Capitolo 11
Nel petto le sgorgò una tristezza così
pura da essere quasi una pace
– Sylvia Townsend Warner
Quando ho comunicato a Shirley la mia decisione, la sua gioia mi ha contagiata, e per un attimo mi sono convinta di aver fatto la scelta giusta; ma, adesso, mi ritrovo a tentennare. Non sono più sicura di voler davvero partecipare a dei casting e illudermi di ottenere una parte, anche se ciò che mi fa tergiversare è l'idea di essere preda dei ricordi.
«Senti qua: cercano dei sostituti per il ruolo di Elphaba... non ti piacerebbe?» propone Shirley.
Sta scorrendo vari siti sul mio portatile, alla ricerca di annunci interessanti e che possano aggradarmi, ma la verità è che in questo momento mi sto pentendo della decisione che ho preso e, per quanto mi sforzi, fatico a condividere il suo entusiasmo.
Non so se mi terrorizza maggiormente l'eventualità che io fallisca o che io ci riesca. Sono confusa e non comprendo i sentimenti che mi attanagliano il cuore, tanto che ho smesso di dare loro un peso rilevante: mi lascio semplicemente trasportare senza impegnarmi a dare loro un senso. I pensieri, invece, corrono da soli, veloci come cavalli incitati dai colpi delle fruste. Provo a seguirli, ma mi perdo in labirinti intricati che hanno un inizio e non un'uscita. Non mi oriento, e la mia mente è un luogo sconosciuto nel quale mi addentro timorosa, muovendomi a ritroso.
«Allora?» mi richiama Shirley.
Mi riscuoto e torno a darle le mie attenzioni.
«Non saprei», confesso. «È un bel ruolo, ma non mi ci vedo tutta verde, nei panni della Strega dell'Ovest. Non è tra i miei ruoli preferiti, ecco.»
Shirley annuisce e passa oltre, controllando sul telefono le pagine social delle produzioni teatrali attualmente attive nel West End, alla ricerca di qualche barlume di speranza.
«Sarebbe tutto più semplice, se avessi un agente», constato.
«Non abbiamo tempo per cercare anche quello», Shirley liquida in fretta il discorso.
Mi mordo le labbra e cerco di concentrarmi sulle pagine social e web che Shirley continua ad aprire, una dopo l'altra, alla ricerca del musical perfetto per me.
«Mi sa che alla fine dovrò provare a candidarmi per il ruolo di Elphaba.»
Shirley scuote la testa con vigore, senza proferire parola. La osservo, dubbiosa e interrogativa, ma, siccome lei non parla, non le faccio domande.
«Accidenti!» esclama ad un tratto, a voce alta. «Leggi qua.»
Gira il portatile per consentirmi di leggere e per un attimo non credo ai miei occhi.
«È uno scherzo?» domando, incredula.
«No!» mi risponde lei. «Che ne dici?»
«Shirley, si presenteranno un sacco di persone. Che possibilità ci sono che a dei casting aperti prendano me?»
«Perché non dovrebbero?» ribatte. «Senti, Rosela, devi smettere di screditarti: hai talento da vendere e poi lo vuoi. Non ti serve nient'altro.»
«Apprezzo il tuo affetto, ma c'è bisogno anche di molta fortuna, e di quella non ne ho affatto.»
«Dai, eri convinta fino a poco fa!» afferma, corrucciata.
«E lo sono ancora», mento. «Però stiamo parlando del ritorno di West Side Story a Londra. Saranno anni che non viene rappresentato nel West End. Immagina quante persone si presenteranno ai casting.»
«Innanzitutto, non hai letto bene», puntualizza, puntando l'indice contro lo schermo ed evidenziando con il cursore del mouse qualche linea. «Inviare il curriculum e un video in cui il candidato deve cantare una canzone a sua scelta di qualsiasi genere e compilare il form allegato con tutte le informazioni richieste», legge. «Sai cosa vuol dire? Che dopo la prima fase ci saranno solo le persone che li avranno convinti maggiormente.»
Mi torturo il labbro inferiore con i denti, valutando la proposta.
Che cos'hai da perdere?
L'idea di provare fa crescere in me una certa ansia che mi è difficile ignorare, ma una voce nella mia mente mi suggerisce che, se non provassi, probabilmente me ne pentirei per tutto il resto della mia vita.
«Però mi devi aiutare a scegliere la canzone.»
• • • • •
«Sei perfetta», mormora Shirley, allontanandosi da me di qualche passo per osservarmi meglio.
