Capitolo 10
Non bisognerebbe affliggersi per
ciò che è stato ed è senza rimedio
– William Shakespeare
Malgrado non abbia bevuto alcolici, mi sveglio con un dolore alla testa martellante. Mi chiedo come si senta Jason, che ha mandato giù tre bicchieroni di vodka e già dopo il primo dava chiari segni di ebbrezza.
Mi massaggio le tempie, benché io sappia che questo gesto non allevierà il male. Mi alzo dal letto, intorpidita: dopo aver trascorso quasi due settimane come una moribonda depressa, sdraiata oppure seduta sul materasso, i miei muscoli non sono più abituati a movimenti agonistici, del tipo uscire dalla stanza per andare in luoghi più lontani del bagno.
Mi dirigo verso la cucina, dove Shirley sta facendo colazione mentre smanetta sul telefono. Solleva lo sguardo e mi regala un sorriso. Mi domando dove trovi la forza per essere felice anche quando è sveglia da poco.
«Oggi sei mattiniera», dice.
Annuisco, strofinandomi le palpebre e reprimendo uno sbadiglio. Siamo tornati a casa che era quasi l'una e mezza, ma, nonostante il sonno che avevo quando mi sono coricata, ho dormito pochissimo. Continuavo a rigirarmi nel letto, ripensando a quello che era successo: io che cantavo, io che ricordavo Flavio, io che tremavo e cercavo nel mentre di sostenere il mondo che stava per crollarmi di nuovo addosso.
È incredibile quanta forza si celi nei ricordi, anche i più banali. Hanno il potere di dare una felicità immensa, ma possono anche distruggere tutto, proprio come un tornado che trascina via ogni cosa che disgraziatamente si trova lungo il suo imprevedibile passaggio. I ricordi sono così: coltelli affilatissimi che si mascherano dietro l'aspetto di cure lenitive. E sebbene io sappia che possono tramutarsi in zavorre pesantissime in grado di trascinarmi nell'abisso, spesso mi ci aggrappo con vigore.
«Ti ho lasciato delle brioche», con un cenno del capo, Shirley indica una confezione aperta accanto al lavandino. «In frigo c'è del latte, il tè è finito.»
Prendo una brioche e la poso sul tavolo, dopodiché tiro il latte fuori dal frigo e ne verso un poco in un pentolino che metto sul fuoco per scaldarlo.
«Sai se Jason è ancora vivo?» le chiedo, mentre cerco la polvere di cacao nel mobile sopra i fornelli.
«Adesso starà dormendo. Sarebbe strano se a quest'ora fosse già sveglio, dopo la sbornia di ieri sera.»
Butto un'occhiata sul telefono di Shirley per vedere l'ora: sono le nove e mezza.
«Magari dopo vado a vedere come sta», propongo.
Mi piacerebbe parlargli, dopo quello che mi ha confessato ieri sera. Per quanto fosse quasi incosciente e probabilmente nemmeno sapeva cosa stesse dicendo, mi sono sentita improvvisamente affine a lui: entrambi innamorati di chi non dovremmo, condividiamo gli stessi sentimenti e pensieri e la medesima afflizione.
«Aspetta mezzogiorno. Prima è probabile che nemmeno ti senta, e se ti sentisse rischieresti la vita.»
Annuisco e verso il latte nella tazza, aggiungendo della polvere di cacao. Mi siedo accanto a lei e apro la confezione di plastica della brioche.
«Comunque non mi aspettavo che cantassi così bene», afferma ad un certo punto.
Smetto di masticare per fissarla dritto negli occhi, presa alla sprovvista. Nutrivo la vana speranza che l'argomento tu hai cantato ieri sera non venisse menzionato ed anzi cadesse nel dimenticatoio.
«Ti ringrazio per il complimento», mugugno, con l'intenzione di chiudere la conversazione al più presto.
Lei scuote la testa e mi afferra la mano libera.
«Davvero. Hai una voce bellissima. Sembrava che tu credessi davvero in ciò che stavi cantando. Non so come spiegarlo…»
Io invece so esattamente cosa vorrebbe dirmi, ma ormai è troppo tardi per cambiare argomento.
«Non ho fatto nulla di straordinario», minimizzo.
