomelo rotto, ma non è mia intenzione smettere di sentire quella melodia che mi tiene legata a Flavio.

Arrivo dinanzi alla porta della stanza di Rhys. Prendo un respiro profondo, già preparata all'idea che mi scaccerà con maleducazione; tuttavia, la mia mano si blocca in aria prima ancora che io bussi.

Sento un suono provenire dall'interno. Con passo felpato, annullo la distanza che mi separa dalla porta e appoggio l'orecchio contro di essa.

È una chitarra classica.

La melodia è triste. Trasmette una profonda rassegnazione, quasi disumana. È una musica lenta e permeata da una profonda malinconia.

Con cautela, poso la mano sulla maniglia e l'abbasso. Sposto la testa in corrispondenza dello spiraglio e, davanti ai miei occhi, intravedo la figura di Rhys: è di spalle, seduto su una sedia e rivolto verso la finestra. Accompagna le note con movimenti lenti e misurati del capo.

Controluce e ricurvo sulla chitarra, di cui sta pizzicando le corde con gesti sicuri, sembra un esserino inquieto e infelice, lontano dal mondo e perso nelle sue tristi fantasie.

Incuriosita e rapita dalla musica mesta alla quale sta dando vita, apro maggiormente la porta, il cui cigolio, tuttavia, mi tradisce.

Rhys si volta di scatto e, non appena i suoi occhi incontrano la mia figura, mi incenerisce con lo sguardo.

«Perché sei entrata?» sibila.

Io resto immobile, senza proferire parola.

«Non ti hanno insegnato a bussare?» prosegue, alzandosi in piedi e lasciando la chitarra distesa sul letto.

«È che... ho sentito la musica...» balbetto, abbassando gli occhi.

«Non è un buon motivo per scordare la buona educazione.»

«Non mi pare che tu, invece, ne sia un ottimo conoscitore», ribatto a denti stretti.

«Che cosa vuoi?» mi chiede spazientito.

Sollevo piano lo sguardo, incontrando i suoi occhi inquisitori. Mi avvicino a lui con calma, mentre lui mi studia torvo. Allungo la mano, porgendogli il carillon. Rhys lo guarda per qualche istante, corrugando la fronte, per poi tornare a fissarmi.

«Sai... sai aggiustarlo?» gli chiedo, timida e timorosa della sua reazione.

«Scusa?»

Prendo un altro respiro profondo e ripeto la mia domanda. Lui scruta l'oggetto e poi me. Ha ancora un'espressione poco contenta in volto.

«No», afferma infine, dopo aver esaminato sia me che il carillon.

Mi mordo il labbro inferiore, ritirando la mano e avvicinando l'oggetto al mio petto.

«Speravo che...» comincio. «Ha smesso di suonare da un momento all'altro.»

«Guardami», dice.

La sua voce profonda e il tono perentorio che ha usato mi fanno rabbrividire. Alzo gli occhi e incontro i suoi: mi sta fissando intensamente e in maniera enigmatica.

«Cosa ti ha fatto pensare che io potessi aggiustarlo?»

«Non lo so», ammetto sinceramente, cercando di sostenere il suo sguardo. «Non conosco praticamente nulla di te. Per quanto mi riguarda, potresti anche esserne capace.»

«Perché hai chiesto proprio a me?» continua.

«È un interrogatorio per caso?»

«Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda.»

Sbuffo e metto per l'ennesima volta il mio orgoglio in secondo piano.

«Perché sono disperata, ecco perché, altrimenti non te l'avrei chiesto», rispondo seccata. Le lacrime minacciano di tornare a scendere. «Per me questo carillon è... molto importante», concludo, pentendomi di aver rivelato un legame così viscerale ad un essere odioso come Rhys.

Non so cosa spero di ottenere: forse la sua pietà, o perlomeno un minimo di compassione; dubito, però, che abbia un cuore in grado di intenerirsi davanti alla mia afflizione.

Non può comprendere cosa rappresenta per me questo carillon. Anche se ci provasse, non riuscirebbe a cogliere fino in fondo il significato che esso racchiude in sé.