Sorrido, lisciandomi il tessuto del vestito che ho addosso: nulla di pretenzioso, ma abbastanza elegante e professionale, senza risultare baldanzoso. È di un verde pastello e delicato, la scollatura non è eccessivamente ampia e le maniche mi coprono le spalle. La gonna mi arriva poco al di sotto delle ginocchia. L'abbiamo acquistato il giorno stesso in cui sono stata contatta via mail per presentarmi alla fase successiva dei casting. Ero incredula, e forse ancora non ho metabolizzato la notizia.
«Credi che vada bene?»
Shirley annuisce.
«Mi sento un tantino nervosa», ammetto, passando nuovamente la mano lungo il tessuto per appianare una piega che in realtà non c'è.
«È normale, però sono certa che andrà tutto bene.»
«Vorrei avere la tua stessa fiducia.»
«Dovresti, dato che sarai la nuova stella dei teatri del West End.»
Arrossisco, perché ancora non mi sono abituata alla gentilezza sincera di Shirley: so che ciò che mi dice lo pensa per davvero, e non lo fa soltanto per pura cortesia; tuttavia, per me è strano sentire le sue parole. Mi supporta nonostante le mie insicurezze e malgrado non mi conosca da molto tempo, ed io non potrei che esserle grata.
«Mi dispiace che io non riesca a dimostrarti la mia riconoscenza come vorrei», le dico, stringendomi le dita per sfogare ansia e sensi di colpa.
Shirley scuote la testa e mi si avvicina, prendendomi le spalle.
«Non serve. Davvero. Ti voglio bene e so che anche tu me ne vuoi, non c'è bisogno che tu me lo dica. Immagino che faresti lo stesso per me perché sei una persona buona.»
Trattengo le lacrime per le parole che ha appena pronunciato.
Nessuno ha mai fatto così tanto per me pur conoscendomi così poco. Lei non ha idea di ciò che mi sono lasciata alle spalle, ma, nonostante questo, crede in me. È convinta che io sia buona, almeno tanto quanto lei, e non ha idea di quanto male ho fatto alle persone che più amavo.
«Ora andiamo», dice, prendendomi la mano.
Usciamo dall'appartamento e scendiamo in strada per salire sulla macchina. Shirley imposta il navigatore sul suo telefono: benché conosca Londra come le sue tasche, preferisce non imbottigliarsi nel traffico e perdersi alla ricerca di scorciatoie.
«Grazie per accompagnarmi.»
«Figurati. L'avrei fatto anche se non fosse stata la mia giornata libera.»
Con una manovra, Shirley prende la via principale e svolta a destra, ascoltando attentamente le indicazioni della voce femminile che proviene dal suo telefono.
Cerco di non pensare al luogo dove sto andando e cosa implica questo breve viaggio, perciò mi concentro sulla fila di case e costruzioni che sfilano dinanzi ai miei occhi: teatri, caffetterie e case dai mattoni rossi e ocra, con le imposte circondate da pietra grigia o bianca.
Shaftesbury Avenue è molto trafficata, tanto che più volte Shirley è costretta a fermarsi. I marciapiedi sono gremiti di persone che passeggiano godendosi il calore primaverile, mentre altri escono dai negozi reggendo tra le mani buste grandi e colme di prodotti appena acquistati.
Non mi sento affatto disorientata. Ho la sensazione di trovarmi a casa quando in realtà la mia è lontana miglia e miglia da qui; eppure, malgrado le ferite che ancora bruciano, sono tranquilla e so di essere al sicuro qui: nessuno mi conosce e nessuno mi punterà il dito contro.
«Hai riscaldato abbastanza la voce?»
Mugugno un assenso, impegnata a convincere il mio stomaco a starsene tranquillo. L'ansia mi fa sempre venire mal di pancia, e non credo sia il momento adatto per essere colti da fitte lancinanti.
«Hai preso una bottiglia d'acqua?»
«Sì, ho tutto. Non ti preoccupare.»
«Probabilmente ti faranno qualche domanda, hai qualche risposta pronta? Non vorrei che...»
«Shirley», la interrompo, prima che le sue parole aumentino la mia angoscia. «Non ti preoccupare.»
Apprezzo la sua apprensione ed il suo affetto, ma in questo momento avrei bisogno di una camomilla e di un calmante.
Restiamo in silenzio per il resto del tragitto, finché la voce del navigatore dice di svoltare a destra.
«Eccoci», mormoro dopo qualche minuto.
Alla nostra sinistra c'è il Superior Theatre.