«Scherzi? Certo che l'hai fatto! Non è una canzone facile, ma hai saputo cantarla bene ed interpretarla con altrettanta bravura.»
«Non esagerare», dico, arrossendo per l'imbarazzo.
«Non sto affatto esagerando», ribatte, e la sua voce si fa seria. «Perché non sfrutti il tuo talento? Potrebbe diventare un lavoro.»
«No», è la mia risposta secca e decisa.
«Perché no?»
«Perché non fa per me. È fuori discussione», affermo, per poi rendermi conto di essere stata eccessivamente dura con lei, che vuole solo aiutarmi. «Mi spiace, Shirley, ma non voglio che questo diventi un lavoro. È una storia complicata.»
Lei soppesa le mie parole, guardandomi intensamente. Stringe le labbra, concentrata. Pare alla ricerca di una risposta che le sfugge.
«Era il tuo sogno, non è vero?»
Le sue parole mi colpiscono dritto in faccia, come ceffoni inaspettati.
Perché forse non è vero che so nascondere bene la mia anima rotta ed intricata, fatta di schegge, desideri inattesi, attenzioni cercate e mai ricevute, rimorsi e sensi di colpa. Forse leggermi dentro è più facile di quanto io creda, e per molto tempo mi sono convinta che fosse il contrario.
La mano di Shirley si stringe con più forza attorno alla mia, ed io mi ci aggrappo perché non voglio piangere di nuovo. Non ora. Ho già versato troppe lacrime.
«Non c'è nulla di male a sognare», mi rassicura.
«Non è quello il problema», sussurro, tenendo lo sguardo basso per proteggermi.
Ho paura che possa leggere in me più di quanto abbia già visto.
«Rosela», richiama la mia attenzione. «Io non so cos'è successo, ma ti ho sentita cantare e credo che tu sia straordinaria.»
«Apprezzo le tue parole, però…»
«No, ascoltami», mi interrompe. «Ho visto che stanno cercando nuovi attori per varie produzioni di musical. Infiammeresti i palchi del West End con la tua voce e la tua interpretazione.»
Scuoto la testa con quanto più vigore riesco ad ostentare in questo momento. Le sue parole pungolano la parte di me che ho messo a tacere, ricordandomi i sogni di cui mi sono nutrita a lungo. I palchi, l'adrenalina, la musica, gli applausi, le luci… erano il mio pane quotidiano e non c'è stato un singolo istante in cui io non abbia lottato per raggiungere il mio obiettivo: sognavo in grande e mi immaginavo sui palchi di Broadway e del West End.
Ho amato il mondo del teatro con tutta me stessa, perché nei panni di qualcun altro potevo essere davvero me stessa, senza filtri e senza remore.
Ma ora…
Ora quel sogno mi ricorda Flavio. Perché lui ci credeva e mi incitava a non mollare.
«Verrò a vederti a Broadway, ne sono convinto», mi disse una volta, e le sue parole mi infondevano la giusta speranza per affrontare le ore di prove e di studio prima degli spettacoli in Accademia.
Era orgoglioso di me, dei miei sforzi e della mia passione. Spesso avevo l'impressione che lui ci tenesse più di me, ma sapevo che in realtà voleva solo vedermi felice, perché i musical ed il teatro erano il mio piccolo universo di serenità.
Quando tra noi è finita, insieme a lui ho lasciato andare anche quel sogno che avevo coltivato, come una pianta che va curata con dedizione e costanza. Anni di studi e di zelante ardore, all'improvviso, mi erano parsi una perdita di tempo, ora che ogni singola cosa che facevo, vedevo e sentivo la ricollegavo a lui.
La sua assenza mi torturava, e l'idea di lui che permeava qualunque cosa avessi intorno mi dilaniava con una crudeltà maggiore. Tutto era divenuto uno scrigno di ricordi che non potevo sostenere. Persino quella che era da sempre la mia passione si era trasformata in uno strazio; e così come ero fuggita dal mio Paese, sono scappata persino dall'unica cosa che fin da piccola mi rendeva felice.
«So che tu dici queste cose per il mio bene… e so anche che forse non ti sto mostrando la mia riconoscenza per tutto quello che fai per me… ma non voglio provare», trovo il coraggio di dire, scacciando le sue parole il più lontano possibile dal mio cuore.
