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Capitolo 1

L'amore è un potere troppo forte
perché lo si possa vincere
altrimenti che con la fuga
– Miguel de Cervantes



Nonostante la stanchezza dovuta alle ore di viaggio e malgrado l'ora, mi incammino lungo la galleria della stazione. Mi guardo intorno, alla ricerca di Shirley. Ricontrollo la sua foto sul telefono: pelle ambrata, capelli scuri alle radici e color del grano verso le punte. Le avevo scritto un messaggio non appena giunta a Folkestone, avvisandola che entro un'ora sarei arrivata a Londra.

Maledico la mia paura delle altezze: in aereo avrei impiegato meno tempo ed il viaggio non sarebbe stato troppo costoso; tuttavia, l'idea di trovarmi a migliaia di metri al di sopra della terraferma mi terrorizzava più della possibilità di restare senza un centesimo.

Sollevo lo sguardo: oltre le vetrate, il cielo si sta tingendo di rosa. Il sole sta per tramontare. Solo adesso mi rendo conto di essere sveglia da prima dell'alba e di aver mangiato pochissimo; eppure, non ho fame: ho lo stomaco chiuso, e non saprei dire se per l'ansia di iniziare una nuova vita o per il peso di ciò che ho lasciato alle mie spalle.

Londra sarà la mia casa, d'ora in avanti.

Non riesco a cogliere i discorsi delle persone che mi circondano: il mio orecchio deve abituarsi alla parlata londinese. Sapevo che non sarebbe stato facile adattarmi a tutte queste novità, ma cerco di non farmi prendere dal panico.

Mi faccio largo tra la folla, con la stessa goffaggine del brutto anatroccolo quando cerca di fuggire ricoperto da burro, farina e latte. Il borsone mi sta distruggendo la spalla, mentre con il braccio libero tiro il trolley con fatica. Delle fitte lancinanti martoriano la mia schiena. Mi domando tra quanto potrò distendermi su un materasso comodo e dormire. La stanchezza appesantisce le mie membra e con fatica riesco a muovere le gambe, irrigidite dal lungo viaggio.

«Rosela

Mi volto nel sentirmi chiamare in maniera così bizzarra: la erre moscia e appena accennata, le doppie ridotte ad un'unica lettera.

Una ragazza alta, con un vestito azzurro a fiori, sventola in aria le braccia per attirare la mia attenzione. Sul volto ha un sorriso dolce ed ampio. Non faccio in tempo ad avvicinarmi a lei che subito mi travolge in un abbraccio al quale mi sento troppo debole per oppormi. Un profumo alla vaniglia, dolcissimo ed intenso, m'investe e mi pizzica le narici.

«Sono felice di conoscerti di persona», esclama scandendo le parole, forse per timore che io possa non comprenderla.

«Anche a me fa piacere», rispondo, cercando di sciogliere l'abbraccio senza risultare maleducata.

Shirley mi stringe la mano con vigore, senza smettere di sorridere. «Devi essere stanchissima», constata, osservando il mio volto con maggiore attenzione.

Ho rifuggito qualsiasi superficie che potesse mostrarmi il mio aspetto per evitare di provare un moto di compassione nei confronti di me stessa, e, pensandoci, immagino di avere una faccia orribile: occhiaie, espressione stanca, capelli probabilmente arruffati.

Ritratto di una fuggitiva, olio su tela.

Niente, però, potrebbe superare il disordine che mi porto dentro e che non saprei come raffigurare. In che modo si descrive un vuoto caotico, una vacua sregolatezza?

Shirley prende il borsone dalla mia spalla senza che io possa controbattere. Sarebbe stato educato dirle che non era necessario e che si era già disturbata abbastanza, ma scordo le buone maniere non appena percepisco una sensazione di sollievo alla spalla.

«Seguimi, la macchina non è tanto distante.»

Mi incammino dietro di lei, lottando contro il mio corpo per spingerlo a muoversi. Stento a tenere gli occhi aperti, nonostante le luci nei negozi della galleria che sfavillano sugli oggetti esposti nelle vetrine.

«Devi avere molta fame», continua Shirley.

«A dire la verità, no.»

Usciamo dalla stazione. Ad accogliermi c'è il rumore del traffico: auto, moto, persino i celeberrimi autobus rossi. Mi sento come la protagonista di quei film ambientati a Londra, dove lei, immancabilmente, trova l'amore nella capitale e conclude la propria storia con un lieto fine ed il canonico e vissero per sempre felici e contenti. Peccato che la vita non sia una bella pellicola romantica e strappalacrime. E l'amore...

È la decisione giusta.

Non volevo scappare, ma era necessario.

Fuggire, proprio come mio padre. Ho criticato il suo atteggiamento fino ad esaurire le mie lacrime, convinta che mai sarei diventata come lui; ora, invece, mi rendo conto di essere così simile a quell'uomo che tanto ho disprezzato da farmi orrore.

«Qualche minuto e potrai sederti in macchina», Shirley interrompe il fluire dei miei pensieri e, benché non potesse saperlo, le sono grata.

Percorriamo il marciapiede che costeggia l'edificio rossiccio ed imponente della stazione, che si erge maestoso come un re. Le gugliette grigie si innalzano verso il cielo roseo e terso di questo mio primo tramonto britannico.

Tutto sembra scintillare: dalle carrozzerie delle auto alle finestre degli edifici, che riflettono i raggi di un sole arancione e morente.

È una mia impressione, forse? Un'allucinazione provocata dalla stanchezza? O davvero ogni cosa di questo posto è cangiante a tal punto da accecare?