Ancora non ci sono i manifesti che annunciano l'imminente inizio dello spettacolo. Di fronte alle porte in legno scuro c'è una lunga fila di donne e ragazze in piedi che attendono di poter entrare. Come me, devono aver inviato il video per poter fare il provino. Non riesco a considerarle mie rivali, forse perché ancora non sono del tutto convinta di ciò che sto facendo. In passato avrei tirato fuori le unghie pur di ottenere un ruolo in un musical come West Side Story; ma ora mi chiedo se sia davvero questo ciò che voglio fare.
Smettila di pensare a queste cose. Sei a Londra, nel West End. Sei davanti al Superior Theatre, è tutto quello che hai sempre sognato.
Prendo un respiro profondo e osservo attraverso il finestrino le colonne che dividono le numerose porte al piano terra. Al secondo piano, ampie finestre sono intervallate da delle lesene dai capitelli finemente decorati. L'architrave con il fregio svetta sulla facciata, dividendola dalla balaustra del balcone. Gli alberi ombreggiano metà della costruzione, ma le parti illuminate dal sole ne riflettono la luce accecante.
«Scendi qua, così vado a cercare un posto dove parcheggiare per aspettarti.»
Shirley accosta ed io apro velocemente la portiera, mentre lei urla un buona fortuna. La vedo ripartire in fretta, prima di beccarsi gli insulti degli altri autisti che affollano la strada.
Prendo un respiro profondo e mi incammino lungo il marciapiede, raggiungendo le altre ragazze in attesa di entrare per fare i casting.
Alcune parlano tra di loro, altre invece si studiano in cagnesco, scrutandosi dall'alto verso il basso. Le riconosco: ne ho conosciute molte, in Accademia, che avrebbero giocato carte false pur di ottenere i ruoli che desideravano, e non avevano scrupoli. Più che la passione, era l'ambizione a spingerle, insieme al desiderio di successo. Mi sono sempre tenuta alla larga da quel genere di individui, perché sapevo di che pasta erano fatti.
Mi avvicino ad alcune ragazze che stanno chiacchierando, ma resto in disparte.
Mi torturo le mani, percependo chiaramente l'ansia crescere man mano che i minuti passano. Mi pare quasi che lo stomaco si stia contorcendo in maniera innaturale.
Ad un certo punto, il brusio cessa e si sente soltanto il rumore del traffico.
«Seguitemi», dice una voce maschile.
La folla si muove nella direzione da cui proveniva la voce. Attraversiamo una delle porte, ritrovandoci nel grande salone d'ingresso. Il pavimento in marmo bianco con venature azzurre è talmente pulito che pare quasi che non sia mai stato calpestato prima della nostra venuta. Mi guardo intorno, estasiata: i lampadari appesi al soffitto sono spenti, ma i cristalli che li decorano rifrangono la luce del sole che entra dai vetri delle porte d'ingresso, creando un'infinità di minuscoli arcobaleni.
Imbocchiamo una scalinata e scendiamo i gradini ad uno ad uno.
Alcune ragazze confabulano tra di loro. Colgo nelle loro parole l'eccitazione per ciò che sta per succedere: ci esibiremo su un palco vero e proprio, in un teatro del West End, e tra di noi verranno scelte le migliori.
Realizzo solo ora che c'è una possibilità su chissà quante che io ottenga una parte, anche minima. Mi serve un impiego, perché - come dice Jason - i soldi non crescono sugli alberi; per questo mi accontenterei di far parte dell'ensemble, anche se ciò significa che dovrò mettere momentaneamente da parte i miei sogni - o quello che resta delle mie speranze adolescenziali.
Del resto, non puoi già al primo casting ottenere il ruolo della protagonista.
Ho sempre desiderato interpretare Maria: dolce, coraggiosa, ma soprattutto innamorata del suo Tony. Adesso, però, forse non lo voglio per davvero: ancora ho dei dubbi riguardo alla scelta che ho preso, e se non avessi almeno cinquanta ragazze dietro di me, risalirei i gradini fatti fino ad adesso per scappare via dal teatro.
Resisti. Ce la puoi fare.
Si tratta di cantare una canzone che ho già provato tante volte.
Se fosse solo quello il problema...
«Entrate qui, verrete chiamate una per volta», dice l'uomo che ci accompagnate, aprendo una porta e sparendo dietro ad un'altra.
Entriamo in un'immensa palestra vuota. A parte lo specchio che ricopre interamente una parete, gli altri muri sono spogli e grigi.