Shirley si morde il labbro, scuotendo il capo come chi non accetta la risposta appena ricevuta perché non è convinto che essa sia veritiera.
«Perché non vuoi? Sono sempre stata discreta e ho rispettato la tua reticenza, ma ora devi farmi capire come mai ti rifiuti senza nemmeno fare un tentativo»
Perché comunque vada mi farei del male.
Se riuscissi ad ottenere una parte, anche minima, dovrei convivere con i ricordi ogni istante, dalle prove agli spettacoli. L'ombra di Flavio e di quello che siamo stati mi accompagnerebbe dovunque, senza mai abbandonarmi. Se andasse male, ripudierei per sempre le mie speranze, e mi sentirei davvero un'inetta incapace di trovare il proprio posto nel mondo.
«Non bisognerebbe rinunciare ai propri sogni», continua lei, e dal tono della sua voce capisco che non sta parlando solamente a me, ma anche a se stessa.
La guardo e, come ieri, colgo nei suoi occhi un velo di tristezza e serietà che non lascia spazio alla sua solita gioia.
«Magari… magari ci penserò. Va bene?» propongo, così da tenerla a bada per un po'.
Shirley sorride trionfante, e dal suo volto scompare quel cipiglio malinconico.
«Fantastico! Ora vado al lavoro, ma quando torno possiamo riparlarne se ti va.»
Annuisco, poco convinta. Già so che anziché pensare alla sua proposta di fare dei casting mi arrovellerò su una possibile scusa per rimandare il discorso.
Shirley si alza in piedi ed indossa le scarpe, per poi salutarmi e uscire, lasciandomi sola nel silenzio dell'appartamento, sovrastato dall'affollamento caotico dei miei pensieri. Farei qualsiasi cosa per farli tacere, perché l'assenza di rumore, in questo momento, mi fa molta meno paura.
Lascio la brioche sul tavolo: ho lo stomaco chiuso, dopo la proposta che mi ha fatto Shirley, e non credo di poter mandare giù nulla. Mi sforzo di bere il latte, anche se ormai è solo tiepido.
Potrei pensarci. Potrei darmi una possibilità.
Scuoto la testa, per far tacere la parte di me ancora legata al passato, che non ha mai smesso di rammentare il modo in cui mi batteva il cuore non appena salivo su un palco. Non mi importava se il ruolo ottenuto era minore e non quello della protagonista: raccontare una storia attraverso l'arte del canto e della danza era ciò che mi aveva fatto innamorare tempo addietro dei musical, e farne parte mi rendeva estremamente felice. Non c'era nient'altro al mondo che avrei voluto.
Ma ora non lo vuoi più.
E se stessi solo cercando di convincermi? E se in realtà io non desiderassi altro che tornare su un palco e cantare, ballare, e cantare ancora?
Io lo so - ne ho la certezza assoluta - che, se realizzassi quel sogno accantonato, alla fine dello spettacolo solleverei lo sguardo per cercare Flavio, nascosto nell'oscurità.
«Considerami il tuo Fantasma dell'Opera», scherzava lui, per sdrammatizzare, paragonandosi a quell'uomo che, dal suo palco privato del Palais Garnier, ascoltava la sua amata Christine cantare. Solo che Flavio non aveva un palco tutto suo e non si nascondeva per via del suo volto sfigurato, ma perché nessuno doveva collegare la sua presenza alla mia. Doveva fingere di capitare lì per caso, invitato da uno degli studenti, e non si doveva sospettare che l'invito venisse da me.
Brancolavamo nel buio, come criminali che fuggono dalla loro pena e vivono ogni istante con il terrore di essere scoperti.
Veniva sempre per applaudirmi, per ascoltarmi, devoto ed innamorato tanto quanto lo ero io, e non mi rendevo conto di quanto fosse sbagliato quello che stavamo facendo.
Strizzo le palpebre per allontanare i ricordi dalla mia mente prima che questi possano intrappolarmi nella loro gabbia dorata di piacere promesso e mai reso per davvero. Cerco di distrarmi, concentrandomi su pensieri più futili e distanti dal passato.