Rhys rimane muto a fissarmi, e interpreto il suo silenzio come un invito ad andarmene.

Mi giro, affranta. Sto per oltrepassare la soglia quando la sua voce rompe il silenzio.

«Ferma.»

Obbedisco, senza voltarmi.

«Forse conosco qualcuno che può aggiustarlo», dice.

Mi giro di scatto, incoraggiata dalle sue parole. Gli rivolgo un sorriso timido, avvicinandomi di nuovo a lui.

Prende il carillon dalle mie mani.

«Chi te l'ha dato?» domanda indifferente.

«Non è di tuo interesse. Direi che puoi finirla con il terzo grado.»

Mi rivolge un'occhiataccia, ma poi torna ad osservarmi con maggiore attenzione. La sua mano libera si solleva lentamente. Mi irrigidisco immediatamente, ma tengo gli occhi fissi nei suoi. Con il pollice mi sfiora la guancia umida: sta asciugando una lacrima che è sfuggita dal mio controllo.

Nelle sue iridi non colgo dolcezza, né compatimento. Non riesco ad interpretare i suoi sentimenti, quasi avesse una barriera a difendere le sue emozioni.

Perché non le lascia trapelare? Perché è così misterioso?

Il suo pollice indugia sulla mia guancia. Alterno i miei occhi nei suoi: anche controluce, vedo il loro colore. Ora somigliano al mare quando nelle sue acque si specchiano le nubi grigie di una giornata uggiosa. Li osservo con attenzione, leggendovi un tormento che lui cela con tutte le sue forza, ma che ora è visibile.

Sta abbassando le sue difese.

Ad un certo punto, Rhys assottiglia le labbra e si allontana da me repentinamente, spostando lo sguardo altrove.

Io rimango immobile, confusa dal suo atteggiamento.

Che razza di problemi ha?

Raccolgo tutto il mio autocontrollo per evitare di rivolgergli la domanda ad alta voce.

«Grazie», bofonchio frettolosamente, voltandomi per tornare nella mia stanza.

Voglio andarmene da qui prima che a Rhys venga in mente di cambiare per l'ennesima volta comportamento.

«Aspetta.»

Mi fermo di nuovo, con la mano sullo stipite della porta e l'altra sulla maniglia. Sento i passi di Rhys avvicinarsi a me.

Deglutisco velocemente, trattenendo il respiro.

«Grazie.»

Mi giro confusa.

«Cosa?» gli chiedo, attonita.

«Grazie», ripete con un tono serio.

«Non capisco...»

«Hai mantenuto il segreto con Shirley.»

Lo fisso, allibita.

Mi ha seriamente ringraziata?

Il mio volto deve essere talmente sconvolto ed incredulo che Rhys accenna un sorriso - impercettibile, minuscolo, quasi invisibile. Ma c'è. Non lo sto immaginando.

Non riesco a crederci. Non posso crederci.

Per un attimo mi domando che fine abbia fatto il Rhys di qualche attimo fa, ma decido di non lambiccarmi troppo.

«Figurati», dico con circospezione.

Deve essere una forma di follia momentanea, forse addirittura una trappola.

Mi allontano piano. Scendo le scale e, giunta all'ultimo gradino, mi giro. Rhys è ancora sulla porta, con in mano il carillon. Lo sta fissando.

Ha decisamente molti problemi.




« Spazio autrice »

Ecco a voi un nuovo capitolo! Spero possa piacervi!

Che ne pensate di questo momento Rhyssella? Come richiesto, è un momento biscuit free :)

So che ci ho messo un secolo a pubblicare, ma ho avuto molti impegni e, visto che le temperature equatoriali hanno lasciato posto ad una piacevole frescura, sono uscita dalla mia casa-cripta per esplorare il mondo e vedere se era ancora come lo ricordavo.

Vi ricordo che potete seguirmi sia su Instagram che su Tik Tok. Su entrambe le piattaforme mi chiamo  _scarlett.hamilton_  

Vi ringrazio infinitamente per le letture, i voti e i commenti. Vi voglio bene!

Scarlett Hamilton

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