Vado a sedermi in un angolo, con le ginocchia tra le braccia. Alcune ragazze restano in piedi, saltellando sul posto per scaricare la tensione.
Al momento, l'ansia sembra scomparsa. Il cuore batte ad una velocità normale. Non sto sudando freddo. Le gambe non tremano. Lo stomaco non gorgoglia emettendo suoni imbarazzanti. Non ho paura. O forse sì: sono terrorizzata all'idea di scoppiare a piangere nel bel mezzo della canzone, perdendo quel briciolo di autocontrollo che ancora mi resta.
Perché ci sono un tempo e un luogo per tutto. Magari c'erano anche per noi, Flavio. Solo che non li abbiamo trovati, o non siamo stati in grado di crearli.
Prendo un respiro profondo e svuoto la mente da ogni pensiero capace di distrarmi. Ascolto le altre cantare la canzone e scaldare la voce.
Sono tutte elettrizzate. Io stono in questo ambiente: vorrei condividere il loro entusiasmo, ma non ci riesco, almeno non totalmente come avrei immaginato qualche anno fa. Ho paura di salire sul palco, perché so che cosa succederà: cercherò Flavio, ma lui non ci sarà. Penserò a lui che - ne sono certa - non sta pensando a me. Non dopo che gli ho rovinato la vita. Se mi pensa, mi etichetta come un errore, un incidente di percorso, e anche se non lo crede, si sforza di vedermi sotto questa luce per il bene di quel matrimonio in cui io ero l'intrusa.
La porta si apre all'improvviso e cala il silenzio.
«Ariana Pérez», pronuncia la stessa voce di prima.
Dalla mia posizione, non vedo la porta, né la ragazza che la attraversa dopo che è stata chiamata.
Non so quanto tempo passa: altre aspiranti attrici escono dalla porta per sostenere il provino, ma perdo il conto. Nessuna di loro torna indietro, e il brusio scema man mano che le persone nella palestra diminuiscono.
Controllo il cellulare: un messaggio di Shirley.
Break a leg. In bocca al lupo. Seguito da un cuore rosso e un fiorellino rosa. Sorrido dolcemente, rincuorata dalla sua tenerezza.
«Rossella Conticini.»
Sollevo lo sguardo. È la prima volta che qualcuno pronuncia correttamente il mio nome e cognome, senza ridurre le doppie ad un'unica lettera e non trasformando la c in una esse.
Mi alzo in piedi, con gli sguardi delle altre ragazze rimaste che mi scivolano addosso. Non riesco a decifrare le loro espressioni: curiosità? Competizione? Rivalità?
Afferro la bottiglia d'acqua che ho posato accanto a me e ne bevo un sorso per idratare la gola.
Muovo dei passi brevi e lenti verso la porta, dove mi attende un uomo sui cinquant'anni che tiene in mano dei fogli di carta, probabilmente una lista delle attrici da provinare.
L'uomo chiude la porta alle mie spalle e mi fa cenno di seguirlo. Proseguiamo lungo un corridoio, fino ad arrivare ad un'altra scalinata. Saliamo fino a che giungiamo in uno spazio poco illuminato con degli schermi e delle attrezzature elettroniche. Ci fermiamo davanti ad una tenda nera e l'uomo la tira: oltre ad essa c'è il palco.
«Vai», dice.
Obbedisco, sebbene abbia la sensazione che le mie gambe si siano trasformate in dolci di gelatina.
Cammino verso il centro del palco, posando la bottiglia vicino alla tenda da cui sono entrata. I riflettori sono spenti, ma non capisco da dove provenga la luce. Non mi guardo intorno: non sono affatto curiosa di scoprire com'è fatta la sala, se il soffitto è affrescato, se i palchi sono dorati. Ora non mi interessa. Ciò che conta è riuscire a superare dignitosamente questo provino, in qualunque modo vada.
Punto i miei occhi sulle poltroncine. In terza fila siedono cinque persone, tre uomini e due donne. Tra le mani tengono dei fogli e delle penne, e stanno confabulando tra di loro. Quando notano la mia presenza, tacciono e rivolgono tutta la loro attenzione a me.
«Nome?»
«Rossella Conticini.»
Una delle donne scorre il dito lungo uno dei fogli che tiene in mano, dopodiché annuisce.
Ed eccola, l'ansia. Il cuore comincia a battere ad una velocità maggiore, le gambe mi tremano e per un attimo temo di perdere l'equilibrio e cadere per terra per l'emozione.