Il mio sguardo si posa sulla scala che conduce alla stanza di Rhys. Mi rendo conto che forse sta ancora dormendo, reduce anche lui di una serata che, dallo sguardo di tacita rassegnazione che aveva, probabilmente avrebbe evitato.
Per un attimo mi immagino di irrompere nella sua stanza con irruenza, facendo quanto più baccano possibile, in modo da disturbare il suo sonno e svegliarlo.
Sarebbe meraviglioso. Sarebbe malefico. Soprattutto malefico.
Alla fine decido di non cercare ulteriormente la sua ostilità.
Ripenso all'atteggiamento che aveva ieri sera e mi chiedo che problemi abbia: mi ha ignorata per tutto il tempo, evitando di guardarmi, ma poi, una volta rimasti soli, i nostri sguardi si sono incrociati. Mi stava fissando con insistenza da chissà quanti minuti, e dentro di me, non appena i miei occhi hanno incontrato i suoi, ho percepito nuovamente quella strana ed inspiegabile sensazione. L'inquietudine si è impadronita di me, facendomi accelerare il battito, e ho avuto l'impressione che lui stesse scavando in profondità alla ricerca del mio passato.
È sorprendente il modo in cui lui mi faccia sentire priva di difese, quasi fosse in grado di scardinare ad uno ad uno i lucchetti che ho posto lungo le mie barriere. Mi dico che è solo una mia impressione, ma ho paura di sbagliarmi.
Sospiro, alzandomi in piedi per uscire e prendere una boccata d'aria. Immagino che se restassi chiusa in casa impazzirei o tornerei a disperarmi nel letto senza concludere nulla che possa essere anche solo lontanamente costruttivo.
Torno in camera per cambiarmi, mi metto le scarpe ed esco sul pianerottolo. Lancio un'occhiata verso la porta di Jason. Controllo l'ora sul display del telefono: sono passate da poco le dieci e probabilmente lui sta ancora dormendo; tuttavia, l'istinto mi spinge ad avvicinarmi al suo appartamento e bussare, malgrado l'avvertimento di Shirley. Resto in piedi qualche minuto, in attesa di una risposta. Sento dei versi inarticolati provenire dall'interno, segno che probabilmente lui è già sveglio. Non faccio in tempo ad appoggiare l'orecchio contro la superficie liscia del legno che Jason spalanca la porta.
«Che cosa vuoi?»
Lo squadro da capo a piedi: indossa una vestaglia blu notte ed è scalzo. Ha la faccia stravolta e delle borse profonde sotto agli occhi, che possono tranquillamente entrare in competizione con le mie.
Mi ricompongo e mi schiarisco la voce.
«Ecco, io…»
«No!» esclama lui, massaggiandosi le tempie e arricciando la bocca in una smorfia di fastidio. «Non urlare, ti prego.»
«Non sto urlando», sussurro.
«Abbassa la voce ed entra, ma ti scongiuro di non gridare.»
Annuisco, grata di vedere che perlomeno è ancora vivo: già mi figuravo il suo corpo riverso a terra e incosciente.
Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, mentre Jason mi precede dentro casa e si butta sul divano. Rimango ferma sull'uscio per esplorare con lo sguardo il suo appartamento.
Vengo immediatamente colpita del numero di libri che fanno bella mostra di sé sugli scaffali bianchi che ricoprono tutte le pareti, lasciando libere solo due porte, l'angolo cottura e una grande finestra dalla quale intravedo un minuscolo balcone. Il divano sul quale Jason si è buttato è sotto una scaffalatura a ponte, anch'essa piena di libri. Al centro della stanza vi è un tavolo rotondo di legno scuro, con tre sedie abbinate. L'ambiente è rischiarato dalla luce che proviene dall'esterno.
«Jason… il tuo appartamento è uno spettacolo», affermo, sinceramente stupefatta dall'enorme quantità di libri allineati sulle mensole.
«Risparmia i complimenti per quando la mia testa non sarà sul punto di esplodere», taglia corto lui, coprendosi la faccia con una maglietta scura acciuffata dal pavimento.
«Vuoi che ti prepari un caffè?»
Lui resta in silenzio, forse soppesando la mia proposta da vicina caritatevole, per poi mugugnare qualcosa che interpreto come un assenso.