«Eccoci arrivate!» esclama Shirley, aprendo il portabagagli di una macchina minuscola e vecchia. Sbircio l'interno dell'abitacolo: ci sono solo due sedili.

Shirley solleva il borsone e cerca di infilarlo dentro il portabagagli, lottando contro le anguste dimensioni della sua auto, la cui carrozzeria grigia mi ricorda una scatola di sardine. Dopo aver vinto la battaglia, si volta verso di me e osserva prima me e poi il trolley, grattandosi la testa.

«Non credo che entrerà dietro», indico il bagaglio rimastomi. «Lo terrò in braccio. O tra le gambe. In qualche modo mi arrangio.»

«Mi dispiace, Rosela...» dice con rammarico.

«Non ti preoccupare, per me non è un problema. E, quando hai preso questa macchina, non potevi certo sapere del mio arrivo», cerco di sdrammatizzare per non farla sentire in colpa.

Shirley annuisce e mi aiuta a sistemarmi in macchina insieme al mio trolley, che riusciamo a sistemare tra la parte inferiore del cruscotto e le mie gambe.

Una volta che anche lei è entrata nell'auto, la mette in moto e ci introduciamo nel traffico londinese.

I fanali posteriori delle auto davanti a noi mi abbagliano.

Gli occhi cominciano a farmi male per il sonno. Stringo le palpebre per proteggere le pupille dalle luci intense.

«Hai fatto un buon viaggio?»

Mugugno qualcosa di incomprensibile persino per le mie orecchie, perché articolare una frase di senso compiuto, oltretutto in una lingua che non è la mia e con la stanchezza che ho addosso, appare quasi come un'impresa titanica.

Eppure, adesso sono tranquilla: lontana dai giudizi, dalle persone che mi hanno costretto a fuggire e dai problemi che sapevo di non poter affrontare. Abbastanza distante da poter costruire una nuova vita senza che la gente sappia cosa ho fatto e perché non potevo più restare a casa mia, nella mia piccola cittadina.

Chiudo gli occhi e penso al salotto di Maria, con l'elegante pianoforte a coda e gli spartiti disseminati ovunque. Stare con lei, quasi tutti i giorni, mi consentiva di fuggire dalla realtà. Anche dopo aver iniziato la scuola di canto e recitazione mi ritagliavo del tempo per andare a trovarla. Con lei, la vita sembrava più semplice.

I sensi di colpa si fanno strada con prepotenza nel mio cuore: me ne sono andata senza avvisarla. L'unico segno che ho lasciato si trova sul tavolo della cucina. Forse mia madre ha già trovato quel biglietto che ho scritto tra le lacrime, troppo codarda per affrontarla.

L'ho delusa, ma almeno sa che le voglio bene e non volevo che soffrisse ancora a causa mia.

Ci fermiamo ad un semaforo. Shirley inizia a canticchiare un motivetto allegro, che rispecchia la grande energia e vitalità che - come ho compreso - fanno parte della sua personalità. È stata la sua gioia a colpirmi quando ci siamo incontrate online, in videochiamata.

Londra è stata la prima città alla quale ho pensato nel momento in cui ho capito che non mi restava altro da fare se non andarmene altrove. Ho trascorso nottate intere alla ricerca di un appartamento, anche condiviso con altre persone, in cui trasferirmi al più presto. Ero consapevole che in pochi avrebbero accettato una perfetta sconosciuta, giunta dall'estero in fretta e furia, quasi una criminale latitante che tenta di nascondersi per non essere catturata. Sapevo anche che con così poco preavviso non sarebbe stato facile trovare qualcuno in grado di accontentarsi di una videochiamata per conoscermi.

Shirley è stata una manna dal cielo: cercava una coinquilina per dividere le spese ed io avevo bisogno di un posto dove stare.

Non mi ha chiesto il motivo della mia fretta; la sua cordialità e la sua riservatezza mi hanno spinta a fidarmi di lei in una situazione in cui non avevo fiducia in nessuno. Neanche in me stessa.

Perché non puoi confidare in chi condanna le persone che ama all'infelicità.

Guardo fuori dal finestrino, eppure non riesco a cogliere con chiarezza ciò che vedo. Le palpebre minacciano di chiudersi.

«Ancora pochi minuti di pazienza e saremo a casa!» esclama Shirley con entusiasmo.

Fatico a comprendere le sue parole. Tutto ciò di cui necessito è un letto. Non c'è niente di meglio di un lungo sonno ristoratore per ricominciare. Svegliarsi domani, perché sarà un altro giorno. E forse anch'io sarò diversa.

«Comunque volevo dirti una cosa...» Shirley rallenta per far attraversare una coppia di ragazze.

Mi si chiudono gli occhi, ma li riapro prontamente.

«Vedi... non mi pareva il caso di dirtelo per messaggio...»

Un letto, una coperta spessa e lenzuola morbide: non chiedo altro se non qualche ora di serenità in cui non pensare a niente. Abbandonarmi all'oblio e dimenticare per un po' la mia vita.

«E quando ci siamo parlate online ancora non lo sapevo...»

Spero di non sognare, questa notte. So di cosa è capace la mia mente, che mi è stata nemica in queste ultime settimane. Si è divertita a farmi soffrire, tessendo immagini angosciose e richiamando ricordi di cui sono stata l'artefice.

«Spero non ti arrabbierai...»

Qualcosa di dolce mi culla come una ninna nanna.

Del resto, che cosa ci sarebbe di male se chiudessi gli occhi per qualche secondo?

La luce artificiale della città, così movimentata e piena di brio, si fa sfocata man mano che le palpebre si avvicinano, fino a dissolversi nel buio.

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