È passato quasi un anno dall'ultima volta che ho messo piede su un palco, in occasione di uno spettacolo in Accademia. Ho la sensazione di aver perso l'abitudine e di non ricordare assolutamente come muovermi e, soprattutto, come non muovermi.
Prendo un altro respiro profondo, nel disperato tentativo di ingannare il panico, convincendomi di essere tranquilla. Provo a concentrarmi sulle domande che mi vengono poste, rispondendo come un robot. Mi chiedo se sto dicendo cose corrette - o perlomeno sensate - ma l'ansia mi impedisce di comprendere appieno ciò che sta avvenendo intorno a me.
Quando sento le prime note della base, mi costringo a restare ferma. Il mio primo impulso è di scappare, senza nemmeno un saluto alle cinque persone sedute sulle poltroncine rosse in terza fila. Non so i loro nomi, né loro si sono premurati di presentarsi. Mi domando se è un cattivo segno o semplicemente non è loro interesse dilungarsi in convenevoli inutili.
Perché ho accettato la proposta di Shirley? Perché ho dato retta a Jason? Perché ho inviato quel video? Perché mi sono presentata qui, oggi?
Eppure, malgrado i miei tentennamenti, non appena giunge il momento inizio a cantare.
È inevitabile. Fa parte di me e della mia natura.
Abbiamo dovuto preparare tutte la stessa canzone. Somewhere: un inno di speranza, anche se contaminato dalla tristezza.
Tony e Maria: i Romeo e Giulietta dell'Upper West Side, a Manhattan. Appartenevano a due mondi contrapposti, apparentemente inconciliabili, ai quali era richiesta fedeltà; ma nonostante questi presupposti, a loro era bastato vedersi per innamorarsi e capire di voler trascorrere il resto della loro vita insieme. Un amore innocente e puro, sincero e dolcissimo, ma rovinato dall'odio di chi avevano intorno, distrutto da quel contesto sociale dal quale loro volevano fuggire per cercare una realtà migliore in cui i loro sentimenti non sarebbero stati etichettati come una colpa.
Forse per questo, dopo aver conosciuto Flavio, ho iniziato ad apprezzare maggiormente questo musical che già mi piaceva: rivedevo, in Tony e Maria, la nostra relazione, malgrado vi fossero delle differenze; però, ripensandoci adesso, sarebbe stato meraviglioso trovare una nuova realtà dove le cose tra noi non dovevano per forza finire. Una realtà in cui vivere insieme gli anni migliori, amandoci a vicenda e condividendo le esperienze più banali. Una realtà in cui non comportarci da clandestini.
Sono certa che c'erano un luogo e un tempo per noi. Un luogo stupendo, dove maturare insieme, dove poterci amare alla luce del sole. Un tempo giusto, infinito. Perché ho dovuto chiudere quella parentesi che siamo stati, dando una conclusione ad un libro che speravo durasse in eterno benché sapessi che non ce n'era alcuna possibilità.
E ti avrei preso per mano, Flavio. Ci saremmo stretti l'uno all'altro, incamminandoci verso quel mondo dove amarci non era un errore. Dove non c'erano ostacoli. Dove tu non indossavi quella fede. Dove tu non avevi già fatto delle promesse ad un'altra donna. Dove quelle promesse avresti potuto farle a me.
Ogni singola cosa che faccio, penso, dico, vedo... tutto mi riporta a te. E fa male. Fa male perché da te non ci posso tornare. Perché non esiste un posto né un tempo in cui amarci sarebbe stato giusto; eppure continuo a crederci: forse esiste, fosse anche solo nella mia mente. Io resto aggrappata al tuo ricordo con la disperazione di un capitano che non vuole abbandonare la sua nave perché ciò significherebbe perdere se stesso. Preferisce affondare insieme all'unica cosa che ha amato più della sua vita, piuttosto che lasciarla in quell'ultimo attimo che la separa dalla fine. Lo stesso vale per me. Probabilmente non dovrei, ma lo faccio comunque.
E anche se quel posto e quel tempo esistono solo nel mio cuore, vorrà dire che vivremo lì, tra le pagine di un libro che non ha epilogo, tra le note di una canzone eterna, tra i miei sogni che, nonostante tutto, sono animati dalla tua presenza, poiché quando mi sveglio tu non ci sei.
Un ultimo acuto e la canzone finisce. Dentro mi sento a pezzi, ma percepisco che le mie guance sono asciutte. Non ho pianto. Sono riuscita a controllarmi, arginando l'uragano.