Mi dirigo verso l'angolo cottura e armeggio con la moka che trovo nel mobiletto sopra il lavandino, cercando di preparare il caffè silenziosamente in modo da non urtare i suoi nervi.
«Sei un angelo», mormora lui, ed io sorrido.
«Almeno adesso non mi farai domande da maniaco.»
Lo sento sbuffare nonostante il gorgoglio del caffè nella moka, che comincia a spandere nella stanza un profumo inconfondibile e che sa di casa e di pace.
«Come mai già sveglio?»
«Me lo chiedo anche io», grugnisce sconsolato.
Quando il caffè è pronto, lo verso in una tazzina e la porgo a Jason, che si mette a sedere con uno sforzo immane.
«Forse non dovresti esagerare con l'alcol. Mi sembra che non andiate molto d'accordo.»
Lui fa roteare gli occhi, pentendosene subito perché si porta di nuovo la mano alla tempia.
«Non iniziare a comportarti come una madre», sbotta, sorseggiando piano il caffè.
«Ti sembra il caso di stare così male?» gli chiedo.
«Le mie decisioni non ti riguardano.»
Comprendendo che si sta per chiudere a riccio, provo a cambiare tattica. Gli prendo una mano tra le mie e gli sorrido con affetto.
«Suvvia, non parlare così. In fondo mi sto solo preoccupando per te.»
Lui mi guarda titubante, stringendo gli occhi.
«Perché dovresti preoccuparti? Non siamo amici», sottolinea.
Alzo le spalle, per fargli capire che la cosa non mi interessa.
«Anche se non siamo amici, nulla mi impedisce di essere in pensiero per te», gli rispondo, studiando la sua reazione.
Lui cerca di nascondere un sorriso imbarazzato dietro ai bordi della tazzina.
«Come mai sei venuta?» mi domanda, chiaramente per cambiare discorso.
«Volevo assicurarmi che dopo la sbornia di ieri avessi ancora la capacità di intendere e di volere.»
Jason mi passa la tazzina ormai vuota, ed io mi alzo per posarla nel lavandino.
«Vuoi che lavi i piatti?» con un cenno indico la pila di stoviglie che giacciono accanto al lavabo in attesa di qualcuno che restituisca loro lo splendore che possedevano prima di trovarsi lì.
«No, lascia stare. Me ne occuperò io poi, tu stai già facendo abbastanza.»
Torno accanto a lui, che si sposta lasciandomi posto sul divano.
«Sei stata gentile», prosegue, non senza una certa esitazione. «Insomma, ci conosciamo appena e tu probabilmente mi consideri ancora un pervertito… ma malgrado ciò sei qui. E mi fa piacere.»
Gli sfioro timidamente il braccio.
«Sai… sono venuta qui anche per un altro motivo.»
Lui annuisce, incuriosito.
«Ieri sera… ecco… hai detto delle cose…»
«Oh, se ti ho proposto di venire a letto con me, ignora la cosa: so di essere attraente, ma non sei decisamente il mio tipo.»
«Molto modesto», constato. «E comunque non riguarda questo.»
La preoccupazione si dipinge sul volto di Jason.
«Ecco… hai detto qualcosa riguardo al fascino di Rhys… be', io credevo voi due, insomma… foste una coppia, però evidentemente…»
Mi interrompo, scrutando con attenzione l'espressione di Jason. La sua preoccupazione muta presto in rassegnazione. Sorride mestamente, annuendo piano.
«Menomale che non ero così ubriaco da dire direttamente a lui queste cose», scherza, ma dal suo tono capisco che sta solo cercando di combattere la malinconia.
«Io capisco quello che provi. Fidati.»
«Allora sai quanto è difficile», dice, puntando lo sguardo in un punto indefinito.
So cosa sta succedendo nella sua mente in questo preciso istante: sta riavvolgendo il nastro della memoria, alla ricerca dei momenti che gli hanno fatto sperare che quel suo amore fosse possibile e realizzabile, attimi che lo hanno reso tremendamente felice tanto da fargli toccare il cielo con un dito; e forse sta ignorando i fotogrammi del passato in cui invece si rende conto di avere nel cuore solo vane speranze che ha costruito lui stesso su fragili fondamenta.
«Però va bene così», riprende poco dopo, scuotendo la mano come a scacciare i pensieri dietro ai quali si stava perdendo. «Passerà.»