Abbasso lo sguardo per osservare i cinque individui che immagino debbano giudicare il mio provino. Mi osservano, si guardano tra di loro, scarabocchiando qualche cosa sui loro fogli.
«Grazie mille, ti faremo sapere», afferma uno dei tre uomini.
Annuisco, ancora inebetita, e ritorno da dove sono venuta, riprendendo la bottiglia e stringendola tra le mani con veemenza, tanto che la plastica si deforma sotto le mie dita, scricchiolando. L'uomo che mi ha accompagnata prima mi riporta al salone di ingresso. Mi saluta sbrigativamente, dicendomi che sono libera di andare.
Esco dal teatro con le gambe che mi tremano. La luce del sole mi acceca, perciò schermo i raggi con la mano, avvicinandola alla fronte. Mi dirigo dietro ad un albero per restare qualche istante all'ombra, così da prendere del tempo per metabolizzare quanto è appena accaduto.
Ho cantato. Ho cantato davanti a delle persone. Erano solo cinque, ma pur sempre delle persone esperte nel loro campo. E mi stavano giudicando. Dalle loro opinioni dipende il mio futuro.
Me ne rendo conto solo ora.
Ho le mani sudate e la gola secca. Riapro la bottiglia e con pochi sorsi finisco tutta l'acqua rimasta. Emetto un sonoro sospiro e scuoto la testa.
Non riesco a crederci: ho appena sostenuto un provino davanti a dei veri e propri professionisti, in un teatro londinese di grande prestigio ed importanza. Non so se ridere o piangere. Non ho idea di che cosa provo in questo momento.
Prendo il telefono dalla tasca della gonna e chiamo Shirley.
«Fatto?»
«Sì.»
«Arrivo subito.»
Attendo che arrivi a prendermi, ancora appoggiata al muro del teatro. Quando vedo comparire la sua auto, pochi minuti dopo, mi precipito sul bordo del marciapiede per salire.
Apro la portiera e mi siedo sul sedile come un peso morto, allacciando la cintura anche se questa scivola più volte dalle mie mani.
«Come mai tanta fretta?»
«Non lo so», ammetto. «Però ho bisogno di andare via da qui.»
«Il provino è andato male?» mi chiede Shirley, preoccupata.
«No. In realtà non ne ho idea. Solo sono ancora tesa e voglio calmarmi.»
Shirley sorride e mette in moto.
«Sicuramente sono rimasti colpiti da te.»
«Vorrei poter concordare con la tua affermazione.»
«Ed io vorrei che tu credessi di più in te stessa», ribatte. «Se non credi tu nelle tue capacità, perché dovrebbero farlo gli altri?»
Annuisco, sapendo che ha ragione.
«E adesso», dice, «andiamo a mangiare un gelato per festeggiare.»
«Ancora non sono passata alla prossima fase, Shirley», puntualizzo.
«Ti hanno chiamata e hai sostenuto il provino. Direi che è già un buon motivo per festeggiare.»
Sorrido, sentendo la tensione diminuire. Shirley ha il potere di tranquillizzarmi, e non le sarò mai abbastanza grata.
• «Spazio autrice» •
Salve a tutti, miei amici lettori! Fino ad ora non mi ero mai espressa alla fine dei capitoli, però questa volta volevo e dovevo dire alcune cose.
Innanzitutto, desidero ringraziarvi per tutte le visualizzazioni, i voti e i commenti. "In the middle of the night" sta crescendo soprattutto grazie a voi, che leggete i capitoli e mi dimostrate il vostro affetto. Voglio bene ad ognuno di voi, anche ai lettori silenziosi che non si sono mai esposti.
Nel capitolo ho menzionato un certo "Superior Theatre"; ebbene: non esiste, di certo non a Londra. Ho deciso di inventare questo posto perché spesso è difficile trovare immagini di interni di teatri, se non grazie a foto scattate dai membri del cast o dello staff tecnico degli spettacoli. Oltretutto, alcuni teatri londinesi ospitano esclusivamente un'unica produzione.
All'inizio del capitolo ho inserito la canzone cantata da Rossella durante il provino. Io la amo!
Spero che il libro fino ad ora vi stia piacendo. Se volete, lasciate un commento, anche breve, e fatemi sapere se desiderate altre "postfazioni" a fine capitolo! Soprattutto, ditemi che cosa ne pensate della storia e dei personaggi: spero che Rhys, Rossella, Shirley e Jason stiano entrando nei vostri cuori.
Vi voglio bene!
• Scarlett Hamilton •
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