«Vorrei poter dire la stessa cosa», mormoro, sentendo una stretta al cuore.
Dicono che un giorno ci si dimentica pian piano del dolore e che il passato resta tale, quando ci si rassegna al tempo che scorre e si abbraccia il presente con fiducia; tutti, però, ignorano lo sforzo che ci vuole per riuscirci davvero, senza esitazioni, senza più guardare indietro.
«Ti va di parlarne?»
Alzo le spalle: a dire la verità, preferirei portarmi i miei segreti nella tomba e non farne parola con nessuno, ma il desiderio di liberarmi del peso che mi opprime mi solletica con insistenza, tanto che alla fine cedo.
«È che ho amato una persona, e questa ricambiava», sospiro, e chiudo gli occhi un attimo per vedere nella mia mente il volto di Flavio farsi vivido, quasi non fosse un mero ricordo. «Però non avremmo dovuto stare insieme. Non potevamo.»
Jason fissa i suoi occhi nei miei. Nel suo sguardo non colgo pietà, bensì comprensione, e questo mi spinge ad andare avanti.
«Sai: Shirley mi ha proposto di partecipare a dei casting e fare la performer. Amo i musical da sempre, ma ora mi fanno ripensare quella persona e non so se avrò le forze di affrontare i ricordi», concludo.
Jason resta in silenzio a lungo, ed io provo a capire che effetto abbiano fatto su di lui le mie parole.
«Non so nemmeno perché ti ho raccontato queste cose», mi affretto a dire, sentendo le guance infiammarsi per la vergogna. «Perdonami.»
«No», Jason scuote la testa e prende le mie mani tra le sue. «Non devi scusarti. Però ora permettimi di farti una domanda: che cosa ci perdi nel tentare?»
Rifletto per un attimo, distogliendo lo sguardo.
Che cosa perderei?
Forse solo del tempo.
E che cosa ci guadagnerei invece?
Chi può dirlo? Magari il lavoro dei miei sogni di bambina, o solo la consapevolezza di essere abbastanza forte da poter affrontare il passato a testa alta senza essere sconfitta dalla potenza che ho dato io stessa a quei ricordi.
Mi mordo il labbro, indecisa.
«Tu credi che io debba provare?»
«Secondo me sì», risponde deciso. «Non lasciarti fermare dall'importanza che hai dato a questa persona, perché i tuoi sogni hanno la precedenza: restano e maturano con te, a differenza della gente.»
Le sue parole entrano in me e mi infondono la fiducia che da molto tempo ho perso. Riecheggiano nella mia mente come il suono delle onde del mare dentro le conchiglie. Prendono piede nel mio cuore e dissolvono la nebbia che l'aveva offuscato.
Per un attimo accarezzo l'immagine di me, in piedi su un palco, alla luce dei riflettori, con la mia voce che riempie la sala e la musica che mi trasporta via, in mondi lontani accessibili a chi si lascia trascinare dalla magia della rappresentazione. Mi vedo ballare, con la gonna del costume di scena che ondeggia ad ogni mio movimento. E penso a quanto sarebbe bello vivere di nuovo queste percezioni cui ho rinunciato per timore che mi uccidessero più dei sensi di colpa.
Ma adesso voglio essere felice. Voglio andare oltre al rammarico che provo e dimostrare a me stessa che posso sorridere di nuovo, nonostante tutto.
«E allora ci proverò», affermo decisa.
Jason solleva la mano per battere il cinque, in segno di approvazione.
«Ora ti lascio riposare», gli dico, alzandomi dal divano e raggiungendo la porta, prima di voltarmi per aggiungere: «Anche se sei un pervertito, spero che tu possa trovare l'uomo giusto per te. Lo meriti davvero».
«Ti ringrazio», mormora sorpreso, ma sinceramente grato delle mie parole.
Esco dall'appartamento di Jason con lo stomaco attorcigliato, consapevole di essere sul punto di fare un passo avanti.
Sto per farlo davvero.
Uscirò dalle mie barriere, arrancando probabilmente, ma presto alzerò la testa orgogliosa. Ho la certezza che farà ancora male, ma, piuttosto che stare ferma nello stesso punto, tanto vale provare ad andare avanti.
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